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Nicchia, in cui è una Lampada, e la Lampada è in un Cristallo, e il Cristallo è come una Stella lucente, e arde la Lampada dell’olio di un albero benedetto, un Olivo né orientale né occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. È Luce su Luce…

Nella seconda parte del suo commento al versetto della Luce, Mullā Ṣadrā Shīrāzī ci precisa l’immagine di questo Cristallo, di questo specchio: la Luce di Dio non è da noi percepibile, ma presente mediatamente, attraverso la rifrazione, la specularità della Realtà muḥammadica. Tra Creatore e creazione non può essere accettata alcuna forma di incarnazione o di unificazione integrale:

Ma ecco che ti occorre conoscere, o modesto, la distinzione da farsi tra lo specchio e la persona, e come tu debba distinguere il riflesso dall’originale. Ti abbiamo già esortato a non tener conto di quanto affermano numerosi maestri di errore destinati al castigo e coloro che professano l’incarnazione e l’unificazione. 41

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3. L’immagine invisibile

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Dunque, l’aniconismo che percorre l’Islam ha per oggetto una costellazione di significati attribuiti all’immagine che non scalfisce il valore più profondo, metafisico e teologico, che questa cultura religiosa attribuisce all’immagine e all’immaginazione: un valore portato fino all’estremo paradosso per cui parliamo di immagini e immaginazioni invisibili, che devono insegnare “a non vedere”. La vera immagine, la sua realtà, è invisibile, misteriosa e paradossale; paradossale come “il Tesoro nascosto” di quell’Uno che volle “essere conosciuto”, secondo quanto recita un celeberrimo ḥadīth.

È invisibile l’immagine nel cui mistero l’uomo è costituito, come invisibile, nella Trinità cristiana, è il Verbo e la sua paradossale natura speculare: uno, nell’ousia, con il Padre; altro, nell’hypostasis, dal Padre. Per questo le immagini che vogliono riprodurre l’invisibilità nel visibile possono creare problemi e possono inquietare la coscienza religiosa. Del resto, Ebraismo, Cristianesimo e Islam, con tutte le possibili differenze, hanno conosciuto sempre al

Mullā Ṣadrā Shīrāzī, Le Verset de la Lumière. Commentaire, testo arabo a cura di M. Khājavī, trad. fr. a cura

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proprio interno la lotta contro l’avodah zarah , il conflitto anti-idolatrico, ora minimizzato 42

nelle forme dell’opposizione a un culto straniero, pagano e politeistico, ora estremizzato all’interno stesso della religione-civiltà, nel divieto di ogni rappresentazione ; e però tutte e 43

tre le religioni di Abramo hanno per fondamento un Dio che crea a sua immagine e si manifesta; tutte e tre hanno ripensato profondamente una tradizione filosofica, come quella platonica, che ci offre al pensiero e all’esperienza (soprattutto) un Bene comunicantesi generosamente nell’Idea – immagine-simbolo, non concetto astratto! – del Bene . 44

Invisibile e visibile devono richiamare a un’ineliminabile relazione paradossale. Ci troviamo di fronte a delle istanze proprie di una metafisica e spiritualità concrete per cui la specificità del visibile è costituita dalla sua costituzione sovrannaturale, misteriosa e magica. L’invisibile si rende visibile e il visibile manifesta l’invisibile.

Il precedente riferimento alla Trinità cristiana, confrontato con l’assoluta unicità del Dio musulmano (il tawhīd), assieme alla negazione dell’Incarnazione, può spingerci ancora a riflettere sulle effettive potenzialità di pensare la mediazione da parte della metafisica islamica. La sua predilezione per i neoplatonici che radicalizzano l’assolutezza dell’Uno, come Plotino (le cui Enneadi IV-VI sono lette nella cosiddetta Teologia di Aristotele) e Proclo, può sembrare andare in un senso di svalutazione della relazione reciprocamente attiva tra Dio e creazione. Cosa di cui sono esempio i mu’taziliti, i quali trasformano i logoi formali e seminali di Plotino in parole attive (kalima fā’lima), come mediazione assolutamente miracolosa dell’azione creatrice di Dio con la sua assoluta trascendenza. In questo senso i mu’taziliti, in affinità con tendenze filosofiche e teologiche ben conosciute anche in Occidente, utilizzando una metodologia razionalista, “irrazionalizzano” l’operato di Dio. “Il Kalām, scolastica dell’Islam, ha il carattere di una dialettica razionale pura, che opera sui

Per una prospettiva concernente l’ebraismo e il dibattito rabbinico, cfr. R. Fontana, Avodah Zarah.

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Un'introduzione al discorso rabbinico sull’idolatria, Mimesis, Milano-Udine 2011.

Anche nel cristianesimo occidentale, e non solo in quello protestante, si pensi a san Bernardo di Chiaravalle,

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alla sua Apologia ad Guillelmum Sancti Theodorici abbatem (OSB, I, pp. 209-215), contro il bestiario medievale: “Caeterum in claustris coram legentibus fratribus quid facit illa ridicula monstruositas, mira quaedam deformis formositas, ac formosa deformitas? Quid ibi immundae simiae? quid feri leones? quid monstruosi centauri? quid semihomines? quid maculosae tigrides? quid milites pugnantes? quid venatores tubicinantes? Videas sub uno capite multa corpora, et rursus in uno corpore capita multa. Cernitur hinc in quadrupede cauda serpentis, illinc in pisce caput quadrupedis. Ibi bestia praefert equum, capram trahens retro dimidiam; hic cornutum animal equum gestat posterius. Tam multa denique, tamque mira diversarum formarum ubique varietas apparet, ut magis legere libeat in marmoribus quam in codicibus, totumque diem occupare singula ista mirando, quam in lege Dei meditando. Proh Deo! si non pudet ineptiarum, cur vel non piget expensarum?”.

Cfr. S. Lavecchia, op. cit., p. 15: l’Idea del Bene “è una potenza (δύναμις, Resp. 509b9) che è puro

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autocomunicarsi e manifestarsi, una forza ontopoietica e iconopoietica che non risucchia ogni altro nel vortice di un geloso possesso, ma genera e sostanzia l’altro ad immagine del proprio potere”.

concetti teologici. Né la gnosi mistica (‘irfān) né quella ‘scienza del cuore’ di cui gli Imām dello shī’ismo sono stati i primi a parlare, vi hanno alcuna parte” , optando per procedimento 45

ermeneutico il più lontano possibile da ogni intellettualismo.

A testimonianza del ruolo metafisico mediatore dell’immagine c’è certamente l’imāmologia e l’angelologia ripensata neoplatonicamente da Avicenna, da Suhrawardī, e presente quanto mai nella gnosi ismailita. L’angelologia colma il baratro di solitudine di Dio – e dell’uomo, quando pensa che “No, no es cierto que sólo Dios baste” – ed è il “termine 46

medio tra la purezza del monoteismo e la molteplicità degli esistenti, […]”: è “il mondo immaginale, termine medio tra il sensibile e l’intellegibile, luogo specifico della rivelazione e del distacco spirituale” . La dimensione angelologica dell’essere è face de Dieu e face de 47

l’homme, ed è il segreto, non totalmente visibile, non totalmente invisibile, di una “intima e durevole metamorfosi del visibile nell’invisibile” . Per questo, nella soppressione averroista 48

del cosmo avicenniano delle Animae caelestes, “è tutto il destino dell’Anima che si trova messo in discussione, il destino dell’Anima il cui statuto ontologico di intermediario o di angelo minore si trova rifiutato a vantaggio dell’intelletto puro” . 49

Come avviene nell’Islam, questo Dio può perfino rimanere, nel suo essere in sé, inconoscibile, per sempre celato alla visione delle creature, e tuttavia resta il fatto fondamentale che si manifesta, come un “Tesoro nascosto” che ha voluto farsi conoscere con la creazione e nella creazione. Pertanto, anche quando si è raggiunta la più alta forma di contemplazione e adorazione, e si è superata ogni rappresentazione antropomorfa

Histoire de la philosophie islamique, cit., p. 155 (trad. it., p. 115). Per l’opposizione all’assimilazione

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dell’imāmismo a una “teologia razionale”, cfr. anche M.A. Amir-Moezzi, Le guide divin dans le shī’isme originel, Verdier, Lagrasse 2007, pp. 14-15.

E. d’Ors, Introducción a la vida angelica, Editoriales Reunidas, Buenos Aires 1941, p. 9. Testo e frase, come

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noto, molto apprezzati da Corbin. Il saggio più esemplare sulla visione corbiniana del ruolo imprescindibile dell’angelologia è Nécessité de l’angélologie, in Paradoxe du monotheisme, pp. 97-210 (trad. it., pp. 91-179). Notevole è l’influenza esercitata, implicitamente o esplicitamente, da Corbin (come da d’Ors stesso, Rilke, Benjamin, Guardini, Florenskij, Bulgakov) sulla fascinazione – estetica, almeno in primis – del pensiero contemporaneo per la figura dell’Angelo. A riguardo, si veda M. Cacciari, L’Angelo necessario, Adelphi, Milano 1986, in particolare pp. 15-25 (e p. 28, n. 30, dove c’è una critica sul tema anti-incarnazionista). Rimandiamo inoltre al bellissimo e ricco lavoro di S. Zucal, L’Angelo nel pensiero contemporaneo, Morcelliana, Brescia 2012, nella prospettiva dell’angelologia di Guardini (ma con diversi riferimenti a Corbin), e all’antologia curata da G. Agamben e E. Coccia, Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Neri Pozza, Vicenza 2009. Più specificatamente per l’angelologia islamica, cfr. C. Saccone, L’angelologia islamica e il confronto tra cristianesimo e Islam, in “Studia Patavina” 38 (1991), pp. 519-563. Per una efficace sintesi dei temi storici, religiosi e filosofici presenti nel tema dell’Angelo, si veda anche l’ispirato corbiniamente Ph. Faure, Les anges, Les Éditions du Cerf, Paris, 1988.

Ch. Jambet, Introduzione a Suhrawardī, Le livre de la sagesse orientale, cit., pp. 8-9.

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Cit. in M. Cacciari, op. cit., p. 23 (espressione di R.M. Rilke, “Lettera a Witold von Hulewicz”, in Id., Elegie

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duinesi, trad. it. di L. Traverso, Sansoni, Firenze 1959, pp. 147 ss.). Avicenne et le récit visionnaire, cit., p. 92.

raggiungendo la più pura e consapevole condizione apofatica, non si cade in un nulla cieco:

Come insegna il Quinto Imām a Jābir al-Ansārī, “Sai che nulla Gli assomiglia (cfr. Corano 42,9), e tu l’adori senza nulla associarGli”. Come spiega Shaykh Ahmad Ahsā’ī, lo adori e questa adorazione non si rivolge al vuoto di una negatività pura, perché in quest’atto di adorazione Dio stesso si manifesta in te, benché in questa Manifestazione Egli non cessi di essere invisibile alle creature. 50

È presente nel totalmente altro della sua creatura che lo manifesta senza tradirlo, perché non c’è monismo e non c’è dualismo, non c’è il tashbīh, l’assimilazione di Dio nel finito, nell’antropomorfizzazione, e non c’è il tā’tīl, la cessione a Dio di tutti gli attributi e l’annichilimento del creato, ma un rapporto di simultanea immanenza e trascendenza; rapporto che, nel commento del filosofo shī’ita Ahmad Ahsā’ī (XVIII-XIX secolo, fondatore della Scuola Shaykhī) appena citato, è pensato ulteriormente secondo la differenza tra significatio attiva e significatio passiva di un imperativo . L’imperativo può essere visto 51

come un’integrazione tra un imperativo attivante, la sua “imperazione”, che è dunque trascendente, e un imperativo attivato, esecuzione del comando. Il primo è il “far-essere” (amr fi’lī), il secondo è il “fatto-essere”. Tutto l’annoso problema di una “differenza ontologica” tra l’essere e l’ente, e l’antica questione inaugurata da Avicenna, sul rapporto tra essenza ed esistenza , diventa un’astrazione successiva, che ricade nell’orizzonte del “fatto essere”. 52

Possiamo intendere la scrittura come l’atto attivo di scrivere o come quello che ne resta, le parole scritte su un foglio di carta. Sono due cose diverse, ma tra il significato attivo e il passivo c’è un’intima relazione. Da sempre la scrittura può celare chi scrive ed essere

En Islam iranien, I, cit., pp. 193-194 (trad. it., p. 235).

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Riflessioni che fanno riferimento a un versetto del Corano (17,87): “Essi ti interrogano sullo Spirito.

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Rispondi: lo Spirito procede dall’imperativo del mio Signore”.

Per quanto la scolastica e i suoi interpreti moderni abbiano finito per attribuire ad Avicenna una teoria non

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esattamente sua, come dimostrato da T. Isutzu, in The Fundamental Structure of Sabzawari’s Metaphysics, in Sabzawari, Sharh-i Manzumah, a cura di M. Mohagheg e T. Izutsu, Teheran 1969 (cfr. Ch. Jambet, Introduzione a Suhrawardī, Le livre de la sagesse orientale, cit., p. 12, n. 5). Si veda anche, sempre di Izutsu, Unicità dell’essenza e creazione perpetua nella mistica islamica, trad. it. di F. del Vescovo, Marietti, Genova 1991, pp. 3-5. L’accidentalità dell’esistenza, come predicato di un soggetto-ente, ha per Avicenna senso solo a livello dell’analisi logica. “Avicenna si rendeva perfettamente conto che l’interpretazione della propria tesi poteva essere travisata. Perciò affermò insistentemente che non si doveva confondere l’‘esistenza' come accidente con gli accidenti normali, quali ‘marrone’, ‘bianco’, ecc. Sottolineò che l’esistenza è una specie del tutto particolare e unica di accidente, giacché la realtà oggettiva, cui si riferisce una proposizione del tipo ‘il tavolo è esistente’, fornisce un’immagine completamente diversa da ciò che viene spontaneamente suggerito dalla forma grammaticale dell’espressione” (ibidem, p. 5). Ma lo stesso Gilson, nell’opera tanto importante per Corbin stesso, come si è visto, L’Essere e l’essenza, avverte di non fraintendere l’esistenza avicenniana intendendola come un normale predicato, pur appoggiandosi alla traduzione latina: “Ed è senza dubbio per questo che, invece di dire che l’esistenza è un accidens dell’essenza, egli la designa piuttosto abitualmente come id quo accidit quidditati” (E. Gilson, L’Essere e l’essenza, trad. it. di L. Frattini e di M. Roncoroni, Editrice Massimo, Milano 1988, p. 115). Per un’approfondita analisi della teoria avicenniana dell’indifferenza delle essenze si veda anche A. De Libera, L’art des généralités. Théories de l’abstrac-tion, Aubier, Paris 1999, pp. 499-607; Id., La querelle des universaux, Seuil, Paris 1996, pp. 177-206.

interpretata per scrutare il suo segreto. Il “far essere” lascia una signatura nel “fatto essere” al quale spetta di corrispondere a tale impronta (angelica), rappresentandola-realizzandola – qui il senso di termini ampiamente utilizzati da Corbin come ḥikāyat (mimesi, imitazione) e tamathīl (rappresentazione) –, corrispondendo a essa come propria vocazione. Questa relazione di visibilità dell’invisibile nell’altro, altro che manifesta l’invisibile tra il visibile che egli è e l’invisibile a cui rimanda, tra la propria presenza e l’assenza che lo costituisce, è espressa da Ahsā’ī con il seguente esempio:

Shaykh Ahmad Ahsā’ī ricorre al seguente paragone: consideriamo un uomo in piedi (qā’im), Zayd per esempio, e il suo rapporto con l’atto di tenersi in piedi (alzarsi, drizzarsi), la posizione-in-piedi (qiyām). “Uomo-in-piedi” (qā’im) è la qualità di Zayd, l’apparizione o manifestazione di Zayd nella posizione-in-piedi (qiyām); è la manifestazione della posizione-in-piedi nella persona di Zayd, ma non è Zayd in sé, né la posizione-in-piedi in sé, in quanto realtà in se stessa. È per la posizione-in-piedi che Zayd è in piedi; ma è l’uomo in piedi che noi vediamo, non la in-piedi. Percepiamo la dimensione dell’essere in atto della in-piedi soltanto attraverso il soggetto-in piedi, chiunque sia in piedi. La posizione-in-piedi è “invisibilmente” in piedi nell’uomo-posizione-in-piedi, lo è nella modalità di una cosa manifestata da un’altra, e tuttavia è per essa che è in piedi l’uomo-in-piedi. Può essere manifestata solo da un uomo-in-piedi, ma questi ha una realtà “in piedi” per il suo di tramite, poiché è essa il principio che fa esistere un soggetto-in piedi (wojūd qā’im). Si potrebbe dire lo stesso per l’uomo-seduto, l’uomo-che-parla, ecc. Sono cose, posizioni e situazioni mostrabili in Zayd, azioni e qualificazioni manifestate nella persona di Zayd, ma che sono altro da Zayd in sé. Senza dubbio, come qualità per mezzo delle quali si conosce Zayd, e che che sono conoscibili dal fatto di Zayd, sono a sua somiglianza, e tuttavia, in quanto qualità, esse non si identificano con l’essenza (dhāt), con la persona di Zayd. Perciò si dirà che queste qualità procedono da Zayd, senza essere Zayd stesso.53

La posizione dello stare in piedi è signatura dell’uomo in piedi, a ciò è paragonata la realtà fondativa, la signatura degli Imām, che, analogamente al ruolo di Cristo, uomo (e Dio) particolare e universale, si manifesta negli uomini e non si manifesterebbe senza di loro, così come lo stare in piedi non si manifesterebbe senza esseri che sono in piedi. “L’uomo-in-piedi è il situs (il maqām) attraverso il quale e nel quale conosce Zayd chi conosce Zayd, il solo situs attraverso il quale si possa conoscere Zayd […]. Analogamente si dice che Dio è

En Islam iranien, I, cit., pp. 190-191 (trad. it., pp. 231-232).

conoscibile solo per mezzo di questi maqāmat, questi situs o posizioni realizzati esclusivamente nei – e attraverso i – Dodici Imām” . 54

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4. L’immagine non prospettica

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Ritornando all’iniziale problema di un presunto aniconismo islamico, è opportuno precisare come l’iconoclastia possa cambiare di segno a seconda dei contesti. La diffidenza per alcuni tipi di immagini rientra spesso all’interno di una critica che ha per fine un percorso che, al contrario, si regge sulle immagini e sull’immaginazione, ma volendo arrivare a un grado di contemplazione elevata, incita a una rarefazione della materia rappresentativa, all’abbandono, cioè, di raffigurazioni che possono anche essere una tappa iniziale, ma che come punto di arrivo conducono a ricadute idolatriche. L’obiettivo è una meditazione estranea alla cattura di rappresentazioni suggestive e pertanto pericolose, ancora troppo sensibili e materiali, tanto da non portare a Dio, ma da imprigionare l’anima in questo mondo. Come osserva Hans Belting a riguardo della predilezione islamica per la scrittura e il libro, “proprio il fatto che nella lettura o nella contemplazione non fossero coinvolte immagini stimolava una meditazione visuale del tutto peculiare, focalizzata su un Essere che, pur dovendo restare invisibile, era però fisicamente presente nel libro” . 55

Indubbiamente, la comprensione del valore della riscoperta del mundus imaginalis da parte di Corbin necessita di una problematizzazione del concetto di immagine. È opportuno sforzarsi di andare al suo significato “prima dell’Era dell’Arte” , cioè, nel nostro Occidente, 56

Ibidem, p. 191 (trad. it., p. 232).

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H. Belting, I canoni dello sguardo. Storia della cultura visiva tra Oriente e Occidente, cit., p. 85 (corsivi

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miei). “Scrittura e ornamento si collocano ambedue sulla soglia tra visibile e invisibile, tra presenza e assenza, senza che l’una contamini l’altra. Gli scrivani e gli artisti che ne erano artefici non riproducevano alcuna immagine, bensì evocavano un irrappresentabile, anche se, paradossalmente, a tale scopo facevano uso di mezzi visivi. È evidente come essi si siano dati il compito di purificare la percezione puramente sensoriale orientandola verso le immagini interiori” (ibidem). Osservazione importante, tenendo conto però che, almeno nella gnosi islamica di cui stiamo trattando, l’“irrappresentabile” aspira a essere rappresentato, pur in queste forme paradossali. Sempre su questi aspetti si veda anche O. Grabar, The Meditation of Ornament. The A.W. Mellon Lectures in the Fine Arts, Princeton University Press, Princeton-London 1992, in particolare pp. 119 ss.

Cfr. H. Belting, Likeness and Presence, Chicago University Press, London 1994 (trad. di Bind und Kult,

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