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Se l’immagine del diluvio evoca questa eccezionalità, suggerisce anche in qualche modo l’imprevedibilità delle situazioni che portarono all’esondazione dell’Arno e dei

suoi affluenti, tali da cogliere impreparate le autorità e le popolazioni. A differenza

del Polesine dove nel 1951 per l’alluvione nel bacino del Po si attuò un esodo di

massa di oltre 160.000 abitanti, a Firenze, nei paesi e nelle campagne del Casentino e

del Valdarno la maggioranza delle persone si trovarono invase dall’acqua e dal fango

2 Gerola e Materassi, ad esempio, riportano: «Piove dal 25 ottobre, con una breve pausa il 30 ed una più lunga dal mattino del primo novembre al mattino del 3. Dalle 14 circa gli scrosci ricominciano sempre più furiosi»; cfr. Cronaca, p. 1334. Più avanti fornirono nel dettaglio anche i dati della pioggia in Casentino dove già la sera del 3 novembre l’Arno aveva superato gli argini a Poppi.

3 Infatti, «la media annua dell’acqua che cade su Firenze, in base ai dati registrati dal 1813 al 1964, è di 823 millimetri», cfr. NENCINI 1966, p. 34. La notizia è stata riportata anche da Bargellini, in BARGELLINI 2006, p. 4, con la specifica che ai 62,2 millimetri d’acqua del 3 novembre si aggiunsero dalla mezzanotte alle 13,30 del 4 altri 120,6. L’Osservatorio ximeniano è un centro gesuitico nato a metà del XVI secolo, nel quartiere fiorentino di San Lorenzo; fu ampliato e divenne un osservatorio astronomico per opera di Leonardo Ximenes; per un approfondimento si rimanda a FERRIGHI 1932 oltre a Osservatorio Ximeniano. Per i dati sulle precipitazioni nei giorni 3-5 novembre su tutto il bacino dell’Arno si rimanda a SUPINO 1967, p. 11-12.

4 Cfr. NENCINI 1966, p. 35. Nello stesso paragrafo, dedicato a Le colpe del cielo, Nencini riferisce di altre testimonianze, come quella di un operaio del genio civile al lavoro il 3 novembre a San Donnino e quelle riguardanti rumori uditi nella città di Firenze, ma anche di rilevamenti scientifici, come lo sbalzo di pressione e di temperatura registrati dall’Osservatorio ximeniano, relativi ad un «cumulo di circostanze fenomenologiche che concorsero a provocare l’alluvione», definite «fenomeni spaventosi».

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senza alcun tipo di preavviso

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. L’alluvione ‘di Firenze’ ebbe dunque i caratteri della

sorpresa e dell’evento inaspettato del disastro del Vajont, verificatosi da appena tre

anni, ma per una serie fortunata di circostanze le perdite umane restarono ben al di

sotto delle quasi duemila sepolte dal fango nel bellunese, attestandosi nelle stime

ufficiali tra trenta e quaranta.

6

Se nel caso del Vajont la mancata evacuazione figura

oggi fra le cause della strage, per Firenze a posteriori si è parlato di una scelta che

probabilmente contribuì a tenere ‘basso’ il numero delle vittime.

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Nonostante ciò, le

polemiche per il mancato preallarme ufficiale alla cittadinanza costituiscono uno dei

temi più frequentati della letteratura sull’alluvione fiorentina, e la circostanza venne

enfatizzata nel celebre film di Franco Zeffirelli Alluvione a Firenze, dove Richard

Burton cominciava il suo appello in favore di Firenze con le parole «Tutto è

5 Le richieste di aiuto ai carabinieri dal Valdarno cominciarono a giungere intorno alla mezzanotte tra il 3 ed il 4 novembre quando la situazione dei fiumi iniziava ad apparire preoccupante. Una parte della popolazione iniziò spontaneamente a lasciare le case in aperta campagna e a mettere al sicuro gli animali, ma la maggior parte rimase isolata sui tetti dei casolari. Sporadiche furono le iniziative ‘ufficiali’ di sgombero delle persone dai centri abitati, come a Figline Valdarno dove gli abitanti con il sindaco e la giunta si rifugiarono presso il colle dell’Ospedale Serristori poco prima dell’inondazione che colpì la città intorno alle 2,30 della notte. Per questi particolari cfr. NENCINI 1966, p. 10-11.

6 In un primo tempo vennero calcolate in 33 le morti direttamente provocate dall’alluvione. Il numero dei decessi registrato nelle stime ufficiali e fissato dalla magistratura alla fine del novembre 1966 venne poi elevato a 37. Sull’elenco delle vittime si registrano pareri difformi. Gerola e Materassi, in Cronaca p. 1355-1357, proposero di considerare anche le cosiddette morti ‘indirette’, ossia i decessi dovuti «alla mancanza di assistenza», «ai gas delle cantine invase dalla nafta, al freddo e all’umidità di case senza riscaldamento, a bronchiti o polmoniti contratte durante la permanenza all’addiaccio» etc., arrivando a stimare complessivamente in circa un centinaio le vittime del disastro.

7 Come già detto, alle prime ore dopo la mezzanotte il comandante del gruppo carabinieri, colonnello Nicola Bozzi fu tra i primi ad essere allertato quando la situazione si stava facendo drammatica in Valdarno (cfr. NENCINI 1966, p. 10). Il sindaco Bargellini venne invece avvisato intorno alle 4 e mezzo dal questore, come ha ricordato anche la moglie in CARTEI 2006, p. 65-66. Contemporaneamente furono allertati anche gli ingegneri del Genio civile e il prefetto. Le prime questioni che vennero considerate furono quelle relative alla viabilità. Secondo quanto riferirono in seguito, le autorità considerarono anche l’opportunità di dare l’allarme alla cittadinanza ma in quel momento nessuno riuscì a valutare l’entità del pericolo imminente, mentre si ritenne che proprio l’allarme, ormai non più tempestivo, avrebbe determinato maggiori e imprevedibili problemi. Su questo tema cfr. NENCINI 1966, p. 31-32 e BARGELLINI 2006.

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cominciato all’improvviso, senza segnali, senza che fosse possibile sapere in tempo»

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.

È d’altra parte plausibile pensare che un qualche preavviso, seppure di difficilissima

attuazione, avrebbe consentito alle persone di mettere in salvo le proprie cose e ai

responsabili delle istituzioni di procedere con maggior calma alla gestione

dell’emergenza, a cominciare da ospedali e carceri, ma anche di quelle culturali, e di

effettuare qualche salvataggio dell’ultima ora

9

. Anche Casamassima, come vedremo,

intervenne polemicamente in questo senso.

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8 Cfr. Alluvione a Firenze, regia di Franco Zeffirelli. Italia, RAI, 1967. La questione del mancato preallarme fu tra quelle considerate nell’inchiesta della magistratura sull’alluvione. In seguito Bargellini continuò a difendere questa scelta più o meno negli stessi termini di ‘buon senso’ utilizzati all’indomani del disastro: «Dare l’allarme? Ormai era tardi, e la gente lo aveva già ricevuto a domicilio, in cucina mentre veniva preparata la colazione, o addirittura in camera, prima di metter fuori le gambe dal letto. E poi quale allarme? E quando? E come? E a chi? Per dare un allarme occorrono i mezzi e soprattutto bisogna aver condotto una preventiva intesa, fra chi lo deve dare e chi lo deve ricevere. Durante la guerra, ad esempio, veniva dato l’allarme per gli attacchi aerei, per mezzo di sirene, in modo che la popolazione, avvertita in precedenza ed anche istruita mediante prove, scendesse ordinatamente nei predisposti rifugi antiaerei. Se per avventura, o peggio se per disavventura, fosse ancora esistito, sui tetti fiorentini, l’impianto delle sirene, tutte invece smontate, ci sarebbe stato il pericolo, dando improvvisamente l’allarme, che quell’ululo, all’alba, risvegliasse nella popolazione il ricordo della guerra, il terrore del bombardamento aereo, spingendo i più solleciti nelle cantine già invase dall’acqua. Far suonare le campane? Ma quasi ormai dal tempo di Pier Capponi, le campane non avevano più un linguaggio per le adunate, né suonavano più per fuoco o per fulmine o per altra calamità. Sull’alba il rintocco della Martinella avrebbe fatto pensare alla festa della Vittoria, e le altre campane delle chiese, a qualche Messa più mattiniera del solito. Fortunatamente, proprio in virtù del giorno festivo, la popolazione civile si attardava nelle case.», cfr. BARGELLINI 2006, p. 9-10. La giustificazione ufficiale del sindaco non convinse tutta la popolazione né la stampa, dove per molto tempo venne alimentata la polemica sul mancato allarme.

9 Negli ospedali e nelle carceri si determinò una situazione di particolare caos. Come all’ospedale psichiatrico di San Salvi dove l’acqua raggiunse un livello tra i tre e i quattro metri che travolsero la farmacia con tutti gli psicofarmaci oppure all’ospedale per bambini Meyer, dove la mancanza di elettricità mise in pericolo di vita i prematuri ospitati nelle incubatrici; e ancora nella residenza Montedomini dove fu particolarmente complicato spostare i pazienti, quasi tutti infermi, ai piani superiori. Nel carcere di Santa Teresa, anch’esso dall’acqua, scoppiò una rivolta e una ottantina di carcerati riuscirono a fuggire lanciandosi dal tetto nelle acque. Su questa’ultima vicenda vedi più avanti; per le altre si può fare riferimento, ad esempio, a Cronaca, p. 1341 e NENCINI 1966, p. 16-17.

10 Nella intervista a «Il Ponte» Casamassima sostenne: «Un preallarme di alcune ore (la sera del 3) ci avrebbe consentito di porre in salvo almeno i cataloghi della Magliabechiana […], l’archivio della Biblioteca, forse alcuni pezzi più preziosi della collezione delle stampe e delle

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Ciò che divenne incontestabilmente chiaro fin da subito fu la mancanza di un sistema