scadere nel 1936), è durato almeno fino alla metà degli
anni Settanta. Se poi si considera che, in fondo, al
piano della Tekne
74, degli anni Settanta, si è attribuito
soltanto il carattere di mero strumento edificatorio e
che le successive varianti non hanno visto la luce,
bisognerà concludere che il disegno resta ancora, nelle
linee essenziali, quello di oltre novant’anni fa,
concepito in condizioni di emergenza. Come se
l’emergenza continuasse. Ma questa è la storia della
città ricostruita (o, meglio, della città ancora da
costruire?), della
città incompiuta, che è poi la storia dei nostri anni nella loro proiezione spaziale, nei sistemi di relazione più ereditati che costruiti, nell’incapacità della rigida maglia ortogonale di reggere i flussi e il movimento, nell’impossibilità di ricompattare in un unicum urbano, di una qualche qualità, nuove e antiche marginalità, sempre più disgregate: la storia della società messinese con i valori civici che ha saputo esprimere.Il futuro però sarà, acriticamente svincolato dalla storia, e dai valori territoriali anche simbolici, affidato al permanente uso patrimoniale dello Stretto, senza ricadute produttive pubbliche, ma solo particolari? E allora possono ancora immaginarsi funzioni che si colleghino ai processi di un territorio, letto come storia sedimentata? Si riproporrà, il disegno di una città
che si disisola e che potrebbe agganciare la nuova rete di relazioni prodotte dall’«arco etneo», quello indotto dalla progressiva intermodalità catanese e dalla dirompente novità da Gioia Tauro a Pozzallo e a Malta? O questo è solo nello zigzagare della intellettualità «esigente» che si crogiuola tra malinconia e impotenza. Anche la nostalgia del luminoso talento visuale dello Stretto non sembra più varcare il grigio delle assuefazioni.
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FIRENZE: IL DOPOGUERRA
Bernardo Berenson in un articolo sulla ricostruzione del centro di Firenze114 ricorda che fino a qualche decennio prima
si ragionava sull’opportunità di distruggere Ponte Vecchio115:
poco pratico, incapace di accogliere flussi sempre crescenti di persone, affollato di botteghe pericolanti. Ciò nondimeno dal 1945 vennero indetti i concorsi per la ricostruzione dei cinque ponti cittadini minati dai tedeschi.
Sembra lecito domandarsi cosa sia capitato nel mezzo. La guerra certamente. Chiave di volta di tutto il XX secolo, è la risposta degli storici a gran parte delle domande che gli vengono poste, e non a torto, né il nostro caso può costituire eccezione. Ma se comodamente possiamo individuare nella guerra la causa prima e immediata di quanto accaduto negli anni seguenti ad essa, dobbiamo comunque tenere presente che non può trattarsi della sola; tanto più che il mutato atteggiamento rispetto alle preesistenze non fu l’eccezionale risposta ad un evento eccezionale - o almeno smise presto di
114 B. BERENSON,Come ricostruire il centro di Firenze demolita, «Il Ponte», n. 1, Firenze 1945. Vedilo ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 67.
115 “Nella scia di quel ciclone di vandalismo che abbatté le mura della città e
esserlo - e alimentò il dibattito anche quando le ragioni della ricostruzioni avevano perso in vigore.
La nostra ricognizione vuole mettere in luce le cause che hanno modificato l’approccio all’ambiente antico, capire storicamente quand’esso acquisì rilevanza e indicare le conseguenze che investirono i modi della pianificazione e della tutela in forza dell’inedito interesse. Per fare questo ci avvarremo dei contributi dei più impegnati intellettuali del tempo, lasciandogli non raramente la parola, ché quanto già detto chiarissimamente nell’emozione di quegli anni non ha ragione di essere rimaneggiato. Le pagine di riviste e quotidiani furono i luoghi dei più accesi confronti: Casabella Continuità e
Urbanistica le più impegnate.
Dalle proposte della ricostruzione di Firenze fino ai due congressi del 1957 è l’intervallo di tempo che abbiamo stimato utile per dimostrare i nostri argomenti e per condividere con il lettore il fascino di quegli anni fertilissimi di pensiero, durante i quali per la prima volta in una coralità polifonica si espressero i le idee necessarie affinché il Paese si dotasse degli strumenti per una crescita globale e culturalmente sostenibile; e nei quali si formarono gli assetti disciplinari dell’oggi in Architettura. La prima occasione: Firenze116
All’alba del 4 agosto 1944 i tedeschi, per rallentare l’avanzata delle truppe alleate, facevano tabula rasa di intere strade del centro, minavano le case ed esplodevano tutti i ponti, ad eccezione del solo Ponte Vecchio, risparmiato per aver solleticato la sensibilità romantica del comando del Reich.
L’eccezionalità dell’accaduto fu presto chiara a tutti. Le città che durante la guerra furono bombardate, presentavano sì molti sventramenti, ma secondo uno schema a macchia di leopardo, magari su porzioni di isolati, o su sezioni di cortine, e spesso per ogni certo numero di fabbriche distrutte, altrettante restavano illese. Insomma, nella città, le lacune discontinue
116 Le notizie storiche di questo capitolo sono ricavate integralmente da due
fonti. Il monografico sulla ricostruzione del centro di Firenze: «Urbanistica», n. 12, 1953; e la pubblicazione di G. K. KOENIG,Architettura in Toscana 1931- 1968, Torino, ERI. 1968.
degli strati urbani furono la diretta conseguenza della casualità con la quale venivano sganciate le bombe. Gioco forza, in casi simili la ricostruzione procedeva per risanamento e convenzionalmente si adottarono dei criteri quali l’altezza degli edifici, l’allineamento del perimetro117, etc. A Firenze questo
non accadde.
Se, infatti, il capoluogo toscano fu relativamente risparmiato dai bombardamenti aerei, subì un tipo di devastazione diversissima: integrale per una ben determinata quantità urbana. Procedendo da ovest verso est i caduti furono: il ponte della Vittoria, il ponte alla Carraia, il ponte di Santa Trinita, il ponte alle Grazie, il ponte a San Nicolò; infine avendo accettato di risparmiare Ponte Vecchio furono minati gli edifici sul lungarno Acciaiuoli sì che le macerie servissero allo scopo tattico. Per la prima volta ci si trovò a discutere non tanto dei modi del risanamento o di integrazione di nuove fabbriche frapposte a quelle preesistenti, quanto di un progetto di ricostruzione di una porzione compatta, omogenea, fortemente stratificata e determinante l’identità civica. Non si è trattato di perdere singole fabbriche o di distruggere semplici luoghi, ma i veri e propri luoghi della memoria.
In questi termini posto il problema, non sorprende come la faccenda abbia subito alimentato un ampio dibattito cui parteciparono architetti, intellettuali e urbanisti. Un evento collettivo e certamente una gran prova per la democrazia nascente118. Fra il ’45 e il ’47 è un susseguirsi di articoli sui
maggiori giornali dell’epoca119. Si avanzano proposte, si discute
sui modi e sui mezzi. Le posizioni adottate sono molteplici, data la complessità del problema, e solo con una certa approssimazione si possono individuare delle angolazioni ricorrenti.
117 Questi erano per esempio i suggerimenti di Roberto Pane per le
ricostruzioni dei centri storici. Piccole indicazioni di carattere generale che servissero il duplice obiettivo di agevolare l’integrazione degli inserimenti negli ambienti costruiti e di calmierare le speculazioni sulle aree resese libere in seguito ai bombardamenti.
118 È Koenig a parlare di lezioni di democrazia, impartiteci degli americani a
seguito delle polemiche per i risultati dei concorsi per la ricostruzione dei ponti.
119 Si confronti a riguardo la rassegna di articoli curata da E. Detti. Opinioni e
Tra le più nette quella di Bernardo Berenson, lo storico dell’arte, all’epoca dei fatti ottuagenario, scrive un articolo sul primo numero de Il Ponte dal titolo “come ricostruire Firenze demolita”120. Con molta chiarezza Berenson sostiene la
posizione del “com’era e dov’era”, citando ad esempio la ricostruzione del campanile di San Marco a Venezia. Suadenti gli argomenti. Fattibilità di un progetto di ripristino: Firenze era – come certamente è ancora – fra i comuni di maggior interesse artistico ed architettonico, e numerosissimi i documenti, gli acquarelli, le prime fotografie, i rilievi delle fabbriche danneggiate. Inconciliabilità stilistica tra il fronte del borgo San Jacopo, “troppo cupamente medievale”, e la facciata aperta alla vista in seguito ai bombardamenti sulla riva degli Acciaiuoli. Terza ragione, certamente per noi la più significante, è:
Che per secoli quando si pronunciava o si leggeva il nome Firenze, l’immagine visiva che prima balenava alla mente era quella del Ponte Vecchio e del lato opposto dell’Arno come lo si vedeva passeggiando per il lungarno Acciaiuoli. Seguivano pensandoci su, altre immagini ma come estensioni o particolari […]. Esse non alteravano la prima spontanea evocazione. Se non la si ricostruisce si verrebbe a sostituire l’immagine mnemonica della Firenze che noi e i nostri predecessori hanno conosciuto per generazioni […]. Non si riconoscerebbe più l’identità e saremmo costretti a ricostruirla rimettendo insieme frammenti di ricordi.121
E ancora appresso. Se quanto detto è valido per i fiorentini, lo sarà a maggior ragione per i forestieri i quali solo a seguito di una perfetta ricostruzione potranno contemplarla “come un’emanazione di pura bellezza, che esprime il gusto di un popolo più sensibile artisticamente di alcun altro popolo che l’Europa abbia conosciuto negli ultimi duemila anni”122. Le
ultime parole dell’articolo sono spese per ribadire la necessità di comportarsi parimenti per la ricostruzione dei cinque ponti demoliti. Non ci dilungheremo in chiose, tanto più che quanto riportato, è di una chiarezza lapidaria. Ci interessa piuttosto
120 B. BERENSON,Come ricostruire… cit. 121 Ibidem.
rilevare come una tesi assai simile sia alla base di una certa idea di restauro, secondo la quale l’intervento sulla preesistenza deve assicurare la trasmissibilità dei valori contenuti nell’immagine del monumento, forse più che del monumento stesso. Evidentemente tutti coloro i quali anteporranno, all’immagine della memoria, l’autenticità della materia saranno i fieri sostenitori della tesi contraria.
A prescindere dalle personali idee o simpatie, questa del Berenson è tesi di indiscutibile interesse. Per le particolari circostanze in cui la sostenne, per essere stato l’unico ad averla sostenuta e con sufficiente coerenza da ritenere utile l’introduzione di tutti i perfezionamenti moderni. Egli, infatti, con una certa disillusione sulle attribuzioni di autenticità, riteneva che ogni proprietario di caso potesse dotare l’interno della sua abitazione di tutte le comodità che più lo aggradavano; similmente i progettisti e gli strutturalisti potevano ricorrere alle tecniche più moderne che meglio avessero servito allo scopo.
Il Ponte al numero successivo pubblicherà la fiera avversa
posizione di Ranuccio Bianchi Bandinelli alla tesi del vecchio storico123. Il pittoresco cui s’appellava Berenson è secondo il
nostro oppositore frutto di lenta sedimentazione e quindi impossibile da riprodurre in una volta soltanto. Si accusa inoltre il Berenson di un certo discutibile romanticismo che privilegerebbe il pittoresco al bello classico, la stessa preferenza che i tedeschi accordarono al Ponte Vecchio a spese ad esempio del michelangiolesco ponte di Santa Trinita.
Piuttosto che soffrire per la fresca ferita, Bandinelli suggerirebbe di approfittare freddamente delle circostanze create dalla guerra, che mai diversamente si sarebbero potute verificare, proprio a causa di quell’amore che tanto il Berenson quanto il Bandinelli con i fiorentini tutti nutrivano. Ammodernare il centro di Firenze, cogliere l’occasione per costruire una nuova città e fondare i criteri di una rinnovata
123 R.BIANCHI BANDINELLI,Come non ricostruire Firenze, «Il Ponte», n. 2, Firenze
1945. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 68.
bellezza. Meglio serbare una segreta nostalgia che bearsi di una “verginità artificiale e chirurgica”124.
Infine è il nodo polemico di cui si strutturano le posizioni anti-ripristino, vale a dire l’impossibilità di riprodurre qualsiasi cosa andata perduta; perché non esistono più i singoli artefici e perché impossibile ricreare tanto l’ambiente culturale, quanto il momento storico che ne hanno permesso l’origine. In ragione di ciò tutte le imitazioni sono condannabili “come ripugnanti all’estetica”125, Firenze se “non ha il diritto di mutare volto, ha
il dovere di non rifarselo di cartapesta”
Le proposte che seguiranno si allineeranno, con sfumature differenti, alla tesi ora del Berenson (poche) ora del Bandinelli (quasi tutti gli architetti militanti). C’è chi come l’allora sindaco Ugo Procacci avanza la proposta vagamente naif di ispirarsi agli edifici raffigurati nella cappella Brancacci126; o chi come
Piero Bigongiari affida tutte le sue speranze ad uno stile moderno127; c’è Papini che invece di stile non vuole nemmeno
parlare, perché una casa “non ha stile”128; e Michelucci che
dalla colonne de La Nazione del Popolo prega che “le sponde dell’Arno non debbono diventare un museo”, perché “sarebbe un assurdo riportare l’uomo nelle strade-trincea”129. Ragghianti
che assieme con Nicolosi e Piccinato130 ribadiva l’impossibilità,
antieconomicità, nonché assurdità di una ricostruzione in stile; risolve furbamente il conflitto tra antichi e moderni, poiché
124 Ibidem. 125 Ibidem.
126 U. PROCACCI,Difesa della città medioevale, «La Nazione del Popoplo», Firenze,
6 ottobre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 69.
127 P. BOIGONGIARI,Più architettura, «La Nazione del Popoplo», Firenze, 27
ottobre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 70.
128 R. PAPINI,Il referendum sulla ricostruzione di Firenze, «La Nazione del Popoplo»,
Firenze, 15 settembre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 68.
129 G. MICHELUCCI,Le sponde dell’Arno non debbono diventare un museo, «La Nazione
del Popoplo», Firenze, 27 ottobre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 69.
130 G. NICOLOSI,L.PICCINATO,C.L.RAGGHIANTI,Relazione della commissione
giudicatrice del concorso per la ricostruzione delle zone distrutte intorno al Ponte Vecchio, Firenze, 1947. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 70.
un’urbanistica odierna che “intendesse” le istanze della città non sarà diversa dall’urbanistica medievale avendo conservato la città le medesime istanze131. E tra quelli elencati solo i più
autorevoli.
Anche i concorsi dei ponti suscitarono grande interesse. Giovanni Klaus Koenig ce ne restituisce la cronaca puntuale132.
Il primo ad essere ricostruito fu il ponte della Vittoria. Quando fu bandito il concorso, Firenze era ancora sotto l’amministrazione alleata e i progettisti si trovarono a dovere opere con delle limitazioni. La scarsa reperibilità del ferro per le strutture in calcestruzzo armato costringeva ad una soluzione ad arco con balaustre in pietra o muratura. Inoltre bisognava riutilizzare quel che era rimasto, sicché quasi tutti i progetti mantennero immutata la linea del ponte e gli architetti si risparmiarono di ricalcolare le strutture.
La vittoria fu contesa da due progetti. “Il ponte” di Baroni, Bartoli, Gamberini, Maggiora e “L’uomo sul ponte” di Gizdulich, Gori, Ricci, Savioli. Dei dodici giurati che componevano la commissione, il pittore Annigoni, l’architetto Michelucci, i critici Longhi e Salvini, l’assessore Albertoni e il capitano dell’esercito alleato Einthoven si schierarono per il secondo dei due progetti. I restanti sei fra cui l’avvocato Zoli, il sindaco Pieraccini, l’architetto Coppedé, il critico Papini, si schierarono per “Il ponte”. Bisognò quindi nominare un tredicesimo giudice per risolvere l’ex aequo e per un solo voto la spuntò il progetto di Gamberini e compagni. Nemmeno a dirlo un trionfo così risicato non poteva non dare sfogo alle polemiche più infiammate133.
Poco mancava si boicottasse il risultato del concorso e si cominciasse tutto da capo. Solo la tenacia di Pieraccini con la collaborazione del capitano Einthoven permise l’avvio del cantiere.
131 C. L.RAGGHIANTI,Urbanistica medioevale e urbanistica d’oggi, «La Nazione del
Popoplo», Firenze, 22 settembre 1946. Ora in Opinioni e proposte per la ricostruzione, a cura di E. Detti, «Urbanistica», n. 12, 1953, p. 69.
132 G. K. KOENIG,Architettura in Toscana… cit.
133 È di Carlo Lodovico Ragghianti e Carlo Levi il distico satirico: Ministro
Ivanoé/ Giudice Coppedé/ ricostruiremo i ponti/ col gusto dei geronti. Dedicato all’allora presidente dei Consiglio Ivanoè Bonomi, ad Adolfo Coppedè ed al sindaco di Pieraccini, esperto geriatria.
Dal raffronto tra i due progetti, emerge subito la natura dei due schieramenti. “L’uomo sul ponte” voleva essere una passeggiata galante sull’Arno, tanto fortemente compromessa con la tradizione e forse anche con una certa maniera scolastica, per i sui tempietti e mascheroni; da indurci a pensare che poco si sarebbe adattato al repentino cambiamento di costumi che avvenne sin dal primissimo dopoguerra. Il ponte vincitore, invece, si limitava a raccordare le pile superstiti in un gioco di linee curve e sghembe che, seppur più umile per forme e contenuti, manteneva una certa semplice eleganza.
Il secondo ad essere ricostruito fu il ponte alla Carraia. Sorvolando sulle prime fasi dei concorsi che procedettero non diversamente dal ponte della Vittoria, con gli audaci tentativi vagamente retrò del gruppo di Gori, e Michelucci che con alcuni dei suoi proponeva un ponte di grande snellezza; si arriva al 1948, quando il Genio Civile, senza tenere in alcuna considerazione i risultati dei concorsi già fatti, decide di bandirne uno nuovo. Questa volta a spuntarla fu un forestiero, il veronese Ettore Fagioli, che con buona pace delle soluzioni progettuali dei Gori, dei Michelucci realizzò il ponte con un’improbabile arcuatura a modello di uno medioevale134.
Il ponte di Santa Trinita è certamente quello che maggiormente suscita il nostro interesse, perché la sua ricostruzione ruotò attorno ad uno dei temi centrali della disciplina del restauro: l’autorialità. Disegnato da Michelangelo, il cinquecentesco ponte mandò in crisi personalità come Ragghianti, che fiero sostenitore dell’impossibilità di una ricostruzione in stile ma incapace di