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D-dimero

Il dimero D è un prodotto di degradazione della fibrina che in condizioni normali è presente in piccole quantità nel sangue circolante (<500 ng/ml) ma che aumenta notevolmente (>500 ng/ml) tutte le volte che nell'organismo si instaura un meccanismo di trombosi con aumento della fibrinolisi endogena.

Dall’analisi complessiva dei dati ottenuti in oltre 900 pazienti sono stati derivati valori di sensibilità e specificità del test rispettivamente pari a 97% e 45% (124).

A causa dell’elevata sensibilità del test, concentrazioni plasmatiche di D- dimero <500 ng/ml hanno un elevato valore predittivo negativo per embolia polmonare (>95% nella maggior parte degli studi) che consente di escludere l’embolia polmonare. Per contro, data la scarsa specificità, valori >500 ng/ml non consentono di porre diagnosi di embolia polmonare: tali livelli sono frequentemente riscontrati in pazienti ospedalizzati, in ambito ostetrico, nelle vasculopatie periferiche, nei pazienti neoplastici, nelle malattie infiammatorie croniche ed anche nell’età avanzata.

Il suo dosaggio può essere effettuato con varie metodiche fra le quali il SimpliRED - test di agglutinazione -, il Vidas – un Enzyme-Linked Immunoadsorbent Assay rapido, molto sensibile – ed il nuovo test al lattice MDA.

Come di norma, la valutazione della probabilità clinica deve precedere e guidare la scelta di eseguire o meno il dosaggio del D-dimero: in caso di alta probabilità clinica di embolia polmonare, il valore del D-dimero non offre indicazioni aggiuntive e, pertanto, questa indagine clinica è in questi casi del tutto superflua.

Per contro, nei pazienti con bassa o intermedia probabilità clinica, la negatività del test esclude l’embolia evitando così ulteriori approfondimenti

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importante nel ridurre il numero delle scintigrafìe o TC spirali che verrebbero inutilmente eseguite nei pazienti con sospetto clinico di embolia polmonare (124,125,126).

Inoltre, lo studio di Palareti et al. ha documentato una che le recidive tromboemboliche sono altamente improbabili se i livelli di D-dimero si mantengono normali dopo la sospensione dell’anticoagulante (127).

Nell’embolia polmonare, in fase acuta, diminuiscono i livelli di fibrinogeno, probabilmente per l’attivazione della fibrinolisi endogena, e contemporaneamente salgono i livelli del D-dimero.

Stato trombofilico

Valutare lo stato trombofilico significa analizzare il sistema della coagulazione alla ricerca di alterazioni che possano determinare uno stato di ipercoagulabilità.

Nel 30-40% dei pazienti con tromboembolia venosa primitiva, questo test individua anomalie dell’emostasi (specialmente sindrome antifosfolipidi e deficit di antitrombina III, proteina C, proteina S, fattoreV di Leiden) (128, 129).

Di norma queste alterazioni hanno bisogno di interagire con fattori di rischio acquisiti affinché si realizzi la trombosi; infatti, raramente si associano a tromboembolie idiopatiche (130). Un esempio è il difetto del fattore V (di

Leiden), presente nel 5% della popolazione e nel 20% dei pazienti con trombosi: da solo aumenta il rischio di tromboembolia di 3-5 volte ma, in associazione con terapia estrogenica, lo aumenta a 35 volte (4).

Numerosi studi hanno analizzato le frequenze delle varie alterazioni, ma hanno preso in esame popolazioni diverse e, perciò, hanno rilevato percentuali di rischio discordanti.

Comunque, le più comuni trombofilie sembrano essere la resistenza alla proteina C attivata, che ha una prevalenza nella popolazione generale del 5% del 20% e nei soggetti con trombosi venosa profonda, e la mutazione G20210A del gene della protrombina che ha una prevalenza del 3% nella popolazione generale e del 7% nei soggetti con trombosi venosa profonda; il deficit di proteina S, C e antitrombina III e la presenza di anticorpi antifosfolipidi sono meno comuni (131) con una prevalenza nella popolazione generale rispettivamente dello 0,1%,0,3% e 0,02% e nei soggetti con trombosi venosa profonda del 1-5%, 3-5%, 2%.

La mutazione del fattore V (di Leiden) e la mutazione G20210A del gene della protrombina sono i polimorfismi genetici noti più comuni che predispongono ad un primo episodio di tromboembolismo. Il loro ruolo invece come fattori di rischio per la recidiva di fenomeni tromboembolici, una volta sospesa la terapia anticoagulante, rimane tuttora controverso.

Numerosi studi hanno evidenziato che soggetti eterozigoti per la mutazione del fattore V di Leiden, senza altri difetti genetici coesistenti, non hanno un

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se paragonati a soggetti che non hanno tale alterazione. Analogamente soggetti con mutazione eterozigote del gene della protrombina non presentano un maggior rischio di recidiva dopo un primo evento di tromboembolismo venoso rispetto a soggetti che non presentano tale alterazione.

I soggetti, invece, che presentano una mutazione omozigote del fattore V di Leiden o una mutazione eterozigote sia del fattore V di Leiden sia del gene della protrombina hanno un rischio di ricorrenza di fenomeni tromboembolici significativamente più elevato se paragonati a soggetti con mutazione eterozigote del fattore V di Leiden.

Sono poche le situazioni in cui può essere chiaramente raccomandata una valutazione dello stato trombofilico: ne vale la pena in pazienti di età inferiore ai 50 anni con embolie polmonari idiopatiche ricorrenti ed in quelli che hanno una importante storia familiare di tromboembolie documentate (4); dovrebbe essere testato anche in pazienti con trombosi di insolita severità o inusuale localizzazione, per decidere, di conseguenza, se prolungare il trattamento anticoagulante (131).

TERAPIA

Il trattamento della fase acuta dell’embolia polmonare varia a seconda della criticità o meno del quadro clinico, per cui è fondamentale eseguire una stratificazione del rischio (2).

Nelle embolie acute definite “ad alto rischio”, in cui il paziente si trova in condizioni critiche con instabilità emodinamica si provvederà, innanzitutto, a fornire una terapia di supporto cardiorespiratorio al fine di stabilizzare il paziente; in assenza di controindicazioni, si può procedere con la terapia fibrinolitica, mediante rappresentato dell’Attivatore tissutale del Plasminogeno (rtPA) (2). Successivamente, e secondo criteri standardizzati (2), si somministre terapia anticoagulante rappresentata da infusione endovena di eparina non frazionata alla dose di 18 UI/Kg/h, con successivi adeguamenti posologici secondo il valore dell’aPTT (da mantenere fra 1.5 e 2.5 volte il valore normale) (2). In caso di controindicazioni assolute o di inefficacia della trombolisi, si può optare per trattamenti invasivi rappresentati dall’embolectomia meccanica con catetere in arteria polmonare e dall’embolectomia chirurgica (2)

Nei pazienti non ad alto rischio la terapia della tromboembolia polmonare prevede in linea di massima l’uso di anticoagulanti ad azione rapida come l’eparina, da iniziare, in assenza di controindicazioni, non appena emerso il sospetto clinico, seguita da anticoagulanti orali (2). Tuttavia nel caso dei

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terapia fibrinolitica per pazienti selezionati dopo aver valutato i rischi di sanguinamento (2).

La terapia per questi pazienti consiste in eparina non frazionata (80UI/Kg) per via endovenosa in bolo, seguita o da un infusione della stessa come precedentemente indicato, o dalla somministrazione sottocutanea di fondaparinux (132) o di eparina a basso peso molecolare (2). Alcune eparine a basso peso molecolare, fra cui enoxaparina, sono state confrontate con l’eparina non frazionata in studi clinici controllati, su pazienti con TVP ed EP, mostrando efficacia ed effetti collaterali simili tra loro e risultando più maneggevoli (133,134).

A distanza di 24-48 ore dall’inizio della terapia eparinica, deve essere iniziata, se non controindicata, la terapia anticoagulante orale (TAO) con dicumarolici (antagonisti della vitamina K, necessaria per la sintesi di vari fattori della coagulazione), preferibilmente Warfarin. Le due terapie rimangono embricate fino a quando il valore di INR (International Normalized Ratio) non abbia raggiunto il valore minimo del range terapeutico (fra 2 e 3) per due valori consecutivi; solo allora è possibile sospendere l’eparina.

La durata della TAO è tutt’ora argomento molto discusso. Dalle ultime linee guida è emerso che va proseguita per un periodo variabile di:

• almeno 3 mesi, se la malattia tromboembolica è secondaria a fattori di rischio reversibili (interventi chirurgici, immobilizzazione, ecc.)

primitiva, se sono presenti fattori di rischio irreversibili o in caso di malattia tromboembolica ricorrente oppure in caso di presenza di anticorpi antifosfolipidi, mutazione omozigote del fattore V di Leiden, eterozigosi per la mutazione G20210A del gene della protrombina associata a eterozigosi per la mutazione del fattore V di Leiden.

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