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Il quadro teorico integrato sul rapporto tra CU e MD, descritto nello studio precedente, potrebbe essere utile per la progettazione di strategie di monitoraggio e soprattutto di intervento per la prevenzione e il trattamento dei disturbi da comportamento

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dirompente e per creare - su misura - degli interventi in relazione agli specifici profili di Moral Disengagement e Callous-Unemotional. Infatti, lo studio analizzato suggerisce che MD e tratti CU possano combinarsi tra loro e andare ad aggravare la prognosi in bambini e adolescenti con disturbi dirompenti, del controllo degli impulsi e della condotta, in particolar modo quando entrambe le caratteristiche si manifestano con livelli molto alti. Da qui nasce l’esigenza di un trattamento che induca una diminuzione del MD e del conseguente peso dei tratti CU sulla prognosi negativa. Ciò potrebbe essere possibile integrando gli eventuali trattamenti per il Moral Disengagement, alle terapie dirette ai tratti di personalità Callous-Unemotional, già illustrati e descritti nel paragrafo 2.3. Ovviamente questo tipo di intervento dovrebbe essere inserito all’interno di un approccio multidimensionale e multi-sistemico, in cui si vada a lavorare non solo sul bambino o sull’ adolescente, ma anche sui genitori e sul contesto familiare e, quando necessario, anche sulla scuola, instaurando con essa una relazione collaborativa.

La moralità di qualsiasi soggetto include, come già affermato, due importanti componenti: una moralità cognitiva, connessa a quello che l’individuo pensa riguardo alle regole della condotta etica; e una moralità affettiva, legata al modo in cui la persona si sente di fronte ai problemi morali. La moralità cognitiva comprende la capacità di dare giudizi morali, mentre la moralità affettiva descrive le emozioni che possono indirizzare il comportamento dell’individuo senza un ragionevole processo morale, solo basandosi sulla colpa, sulla vergogna e sull’empatia. Il Moral Disengagement fa riferimento appunto ai processi di tipo cognitivo ed è proprio attraverso questi che il paziente tende a spiegare il proprio comportamento aggressivo e le conseguenze negative di esso in una luce moralmente e socialmente accettabile. Possiamo dunque sostenere indiscutibilmente che anche i meccanismi cognitivi svolgono un ruolo importantissimo nella definizione della morale della persona ed è proprio su questi meccanismi che pensiamo di intervenire.

Partendo da questo presupposto, potremmo ipotizzare che alla base dei deficit della sfera morale vi siano anche i cosiddetti pensieri automatici negativi, le relative credenze disfunzionali e i sottostanti schemi maladattivi. Potremmo andare a lavorare proprio su di essi con una terapia di tipo cognitivo-comportamentale.

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La prima cosa che potremmo dunque fare anche con questi pazienti, spesso molto giovani, potrebbe essere un addestramento ad individuare quali pensieri emergono prima di una qualsivoglia emozione, comportamento, o reazione fisiologica. Ciò potrebbe essere fatto chiedendo al paziente “Cosa ti stava passando per la mente?”, oppure ponendo domande analoghe a questa. È importante sottolineare che questa forma di elicitazione dei pensieri automatici risulta particolarmente efficace solo quando è effettuata in tempo reale; quando ciò non risulta possibile, l’analisi viene applicata alle situazioni recenti riferite, o immaginate dal ragazzo. A tal proposito potrebbe essere utile mettere in atto dei veri e propri role playing ed “esperimenti comportamentali”. I bambini e gli adolescenti, così come i pazienti più adulti, avranno bisogno all’inizio di un buon terapeuta che li guidi alla scoperta dei loro pensieri. Con un po’ di allenamento e di pratica di “automonitoraggio”, la ricerca dei pensieri automatici negativi diventerà sempre più semplice. L’automonitoraggio dei pensieri potrebbe essere realizzato con ausili tecnici, tra cui gli Schemi ABC (Beck, 1995) e la “registrazione del pensiero” (Beck, 2013). Ovviamente tali tecniche meta-cognitive non si possono usare con pazienti troppo piccoli, ma sono applicabili in soggetti preadolescenti.

I pensieri automatici negativi sono “idee” rigide e assolute, che attivano emozioni negative molto intense, frequenti e durevoli nel tempo e che di conseguenza non favoriscono un positivo processo di cambiamento nel paziente. Essi non aiutano né a lavorare con il terapeuta, né a vedere in modo corretto gli scopi del trattamento e generano quindi demotivazione, ansia e depressione, ostacolando il raggiungimento di ogni obiettivo dell’individuo.

Potremmo ipotizzare che un adolescente con disturbo da comportamento dirompente, MD e alti tratti CU abbia delle “pretese assolute” e quindi, la convinzione irrazionale di dover ottenere sempre ciò che si vuole (e con ogni mezzo), oppure che possieda delle visioni assolute su di sé, considerandosi ad esempio non amabile, e sull’altro che viene dunque sempre definito come ostile, talvolta anche generalizzando questa idea. Dovremmo insegnare al giovane che ciò prova e come si comporta dipende da quello che pensa, in particolar modo da queste idee irrazionali. All’inizio potrebbe essere complicato individuare tali pensieri irrazionali: poiché automatici, l’individuo non ne è immediatamente consapevole. La maggior parte dei pazienti, primi fra tutti quelli

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molto giovani, non sono consci del fatto che siano i pensieri la causa di emozioni sgradevoli e di conseguenze comportamentali indesiderate. Ancora più difficile diventa la loro identificazione per i bambini, a causa del minor grado di sviluppo cognitivo raggiunto.

Una volta che lo psicoterapeuta è riuscito ad aiutare il giovane paziente ad identificare i propri pensieri automatici negativi, le credenze irrazionali e gli schemi maladattivi ad essi sottostanti può iniziare l’effettivo processo di cambiamento, mettendo in pratica la “ristrutturazione cognitiva”: una tecnica cognitiva che consente al soggetto di mettere in discussione i propri pensieri automatici negativi, cercando di coglierne l’effettiva validità, logicità o utilità per poi andare a sostituirli con altri più funzionali. Ciò potrebbe essere possibile, in primo luogo, attraverso l’utilizzo dei cosiddetti interventi verbali, considerati anche l’essenza della ristrutturazione cognitiva (Montano, 2015). Vengono poste al soggetto una serie di domande attraverso il “dialogo socratico” che permetta appunto di far affiorare tutte le debolezze e le inesattezze dei pensieri automatici negativi. Con la ristrutturazione cognitiva potremmo, ad esempio, modificare il pensiero “gli altri sono cattivi, ostili nei miei confronti”, in “alcuni ragazzi sono gentili con me, altri si comportano male”. A tal proposito, potrebbero poi essere efficaci attività, svolte in setting individuale, incentrate sulla ricerca degli aspetti positivi dei comportamenti apparentemente ostili di persone con cui ci si è trovati in conflitto, con lo scopo soprattutto di ridurre nella mente del paziente il bias di attribuzione ostile delle intenzioni altrui e sedare così la sete di vendetta: estirpare il bias di ostilità dovrebbe aver l’effetto di ridurre i meccanismi di disimpegno che vengono applicati sulla vittima, tra cui il meccanismo dell’attribuzione di colpa e quello della duemanizzazione. Per far questo, potrebbero essere svolte alcune attività mirate a ribaltare l’attribuzione ostile e il significato di un comportamento altrui, utilizzando ad esempio schede con le seguenti domande: “Quali altre intenzioni poteva avere l’altro in origine? Cosa può esser successo nella mente del soggetto? Quali sentimenti può aver provato?”. Questo lavoro è mirato a migliorare ed affinare le capacità di perspective taking e a rivedere la scena limitatamente come una dinamica relazionale, che può esser modificata in corso d’opera in base alla relazione stessa tra gli agenti dell’episodio. L’altro può esser diventato ostile in un certo episodio, ma l’intenzione in origine non era ostile; quindi

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può essere utile portare l’adolescente a vedere diversamente l’altro, facendogli comprendere che un comportamento negativo può dipendere da insicurezze, fragilità, stile di apprendimento che l’altro si trova a dover fronteggiare. Ciò potrebbe portare il paziente a vedere la sofferenza di colui che si è mostrato ostile e negativo e provare per lui sentimenti positivi, di compassion.

Per facilitare la ristrutturazione cognitiva nel ragazzo con disturbi del comportamento dirompente potremmo inoltre utilizzare:

- l’analisi dei costi e dei benefici (Burns, 1980) legati al mantenimento dei pensieri disfunzionali;

- la normalizzazione dei pensieri, delle emozioni e dei comportamenti disfunzionali per poterli quindi accettare e poi gestire;

- il distanziamento e quindi, l’incoraggiare il giovane paziente a considerare i propri pensieri o credenze dalla prospettiva di una terza persona;

- il problem solving, fondamentale per ottimizzare le possibilità di soluzione e il raggiungimento di un obiettivo (Beck, 2013; D’Zurilla e Nezu, 2006); - il reframing e la modifica del locus of control;

- la modifica delle attribuzioni;

- il riorientamento positivo, anche per favorire la messa in atto di coping più soddisfacenti.

La ristrutturazione cognitiva può avvenire infine ricorrendo all’utilizzo di alcuni interventi di tipo comportamentale, tra cui il role playing (Salter, 1949) e il social skills training (Bandura, 1969; Lazarus, 1966; Wolpe, 1958).

Tali tecniche comportamentali, come vedremo, possono anche essere utilizzate non solo ai fini di indurre ristrutturazione cognitiva, ma per ridurre i comportamenti antisociali in questi giovani pazienti con disturbi del comportamento e alti tratti Callous-Unemotional e Moral Disengagement.

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Si pensa che, nell’applicazione di questa tecnica con bambini più piccoli, il terapeuta debba tenere un atteggiamento più direttivo ed utilizzare argomentazioni realistiche, in quanto il bambino non è ancora cognitivamente in grado di ragionare in termini astratti. Un modo per aiutare i più piccoli potrebbe essere leggere insieme un elenco di pensieri utili e funzionali e trovare quelli che potrebbero essere più adatti alle sue specifiche situazioni problematiche. In generale, invece lo psicoterapeuta dovrebbe evitare sia di dare risposte consolatorie, che assumere un atteggiamento giudicante. Le emozioni del paziente dovrebbero essere infine sempre validate ed accolte, perché lo scopo finale non è quello di non provare più emozioni negative ma di ridurne l’intensità e di conseguenza l’impatto sul benessere quotidiano.

Alla “ristrutturazione cognitiva” potrebbe essere utile affiancare una psicoterapia che vada a lavorare specificatamente sul Moral Disegagement e soprattutto sui meccanismi che stanno alla base di esso.

Dal momento che la “Ridefinizione della condotta riprovevole” vede il coinvolgimento di ben tre meccanismi di disimpegno morale, sarebbe auspicabile promuovere negli adolescenti con disturbo da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta la consapevolezza della negatività delle loro azioni, messe in atto con comportamenti aggressivi e/o delinquenziali in uno specifico episodio. Ciò potrebbe essere possibile, facendo scrivere in un primo momento ai soggetti un elenco di definizioni attraverso le quali descrivere la loro condotta negativa relativa ad un dato episodio. Ad esempio, attraverso una scheda: “Come valuti la tua condotta? Cerca almeno cinque modi per definirla”. Successivamente, la loro condotta negativa in quello stesso episodio, potrebbe essere definita e commentata oggettivamente da adolescenti esterni alla vicenda: il minore potrebbe essere accompagnato a fare delle “interviste” ad altri pari, nelle quali - magari anche omettendo il fatto di esser lui stesso il protagonista della scena narrata - chiedere: “Come valuti la condotta del protagonista della storia? Cerca almeno cinque modi per definirla”. Le interviste potrebbero anche essere effettuate, registrate e poi commentate con il terapeuta. L’adolescente in questo modo potrebbe fare da “reporter” e documentare la modalità con cui altri adolescenti definiscono certe condotte. Attraverso questo lavoro emerge e si mette in luce un’utile discrepanza tra

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la visione dell’autore della condotta negativa e la visione di soggetti esterni non coinvolti nella scena. La consapevolezza di questa discrepanza può indurre nella mente dell’adolescente con disturbo da comportamento dirompente una perturbazione cognitiva circa la natura positiva dell’azione adottata (Muratori et al., 2016).

Un altro possibile intervento, da attuare per abbassare la probabilità di utilizzo del disimpegno morale, è quello centrato sul meccanismo di disimpegno di “Distorsione delle Conseguenze”. Ciò potrebbe essere realizzato, facendo pensare agli adolescenti un elenco dettagliato di conseguenze negative del proprio comportamento e l’impatto che queste possono avere nella relazione con l’altro e sull’altro. Per questo lavoro sarà utile utilizzare le fasi dei meccanismi del Problem Solving, utilizzate anche nel modello di trattamento Coping Power Program (Muratori, Polidori, Ruglioni, Manfredi e Milone, 2012) facendo concentrare gli adolescenti in particolar modo sulla parte relativa alle conseguenze. In alcune Case Circondariali in Emilia Romagna, con autori di reati anche minorenni, vengono già effettuati dei percorsi sulla responsabilizzazione e presa di coscienza rispetto alle conseguenze dei propri comportamenti sull’altro (Muratori et al., 2016). Il Problem Solving è stato anche utilizzato nei progetti di promozione di comportamenti morali nell’ambito dell’educazione alla legalità (Boda e Landi, 2005).

Questi due primi ipotetici interventi descritti dovrebbero mediare direttamente queste specifiche componenti del disimpegno e ridurne l’impatto sull’individuo con disturbo da comportamento dirompente.

L’applicazione del Coping Power Program (Ruglioni et al., 2009; Muratori et al., 2012b) con gli adolescenti e numerosi altri dati della letteratura hanno messo in evidenza l’importanza del setting di gruppo. Il gruppo, in generale, può sostenere processi di identificazione dell’adolescente e favorire la cooperazione, soprattutto attraverso quei momenti di aiuto reciproco e confronto che si vengono a creare durante le attività. Basare l’identificazione sulla motivazione a cooperare può aiutare il giovane a condividere esperienze, azioni ed emozioni con il gruppo dei pari. In tal modo si va a delineare anche un equilibrio funzionale, oscillante tra i bisogni di individuazione e differenziazione. Inoltre, la condivisione del percorso terapeutico con altri individui con caratteristiche e problematiche simili diminuisce il timore di essere

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etichettati come “malati”, facilitando di conseguenza l’alleanza terapeutica e la compliance al trattamento (Muratori e Lambruschi, 2013).

Partendo da questi presupposti, l’identificazione da parte dell’adolescente in gruppi di pari e, in particolar modo, in gruppi di pari positivi potrebbe andare a promuovere l’impegno sociale, disincentivando l’uso dei meccanismi di disimpegno in generale. Altri studi, inoltre confermano l’importanza cruciale - ma in senso negativo - dell’influenza del gruppo dei pari, del contesto scolastico e di residenza, come fattore di rischio in adolescenza per lo sviluppo di comportamenti delinquenziali (Elliott, Hamburg e Williams, 1998; McCord, 1997; Dishion, McCord, e Poulin, 1999). In più, è stato visto che quei ragazzi che iniziano a presentare comportamenti antisociali nella tarda infanzia o all’inizio dell’adolescenza solitamente realizzano successive trasgressioni prevalentemente in gruppo (Loeber, Farrington, Stouthamer e Van Kammen, 1998).

Esistono interventi per ridurre i comportamenti antisociali legati all’influenza dei pari ed essi si basano, prima di tutto, sulla riduzione dei contatti tra pari devianti e, in secondo luogo, sulla promozione delle abilità prosociali nel singolo soggetto (Hawkins e Weis, 1985). In quest’ottica, diventa molto importante aiutare un adolescente con disturbo da comportamento dirompente ad entrare a far parte di un gruppo di pari positivi e prosociali con cui potersi identificare determinando un allontanamento dai pari devianti. Così si andrebbe a promuovere uno stabile cambiamento dell’immagine del sé dell’adolescente, che potrebbe contribuire a potenziare i meccanismi di impegno morale e nell’aiuto del prossimo. Viceversa, potrebbe essere utile, un percorso preventivo sull’immagine del sé dell’adolescente deviante, che vada a valorizzarne gli aspetti positivi, per far si che si percepiscano “all’altezza” di frequentare pari positivi quindi, facilitare l’aggregazione e l’appartenenza a gruppi prosociali. (Muratori et al., 2016). Da promuovere è allora l’idea che tra gli adolescenti devianti e adolescenti prosociali non vi sono differenze di capacità personali deficitarie, ma differenze nelle traiettorie evolutive. Potrebbe essere utile far riflettere l’adolescente sul percorso evolutivo che ha effettuato dall’infanzia all’adolescenza e quali possono essere stati gli ostacoli biologici ed ambientali che ha incontrato e che, con l’adeguata consapevolezza, potrebbe superare. L’adolescente, con la guida del terapeuta, potrebbe diventare un esperto dei suoi personali “meccanismi eziopatologici”. Ciò

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dovrebbe però esser fatto di pari passo all’implementazione delle social skills. I programmi “Life Skills”, già sperimentati positivamente in numerosi contesti ed efficaci nell’ambito della prevenzione primaria, hanno alla loro base la “Teoria dell’Apprendimento Sociale” di Bandura (1977), secondo la quale l’apprendimento è un’acquisizione attiva, che avviene attraverso la strutturazione e la trasformazione dell’esperienza. Tra le abilità da implementare potremmo prevedere quelle per le relazioni interpersonali. Esse implicano la capacità di interagire in modo positivo con gli altri, saper creare e mantenere relazioni significative, fondamentali per il benessere psico-sociale, ma anche essere in grado di interrompere relazioni in modo costruttivo. Rientrano in quest’area alcune competenze comportamentali basilari nella relazione con l’altro, che sono:

- la comunicazione non verbale (le espressioni facciali, il tono della voce, il modo di abbigliarsi, il modo di gesticolare ed il contatto visivo);

- la comunicazione verbale (fare richieste chiare, rispondere in modo efficace alle critiche, esprimere in modo chiaro le emozioni);

- l’azione (aiutare gli altri, allontanarsi dalle situazioni negative, prendere parte ad attività positive) (Grant Consortium, 1992).

Inoltre potrebbe essere accresciuta, attraverso l’implementazione delle capacità empatiche, quella di comprendere gli altri, di “mettersi nei loro panni” anche in situazioni che non ci sono familiari. Ciò migliorerebbe le relazioni sociali, soprattutto nei confronti di diversità etniche e culturali, facilitando l’accettazione e la comprensione verso le persone più deboli che hanno bisogno di aiuto. Tali abilità potrebbero essere implementate, parallelamente al lavoro di gruppo, facendo fare all’adolescente esperienze pratiche. In setting individuale o di gruppo, con la mediazione e la supervisione del terapeuta, potrebbero essere svolti dei role playing di scene specifiche in cui devono esser fatti degli accordi per risolvere un problema in modo pacifico, oppure potrebbero essere organizzate delle “uscite” vere e proprie in cui l’adolescente possa vivere situazioni in cui dovrà far ricorso alla mediazione. Lo sviluppo di tali abilità consentirebbe all’adolescente con disturbo da comportamento dirompente di adattarsi in modo più efficace anche in contesti prosociali, in cui

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appunto esse vengono mostrate con maggior frequenza, rispetto a ciò che accade nei gruppi devianti.

Con questa tipologia di pazienti, si può anche ipotizzare la messa in pratica di attività volte ad aumentare la forza di volontà e quindi far sperimentare agli adolescenti una modalità positiva di utilizzo della forza. In primis, sarebbe necessario far comprendere al ragazzo che questa tipologia di forza serve all’uomo per raggiungere piccoli obiettivi quotidiani, ma anche grandi traguardi della vita, facendo anche capire che ognuno è capace di aumentarla. A tal fine è utile stimolare gli adolescenti a prendere un impegno preciso e cercare di rispettarlo. Quando le persone si impegnano su un progetto preciso, stabilendo cosa fare, dove, come e quando, hanno una probabilità tre volte superiore di realizzare i loro obiettivi. È importante creare una lista di motivazioni molto forti che portino a raggiungere l’obiettivo prefissato; lista da leggere ogni mattina e ogni volta in cui si è tentati di abbandonare l’obiettivo, oppure non si ha voglia di perseguirlo. Trovare la giusta motivazione per andare avanti è talvolta duro, ma è fondamentale avere qualcosa o qualcuno che ci aiuti sempre. Un elenco di motivazioni è un buon supporto, in questo senso. Ma per alcuni l'aiuto è rappresentato da un simbolo, che sia una canzone, una frase, un libro o un film, che deve essere sempre a portata di mano. Sempre presente a sostenere e ricordare di andare avanti. La seconda regola è sviluppare un obiettivo ragionevole ed elaborare un progetto che permetta di perseguirlo. Gli obiettivi quindi non possono essere irrealistici. Si dovrebbe iniziare con cose molto semplici e concrete, da realizzare con scadenza giornaliera, o al massimo settimanale (Muratori et al., 2016).

Infine sarebbe interessante approfondire gli effetti di particolari arti marziali come il Tai Chi Chuan. La pratica del Tai Chi Chuan consiste principalmente nell'esecuzione di una serie di movimenti lenti e circolari che ricordano una danza silenziosa, ma che in realtà mimano la lotta con un avversario immaginario. La pratica oculata e costante di queste tecniche, rende il corpo più agile e armonioso, migliora la postura ed ha un effetto benefico sul sistema nervoso e sulla circolazione. Scopo di questa disciplina è stimolare il libero fluire dell'energia vitale e così ristabilire armonia ed equilibrio tra corpo, mente e spirito. Questo potrebbe a sua volta stimolare le capacità di autocontrollo dell’adolescente e portarlo a stare in gruppo in modo maggiormente cooperativo. Attraverso la pratica del Tai Chi Chuan si raggiunge il rilassamento

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mentale e si favorisce la concentrazione. Altri benefici consistono nel miglioramento della mobilità articolare, in un aumento della profondità della respirazione con una conseguente ossigenazione del corpo in maniera ottimale e quindi, nell’eliminazione

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