• Non ci sono risultati.

La città tra memoria e identità. Casi studio : Messina, Firenze, Gibellina

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La città tra memoria e identità. Casi studio : Messina, Firenze, Gibellina"

Copied!
135
0
0

Testo completo

(1)

POLITECNICO DI MILANO Facoltà di Architettura e Società Corso di Laurea in Architettura

LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ CASI STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA.

Relatore: Ch.ma Prof.ssa Anna Lucia MARAMOTTI POLITI Corelatore: Ch.mo Prof. Amedeo BELLINaI

Laureando: Alberto STRACI Matr. N. 702242

(2)
(3)

INDICE

LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ. CASI

STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA. 1

Introduzione 5

Messina: lo stretto indispensabile 11

Firenze: il dopoguerra 72

Gibellina: paesaggio con rovine 100

(4)
(5)

LA CITTÀ FRA MEMORIA E IDENTITÀ. CASI STUDIO: MESSINA, FIRENZE, GIBELLINA

(6)
(7)

INTRODUZIONE

Messina, Firenze e Gibellina sono tenute insieme da tre storie assimilabili: tre modi differenti di reagire al pericolo, più o meno concreto, di smarrire, a causa di ragioni prevaricanti e imprevedibili, la propria memoria e con essa, ci ripetiamo, la propria identità. Messina, Firenze e Gibellina offrono un amplissimo spettro d’indagine e, coprendo tutto l’arco del novecento, secolo di svolta per la rivalutazione delle discipline legate alla conservazione e tutela, danno la possibilità di scandagliare quanti più aspetti siano legati alla memoria delle città.

La ricostruzione della città di Messina, seguita al sisma del 1908, s’esaurisce, per la sua parte più consistente, nella prima metà del XX secolo, andandosi ad arrestare sul finire della Seconda Guerra. Ciò sottrae l’intera vicenda messinese al dibattito sorto intorno la conservazione dei centri urbani, svillupatosi proprio nel secondo dopoguerra. Inoltre chi operò nella ricostruzione era imbevuto di dottrina positivistica e non aveva alcuna ragione di dubitare del suo modo di operare. È perciò l’esempio che meglio chiarisce l’autonomia della memoria di un luogo dalla sua immagine. Non si commetta l’errore di credere che memoria e identità si fondino sull’immutabilità e sulla tassidermia, come detto l’identità è un

(8)

valore dinamico, e la memoria si costruisce solo per una parte, pure consistente, sull’immagine. Se è vero, quindi, che l’immagine della Messina precedente al sisma del 1908 fu sepolta coi morti tra le macerie, l’identità avrebbe potuto non seguire la medesima sorte. Avrebbe potuto rifondarsi sulla scorta di altre istanze, non direttamente legate ad una particolare forma di barocco: sul modo di vivere il porto, la posizione, il paesaggio, su quello stretto mitopoietico che, a volerlo, potrebbe tornare ad essere prolifica sorgente di significati. Fu quindi un caso di memoria tradita e non già per le numerose demolizioni che seguirono quella più grande del sisma, ma perché subisce una perenne e sistematica smentita delle proprie fondamentali. Offre infine la possibilità di comparare ed indagare i primi modi di intendere la conservazione.

Firenze, differentemente, non soltanto fu al centro di quel dibattito, cui si faceva poco prima cenno, ma per buona parte lo generò. Fino alla metà del secolo si restaurano solo le fabbriche a carattere monumentale e l’edilizia minore solamente quando quinta della maggiore. Si era spinti al restauro dal bisogno di tenere in ordine i gioielli di famiglia, quelli che potessero meritarsi il titolo di alfieri d’italianità, non certo per conservare la memoria dei luoghi. La lacuna urbana era lontana dall’essere tematizzata, vuoti urbani, se ce n’erano, erano trattati dalla regolare amministrazione. Il contesto e l’ambiente non erano minimamente problematizzati se non da qualche romantico trasognante come oggetto di puro godimento. L’interesse per una conservazione sistematica del costruito, e non più solamente degli episodi edilizi più rappresentativi, sorse in concomitanza con la distruzione dei luoghi civili (non più soltanto militari) e tra questi la sponda degli Acciaiuoli e dei cinque ponti fiorentini per arrestare l’avanzata alleata. L’opportunità, le modalità, i tempi, della ricostruzione di quanto era andato perduto costituirono la circostanza sulla quale si delinearono le tematiche fondanti un nuovo statuto della disciplina del restauro. A Firenze si discusse dell’integrazione del nuovo e del vecchio, del trattamento della lacuna, della conservazione dell’immagine dei luoghi e non più solamente dei monumenti. Si trattò quindi, come per Messina, di occuparsi della memoria dei luoghi, ma la questione fu

(9)

ampiamente problematizzata, con esiti forse discutibili, ma comunque con un atteggiamento di costante rispetto alla Firenze di ieri e di oggi. Per questo se quella di Messina è una memoria tradita, quella di Firenze è una memoria rispettata, col punto interrogativo. Gli interventi legati alle opere di risanamento edilizio postbellico si inseguirono nel volgere di quel ventennio intellettualmente densissimo che sancì la legittimità dei contesti urbani come materia della conservazione.

Gibellina, rasa al suolo dal disastroso terremoto del 1968, è caso complesso. Contrariamente a Messina e tanto più a Firenze dove i ragionamenti sulla difesa della memoria possono essere sciolti nella conservazione della materia, fugace comparsa nell’una Città, autentica protagonista nell’altra, a Gibellina ciò che manca è proprio la materia del restauro perché non c’è più nulla da poter trasmettere, avendo posto sulla città morta quella pietra tombale che è il Cretto di Burri. L’assenza di un luogo dal quale partire astrae i paradigmi della memoria, ora assai più volatile e indefinita, quasi assente. Può esserci allora identità senza memoria? È su questo interrogativo che il caso sostiene il ragionamento. La risposta è chiaramente negativa, ma lo sforzo deve essere quello di trovare memoria e identità di là dei sensi e delle percezioni. La memoria è nella tradizione, nell’economia, nel modo delle persone diventa patrimonio immateriale, e da questo, che è pur sempre memoria, si deve partire per rifondare l’identità. Ciò a Gibellina non è accaduto. La distruzione del borgo vecchio ha fornito l’alibi per una totale libertà di forme, per creare al tavolo del disegno i luoghi senza rispettare la dualità dell’identità tra giudizio e poetica. Tanto più grave se si pensa che il dibattito del quale Firenze fu protagonista, era quasi esaurito perché ormai assorbito, avendo esitato nella carta del restauro di Venezia del 1962(?); e che i protagonisti della ricostruzione operavano professandosi intimamente legati alle dottrine sociali ed ecologiche in voga negli anni sessanta. La costruzione di Gibellina non è ultimata e temporalmente compre gli ultimi trent’anni del novecento completando così l’arco temporale prefissatoci. Oggi s’assiste ad un fenomeno straordinario di riappropriazione dei luoghi: è la memoria negata di Gibellina che esordisce in un potente sforzo di

(10)

assorbimento del corpo estraneo di Gibellina Nuova, smentendo, a conti fatti, tutti coloro che avevano creduto che un’identità potesse essere calata dall’alto, che potesse reggersi solamente sull’eccellenza di un progetto.

(11)

MESSINA: LO STRETTO INDISPENSABILE

[…] «Cosa pensate di fare in futuro» dissi a Francesco «rimanere a Roma, o più avanti tornare a Messina?». Sino a quel momento, dal di fuori, era chiaro che noi non avevamo ancora capito la spaventosa dimensione del disastro. Alla mia domanda, infatti, Rosina sembrò terrorizzata e per la prima volta durante l’intervista perse il suo autocontrollo. Alzò entrambe le braccia sopra la testa con un gesto spaventoso di dolore e urlò «Messina? Ma che cosa sta dicendo? Messina non esiste più».1

Il terremoto di Messina del 1908 fu subito percepito per quel che era: una tragedia d’immane portata. Né la storia smentì mai questa percezione: la catastrofe registrò, infatti, numeri da record ad oggi rimasti fortunatamente insuperati. La cronaca è nota, occorre tuttavia richiamarla alla memoria.

Alle cinque e ventuno minuti della mattina del 28 dicembre 1908, una scossa lunga trenta secondi, compresa tra 6,7 e 7.2 di magnitudo scala Richter (XI Mercalli), squassò le città di Messina e Reggio. L’epicentro esattamente nello stretto, sotto il mare. Le vibrazioni del terreno furono avvertite fino a Napoli a

1 M.HOWE, Sicily in schadow and in sun, the earthquake and the American relief

work, 1910, trad it Elena dell’Agnese, in La furia di Poseidon: Messina 1908 e dintorni a cura di G. Campione, Vol I, Milano, Silvana editoriale, 2007.

(12)

settentrione, fino ad Agrigento e Palermo a ponente. Qualche minuto dopo il sisma, un’onda di otto metri si abbatté sulla costa messinese. Dopo la terra e l’acqua, l’opera distruttrice si compì col fuoco; le fuoruscite di gas, causate dalle scosse, esplosero in incendi terribilissimi così che tutta la città fu avvolta da un lugubre «alone giallastro». I morti si contano nell’ordine delle decine di migliaia, le case dirute sono attestate intorno al novanta per cento.2

Ma cosa interruppe il sisma? In quale momento della storia del capoluogo peloritano, che fu pressoché raso al suolo, la terra cominciò a tremare?

Nel cinquantennio che intercorre tra il Risorgimento e i primi anni del novecento, Messina attraversa un periodo di profonda trasformazione, come del resto qualsiasi altra realtà testimone della giovanissima Italia: periferie che divengono centri e centri che divengono periferie, politiche liberali che mutano gli schemi economici e mercantili andatisi consolidando nell’ambito degli stati preunitari, indebolimento del potere ecclesiastico con tutto quanto esso comportava. Per non parlare delle più generali mutazioni-innovazioni dello scacchiere politico-economico internazionale; fra quelle che più riguardano la nostra fattispecie: il declino delle tratte mediterranee a vantaggio del rafforzamento di quelle transoceaniche, l’innovazione tecnica nel settore della navigazione civile e mercantile, l’apertura del canale di Suez.

Inutile dire che la città di Messina, sin dalla fondazione, basò la sua prosperità quasi integralmente sul porto e sulle attività connesse, e certamente fu la vocazione marinara a plasmarne i tratti morfologici, urbanistici, paesaggistici, sociali, etno-antropologici. In tal senso non deve sorprendere come negli anni di maggiore gloria della città e fino all’Unità,

2 La letteratura in materia è amplissima e non si contano le memorie di quella

notte, tra i contributi più autorevoli: MARIO BARATTA, La catastrofe sismica calabro-messinese(28 dicembre 1908), Relazione alla Società Geografica Messinese, Roma, presso la Società Geografica Italiana, 1910; GIORGIO BOATTI, La terra trema, Messina 28 dicembre 1908. I trenta secondi che cambiarono l’Italia, non gli italiani, Milano, Mondadori, 2004; Il terremoto di Messina, corrispondenze, testimonianze e polemiche giornalistiche, a cura di FRANCESCO MERCADANTE, ristampa anastatica dell’edizione del 1962, Messina, Istituto di studi storici Gaetano Salvemini, 2004.

(13)

Messina mostrasse evidenti differenze, di ordine principalmente socio-economico, con le vicine e concorrenti (quando non apertamente nemiche)3 Palermo e Catania, che si possono

facilmente riassumere nell’esistenza di una solida borghesia mercantile e di una più variegata piramide sociale a fronte di una quasi esclusiva primazia del baronaggio negli altri due centri siciliani.

Nello scenario rapidamente evocato, Messina smise presto di avere un ruolo da protagonista nel Mediterraneo, ceduto ad altri e più favoriti porti del neonato regno. E non sorprende, quindi, ammettendo, come abbiamo fatto, la centralità del porto per la salute della città, che il suo declino coincise quasi immediatamente con il declino del capoluogo.

Negli anni a cavallo tra i due secoli la situazione è instabile e Messina fatica a trovare una sua propria collocazione: se da un parte già dopo “l’annessione al Regno viene riconfermata la funzione amministrativa di capoluogo di provincia, […] viene riconosciuta [l’Università] e nel 1885 pareggiata alle [altre] di primo livello”4 e vengono istituiti il museo pubblico e la

biblioteca; dall’altra non si hanno “positive conseguenze sulla vita economica”5.

Questo almeno fino agli ultimi anni dell’Ottocento. In effetti, dopo un primo momento di riformismo liberale che non troppi effetti ebbe per l’economia cittadina,6 si registra a partire

dal 1887 un’inversione di tendenza verso un maggiore protezionismo, atto a favorire le industrie tessili e siderurgiche del nord e conseguentemente i porti che a queste erano più prossimi (Genova in testa).

Di quella gretta politica il commercio di esportazione agrumario e vinicolo, che costituiva le due più importanti risorse economiche messinesi, fu colpito a morte. Sicché da quindici anni quella Messina,

3 Durante la rivolta antispagnola del 1674 la città di Palermo si schierò contro i

rivoltosi messinesi, nella speranza di non doversi più vedere contestata l’egemonia nell’Isola sistematicamente insediata dalla Città dello Stretto.

4 AMALIA IOLI GIGANTE, Messina, Bari, Laterza, 1980, p. 116. 5 Ibidem.

6 Come registrano vari autori tra cui Ioli Gigante e D’Angelo, la fin tanto

temuta abolizione del porto franco, privilegio del quale la città di Messina beneficiava prosperosamente, non ebbe ripercussioni sulla quantità di mercanzia, che ancora nel 1887 s’attesta attorno al milione di tonnellate.

(14)

che in nome dell’eguaglianza era stata spogliata dei suoi secolari privilegi, divenne la vittima indifesa di nuovi e ben più ingiusti privilegi, largiti non a città o consorzi amministrativi, ma a singoli e privati speculatori, e si è vista precipitare dall’antica prosperità, guadagnata coll’onesto lavoro, ad un’immeritata quanto fatale decadenza, frutto della relativa inerzia, cui fu condannata dalle leggi vigenti.7

Conseguenze assai più gravi furono patite dal settore serico, fiorente da sempre e che moltissimo aveva dato alla città.8

In modo più ampio possiamo dire che il nodo commerciale dello Stretto non interessava in quel preciso momento politico al Governo Italiano che aveva altre priorità. Un certo sospetto favore per diverse aree di sviluppo industriale; uno sguardo espansionistico rivolto ai Balcani che sospinse lo sviluppo dei porti di Brindisi9 e Taranto (mercantile il primo, militare il

secondo). Né come osserva Ioli Gigante l’apertura del canale di Suez aiutò: pure portando nello Stretto «l’imponente viavai di maestosi colossi marini»,10 la ripresa si limitò ad «abbellire solo

il panorama», ma nessuna conseguenza ebbe per l’economia della città. Nemmeno vi fu in quegli anni una politica organica di risistemazione del porto, inadeguato tanto alla navigazione a vapore, quanto ad accogliere navi di accresciuto tonnellaggio.11

È importante rilevare sin da adesso che il caso Messina - sia che si voglia parlare degli anni dell’”italianizzazione” tra il

7 GIUSEPPE ARENAPRIMO ET ALII, Messina e dintorni 1902, in MICHELA

D’ANGELO,Prima e dopo. Messina 1902-1914, in La furia di Poseidon…, op. cit. p. 101.

8 «“Oreste Lattes, ispettore delle industrie e del commercio, lamenta che i

filandieri chiudono con bilanci meschini e che questi servono in sostanza a pagare il personale impiegato. Inoltre il raccolto si presenta, nel 1888, minore di un terzo degli anni precedenti e la coltura del gelso viene in alcune zone abbandonata perché non da profitti.”» A.I.GIGANTI, Messina…, op. cit. p. 116

9 «La valigia delle Indie fa capo a Brindisi», Ivi, p. 121.

10 Dal Discorso letto all’Università di Messina, da Gabriele Grasso. Ibidem.

11 Per il rilancio del porto i tentativi ci furono ma si rivelarono inefficaci,

certuni spingevano per il ripristino del porto franco visto come panacea per tutti i mali della regione, altri più costruttivamente proponeva un ammodernamento delle strutture di carico scarico che nel 1895 prevedevano ancora soltanto cinque gru azionate a mano. Inoltre la vecchia falce non era in grado di accogliere le navi di più recente varo e si ragionava dell’opportunità di investire somme considerevoli di denaro per il potenziamento di un porto in quel momento a margine degli interessi mercantili nel mediterraneo.

(15)

marzo 186112 e il dicembre del 1908, sia che si ragioni di quelli

della ricostruzione, dal dicembre del 1908 ad oggi - ruota attorno alla vocazione-identità della città siciliana. In effetti, emerge come la tendenza del Governo Italiano prima e dopo il disastro sia stata quella di un rovesciamento del Comune da città di mare a forte vocazione mercantile, a città di terra con funzioni quasi esclusivamente legate ai servizi.

Infatti, le maggiori novità di questi anni riguardano gli interventi infrastrutturali a terra (ferrovia e carrabile per Palermo) e di ampliamento del tessuto urbano (tanto a settentrione quanto a meridione). Assistiamo ad una terziarizzazione di Messina ed ad una trasformazione da punto strategico mercantile e militare nel Mediterraneo a «testa di ponte»13 dell’Italia peninsulare in Sicilia (ruolo che a tutt’oggi

fa grandemente discutere). In questa direzione va letta la più importante fra le novità di questi anni: l’istituzione dei firribbotti che risolveranno, almeno provvisoriamente, la crisi economica, ma anche, soprattutto, identitaria del capoluogo peloritano. Osserviamo inoltre che tutti gli interventi di questi anni sono in linea con il nuovo assetto economico ed istituzionale in cui viene forzata la città. A ben vedere l’espansione a sud (inedita nella storia di Messina, che non si era mai allontanata, topograficamente parlando, dal porto) oltre ad essere giustificata da ragionevoli questioni edificatorie, convoglia i flussi di traffici via terra (strada carrabile o ferrata è uguale) da Palermo e da Catania e li immette per linea diretta nelle navi traghetto.

È come se i naturali assi sui quali Messina sorse, fossero ruotati. La genesi della città è, infatti, facilmente derivabile da un’osservazione attenta della topografia prima del sisma, incrociata con qualche notizia storica di rilevanza urbanistica. La ‘falce’14 fu chiaramente la prima attrazione del sito: un

naturale ricovero per le barche nel punto più centrale delle colonie greche ebbe un peso determinante per la fondazione

12 A questa data l’ultimo presidio Borbonico siciliano, asserragliato nella

cittadella spagnola, capitolava.

13 Cfr. GIUSEPPE CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina, Messina, Gangemi,

1988.

14 Con falce o area falcata si fa riferimento alla penisola San Ranieri, che

(16)

della città, e fu anche la ragione del suo più antico nome.15

Tralasciando le trasformazioni morfologiche della Messina antica, che così lontane nel tempo a poco giovano per la nostra indagine, si arriva per grandi balzi alla fase normanna. La città, a questo punto, ha quasi raggiunto i limiti territoriali che manterrà per tutta la storia moderna, ed è fatta tanto nell’impronta quanto nel tracciato viario fondamentale. Due i criteri secondo i quali si edifica: la prossimità al porto ed alla penisola San Ranieri, ovverosia l’area falcata; il naturale declivio delle radici pedemontane dei Monti Peloritani. In effetti, al visitatore, Messina appare come un grande anfiteatro, ché avendo la città esaurito le aree edificatorie più piane a valle, si inerpicò sulle prime alture. Da rilevare l’importanza fondamentale che rivestirono i torrenti Boccetta, Portalegni e Zaera con il suo delta - ordinati da nord a sud - che segnano l’andamento est-ovest (monte-mare), e rappresentano giaciture di primissima importanza, ché individuano le aree pianeggianti e costringono la città perpendicolarmente al porto e verso questo. Di fase Normanna è anche il primo tracciato viario nord-sud, il cui segno più importante e durevole sarà la strata

magistra, oggi Corso Cavour.

Sono però gli spagnoli tra il XVI e il XVII secolo a conferire a Messina l’assetto pressoché definitivo. Delle modifiche di questi anni, concentrati tra il 153516 e il 162517 distinguiamo:

interventi di ordine militare, interventi di bonifica e risanamento, interventi di ridisegno urbano. L’occasione politica era presto trovata: Carlo V che in forza delle sue eccellenti ascendenze si trovava ad essere monarca della prima e più estesa superpotenza europea, osservava con preoccupazione l’espansione turca a oriente, e Messina, era tatticamente indispensabile in questo scenario. Fu così, per sua volontà, che, nel giugno del 1537, iniziò l’edificazione delle fortificazioni.18 Il progetto era ambizioso e gli esiti non delusero

15 Zancle dal Greco antico falce. Il mito vuole sia la falce usata da Crono per

evirare il padre Uranio, in seguito gettata sulla terra dalla divinità.

16 Anno della visita di Carlo V imperatore in Sicilia.

17 Al 1625 gli storici fissano l’inaugurazione del Teatro Marittimo, ultimo

contributo di rilevanza urbanistica alla città.

18 L’incarico viene assegnato a Francesco Maurolico, genio eclettico, che

(17)

le aspettative: fortini vennero eretti sui punti più sporgenti delle pendici peloritane, traguardate tra loro da una robusta e sinuosa cintura muraria che scendeva a valle lungo i letti dei torrenti Boccetta e Portalegni, poi naturalmente predisposti ad uso di fossato. Infine, le mura ricalcarono la linea dello specchio d’acqua prospiciente il porto, collegando le foci dei due torrenti, affinché non restassero punti scoperti. Così fortificata, Messina, ospitò la flotta della Lega Santa, alla vigilia della battaglia di Lepanto, evento che la diplomò base militare di primissima importanza.

All’apice della sua gloria, forte di un operoso ceto mercantile, Messina, similmente ad altri centri del Rinascimento, cambia volto: gli architetti incaricati hanno il compito di «conferire dignità e decoro ai quartieri ove si riuniscono le funzioni direzionali, dare una più elegante e sontuosa facciata ai compiti di rappresentanza e realizzare un più razionale dislocamento di funzioni economiche».19 Tra

questi interventi i più significativi: la realizzazione delle Quattro Fontane e delle vie Austria e Cardines,20 la

Montorsoli da Firenze realizzerà un progetto di fortificazione che per perizia tecnica e qualità godrà già nel cinquecento di unanime plauso. Cfr. A.I. GIGANTE, Messina…, op. cit.

19 Ivi p. 52.

20 È l’intervento, realizzato su disegno del “magistro di strata” Andrea

Calamech di maggiore rilevanza urbanistica e, parimenti con la realizzazione dei quattro canti di Roma, Catania, Napoli e ovviamente Palermo, ha una forte valenza istituzionale. Infatti, delle due vie che formano il monumentale quadrivio, magnificato delle marmoree fontane, la prima, intitolata a don Giovanni d’Austria eroe di Lepanto, metteva in relazione il Duomo con il Palazzo Reale; la seconda, intitolata a Don Bernardino Cardines duca di Maqueda viceré di Sicilia, il porto con l’area di espansione a meridione, dove sorgevano l’ospedale maggiore e l’università. I messaggi politici dell’operazione non sono poi nemmeno troppo occulti, oltre la razionalità urbanistica che interlaccia i principali centri direzionali cittadini, l’intitolazione di una delle due vie al viceré spagnolo è tradizionalmente letta come un’alzata di testa, con lo scopo di stabilire un rapporto paritario con Palermo. Nella capitale dell’Isola, infatti, tra il 1577 e la fine del secolo decimo sesto, si realizza la grande arteria sull’asse est-ovest che interseca, per l’appunto alle Quattro Fontane, la strada del Cassaro – la più importante della città; e che alla sua ultimazione verrà, com’è noto, intitolata proprio al Maqueda. Si confronti sul tema, oltre la già citata Ioli Gigante, per la stessa collana: CESARE DE SETA, Palermo, Bari, Laterza, 1980. Inoltre, GAETANO LA CORTE CAILER, Andrea

(18)

realizzazione ad opera del Montorsoli della lanterna San Ranieri e delle più belle fontane cittadine, l’edificazione del Palazzo Reale e dell’Ospedale Maggiore, opere del Calamech.

In questo clima di prosperità, coincidente con il momento di vivace attività edificatoria, Messina vede la realizzazione della fabbrica che più delle altre avrà la funzione di glorificarne il potere e il prestigio economico. Il Teatro Marittimo eretto nel brevissimo volgere di tre anni, tra il 1622 e il 1625, per volere dall’allora viceré Savoia,21 su progetto dell’architetto Simone

Gullì, che dall’opera ebbe imperitura gloria; era una cortina di palazzi alta venti metri, lunga oltre un chilometro che magnificava la costa e che fu subito percepita come l’ottava meraviglia e come monumento di impareggiabile bellezza.22

Sul Teatro marittimo, poi ribattezzato Palazzata, avremo modo di tornare più avanti, per adesso ci limiteremo a dire che con l’edificazione della cortina del porto, Messina è completa. Questo fu, infatti, l’ultimo significativo segno urbano, con conseguenze anche rilevanti sul tracciato viario. Da questo momento, insieme alla già citata strata magistra di normanna memoria, che conservò il suo ruolo anche nella città spagnola, coesisteranno altre tre strade di collegamento nord-sud, ognuna con una precisa destinazione sociale e culturale.23 La strada tra

Calamech scultore e architetto, Messina, 1908; e Messina prima e dopo il disastro, a cura di G. Oliva, ristampa anastatica dell’edizione di Principato, 1914.

21 Terzogenito di Carlo Emanuele I di Savoia e dell’infanta di Spagna Caterina

d’Asburgo, sarà nominato Viceré di Sicilia da Filippo IV nel 1588 e manterrà la carica fino alla sua morte avvenuta nell’estate del 1624.

22 Il giudizio è univoco, studiosi del luogo, viaggiatori, stranieri, restano tutti

strabiliati dalla vista di questo muro d’architetture che accoglie chi entra nel porto della città.

23 La concentrazione di funzioni analoghe o di uno stesso ceto in specifiche aree

cittadine era già in uso nella pratica urbanistica o ricostruttiva di fine Seicento animata da pulsioni proto-illuministiche. È, in effetti, un momento di grande sperimentazione, durante il quale specialmente l’edificazione di nuovi centri, è stata insostituibile palestra per l’urbanistica. L’estetica del rettifilo, la costruzione di strade che mettano in relazione i maggiori centri di potere, la concentrazione in posizioni diverse di diverse funzioni, sono tutti criteri andatisi calcificando in anni di esercizio. La ricostruzione seguita al disastroso terremoto del 1693, non poteva che seguire quei modelli già comprovati, e così, ad esempio a Noto come similmente a Messina, esistono tre strade distribuite a digradare, una per la nobiltà, una per il clero ed una per la borghesia; oppure, per Grammichele, sempre nella Val di Noto, è stato voluto un piano a maglia esagonale. La bibliografia a riguardo è vasta, si suggeriscono gli scritti sul tema

(19)

il teatro marittimo e la banchina del porto consoliderà il suo ruolo di strada del commercio e dei traffici legati all’attività portuale;24 la prima parallela a ovest e direttamente collegata

con questa mediante le porte del Teatro Marittimo, sarà la strada elegante dei negozi raffinati e delle case nobili e notabili; quindi il Corso; infine più in alto, più riparata dalla vivacità urbana, la strada detta «de’ monasteri», nella quale si concentrerà un gran numero di edifici religiosi. Il pentagramma di vie è variato dai quattro canti di città, quadrivio tra le vie Cardines e Austria che collegano il Palazzo Reale con la Piazza Duomo (centro religioso e centro militare-politico) e l’ospedale e l’università con il porto (servizi).

Quindi, riassumendo. Quattro strade a orientamento nord-sud degradanti verso il porto: via de’ monasteri, ecclesiastica; Corso, politico-istituzionale; via lungo le mura,25 commerciale

e alto residenziale; via Colonna, commerciale-portuale. L’elemento di variazione del disegno urbano è affidato ai quattro canti che mettono in relazione tra loro tutti i servizi e i poteri cittadini. Il corso dei torrenti impone la direzione della città che volgerà naturalmente al porto, centro assoluto e indiscusso della vita e degli interessi dei messinesi. Se si eccettuano le trasformazioni successive alla rivolta del 1674, che includono privazioni, soppressione dei privilegi storici e l’edificazione della cittadella con la militarizzazione del braccio di S. Ranieri, possiamo affermare senza rischio di smentita che la Messina della metà del seicento è la stessa che fu colta nel sonno dal terremoto di dicembre. Tanto più se si tiene a conto che il sisma del 1784, che pure distrusse gran parte della città, non ne mutò minimamente l’aspetto.26

di Stefano Piazza ricercatore di Storia dell’Architettura all’Università di Palermo.

24 Già via de Banchi, poi Colonna in ossequio al viceré Marcantonio Colonna

che ne aveva disposto la sistemazione, diviene nota «per i mercati di rango, per le spesse botteghe ripiene di ricchissime merci di panno d’oro, seta e lana». Messina prima e dopo il disastro… op. cit. p. xx

25 Titolazione borbonica, era la vecchia via del teatro marittimo.

26 Le vicende ricostruttive, seguite al terremoto del 1783 sono ampiamente

documentate. In questa sede ci limitiamo a dire che Messina fu ricostruita dov’era e pressoché com’era, le variazioni sono solo di natura epidermica e comunque sempre rispettose del gusto messinese - che era quel misto di Barocco e bizantino –; inoltre anche le norme asismiche che furono varate dal

(20)

Diversamente accadde all’indomani del terremoto del 1908. Chissà forse a Messina la sera del 28 dicembre, dopo l’Aida di Verdi in replica per tutto il mese, al teatro Santa Elisabetta, si parlava di attualità, di tasse doganali, della crisi della seta, del piano d’espansione dello Spadaro.27 La mattina appresso, la

sorpresa e lo sconcerto avrebbero fatto dimenticare tutti i problemi, probabilmente relegandoli ai confini della memoria; avrebbero posto una questione di portata eccezionale di cui non si sarebbe mai smesso di parlare, un fatto che, nell’esatto momento in cui accade, sublima dalla cronaca al mito senza nemmeno passare per la storia. Questo è stato il terremoto a Messina: un mito, un terrore sopito, che mettendo in moto le «cieche forze» con uno «starnuto della natura», in poco meno di quaranta secondi fa orrendo scempio di due città.

In questo scenario di vite sospese, qualche giorno dopo il disastro, parte, dal porto di Messina, un piroscafo carico di agrumi per l’America. È il primo, inequivocabile segno che la città non perì nel tragico evento. A questa data possiamo fissare l’inizio della ricostruzione, immaginando di far coincidere il gesto con la volontà. D’altronde non si poteva volere diversamente. Le due ipotesi, che pure furono avanzate, di non ricostruire affatto Messina o di ricostruirla in altro sito furono rapidamente cantonate. Della prima si era fatto sostenitore l’on. Colajanni secondo il quale «per sgomberar le macerie [sarebbero occorsi] tanti milioni quanti […] per costruire gli edifici. Messina [sarebbe, quindi, restata] solo testa di linea ferroviaria per le comunicazioni con il continente». Di ricostruire altrove aveva avuto a dire il sen. Paternò per il quale: «Messina non [era] più e non [poteva] risorgere nello stesso posto anche se [lo si fosse voluto; sarebbe, quindi,

governo borbonico all’indomani del disastro furono col tempo sempre più incurantemente infrante, e non contribuirono se non in minima parte ad una nuova veste urbana.

27 Era questo il piano di espansione a meridione sulla piana delle Moselle.

Prevedeva la realizzazione di una lunga spina, dalla quale diramassero perpendicolari, sì da disegnare un piano a scacchiera. Non sarà diverso da quello che riprenderà l’ingegner Borzì una volta assunto l’incarico.

(21)

dovuta] essere ricostruita in un altro punto, fuori da ogni pericolo di terremoto».28

Ma più eloquente di queste opinioni e di questi voti a sostanziare la scelta della ricostruzione sulla «istessa plaga» fu «il tenace attaccamento delle rovine di quelle poche migliaia di scampati che nonostante gli sforzi fatti dalle autorità per allontanarli […] rimasero nei malsicuri spazi liberi dopo il crollo di tutte le case tra disagi tremendi». «Provate a dire ad un popolano che Messina sarà ricostruita e vedrete i suoi occhi accendersi di una fiamma di commozione ansiosa come se gli diceste che ritroverà la sua famiglia perduta».29

«[…] Io lo grido con tutta la mia anima, so che anche Giolitti lo vuole. Messina deve risorgere. Risorgerebbe, indipendentemente della leggi che noi potremmo fare per impedirlo. Sono le convulsioni della natura che l’hanno distrutta, ma sono pure le leggi della natura che l’hanno voluta lì da venti secoli. Porta aperta sul mare, emporio di commercio fiorente, città forte, essa è una necessità inderogabile della vita dell’isola, essa ha la sua funzione d’esistenza anche in questo momento nel quale ci sembra distrutta. Mancherebbe alla Sicilia un polmone, e nelle catene di organi che formano la marina d’Italia mancherebbe un organo essenziale. Non si possono annullare venti secoli di storia»30

Messina deve risorgere! Questa convinzione hanno già affermata Governo e Camere; […]31

«Ma qui dove troneggia ancora Nettuno, simbolo del genio marinaro di nostra gente […]; qui dove è in piedi ancora il monumento dell’eroico Musotto, ricordo della fortezza e della generosità siciliane, [qui] freme già un alito di vita nuova e Messina fedele a Cristo, che è vita e

28 La cronaca della polemica intorno la ricostruzione - attraverso i medesimi

episodi - è presa da G.CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina… op. cit. p. 39 e sg. Dallo stesso si ricava: «il Paternò, poi, su “L’ora” del 13 gennaio 1909 (dopo la seduta solenne del Senato [nella quale si decretò la rinascita della città]), precisava il senso di queste affermazioni: “nel riferire una conversazione che io ebbi con un giornale siciliano, fu detto esser mio pensiero che la città debba risorger in altro luogo. Il concetto, a cui m’ispiro, è questo: che volendo subito ricostruire a vita civile Messina, i primi edifizi non possono sorgere sulle macerie dell’antica città, perché il loro sgombero richiederebbe un tempo troppo lungo. E perciò essi debbono sorgere oltre la periferia delle macerie, precisamente al limite di essa. D’altronde un problema come questo non si risolve che dopo studi maturi; né è lecito improvvisare”». La citazione è da CESARE SOBRERO, La nuova Messina secondo il sen. Paternò, L’Ora, 13 gennaio 1909, in Il terremoto…, op. cit. p. 482 e sgg.

29 G.CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina… op. cit. p. 40 e sg.

30 TULLIO GIORDANA, V. E. Orlando: la regina dello Stretto risorgerà, La Tribuna, 5

gennaio 1909. Ivi. p. 478 e sgg.

(22)

resurrezione, ode ancora una volta il suo comando: “Risorgi!”».32

Insomma una cosa fu da subito certa Messina, per urlata volontà dei suoi cittadini, sarebbe risorta e sarebbe risorta «dov’era». Almeno questo si deliberò la mattina del 7 gennaio allorquando

«sotto la tettoia della stazione ferroviaria33 i deputati Lodovico Fulci e

Giuseppe De Felice si riunirono ai membri superstiti della Deputazione Provinciale. L’adunanza ordina per acclamazione il seguente ordine del giorno: “i cittadini di Messina, scampati all’immane disastro, e qui presenti, nonché i consiglieri provinciali superstiti, il sen. Durante, gli onorevoli Pantano, Faranda, De Felice, Micheli, Orlando, Salvatore, Casciani, Bucelli, Fulci Lodovico, riuniti sulle rovine della città, incoraggiati dalle universali e commoventi prove di solidarietà umana, affermano essere un dovere storico e nazionale il risorgimento di Messina. Il Parlamento Italiano, rendendosi interprete dell’anima nazionale e dei voti del mondo civile, voglia con provvedimenti adeguati alla eccezionale sciagura e con l’indirizzo imposto dalla tragica esperienza, assicurare in queste plaghe desolate dalle forze cieche della natura la vita nuova della Città che vide seppelliti i suoi figli sotto altre rovine per la difesa della patria e della civiltà»34

Con quest’ordine del giorno un «gruppo di potere» spontaneo ma non estemporaneo e amorfo, un’élite che comprende cittadini elettori, ministri in carica, parlamentari autorevoli, eletti in collegi della città e in altri collegi, senza distinzione di maggioranza e opposizione, pronuncia uno statuario «io voglio» e lo fa in termini di volontà generale, come può essere espressa da una parte della nazione (da un municipio) per la nazione tutta intera.35

32 Si tratta dell’orazione fatta dal gesuita padre Fernando Calvi in occasione

della ricorrenza dell’anniversario. Ivi, p. 35.

33 I superstiti dei quadri dirigenti, invero decimati, fissarono un incerto quartier

generale alla stazione – probabilmente posto fra i più sicuri nell’oceano di macerie –, da lì, durante il primo improvvisato e commosso consiglio cittadino, si deliberò la resurrezione di Messina.

34 Il passo, pubblicato da La tribuna del Mezzogiorno, supplemento, 28 dicembre

1958, in La furia di Poseidon…, op. cit. p. 34

35 Ibidem. F. Mercadante, autore del contributo, passa poi ad un’attenta analisi

del passo riportato, individuando tre passaggi di grande e misurata qualità: «1) la rilevanza planetaria del caso Messina, in relazione alle eccezionali prove di solidarietà umana giunte da tutto il mondo: 2) il richiamo abilissimo, nella sua allusività, alla Messina città patriottica che ha già dato tanto, in sangue e rovine, alla causa del risorgimento italiano; 3) la certificazione diplomatica in un testo di pubblico interesse, fornita alle forze cieche della natura». Con grande acume, il nostro autore, in un positivo complessivo giudizio delle

(23)

Fu dunque Giolitti che il 15 gennaio 1909 nominò una Commissione Reale – istituita con decreto regio – con l’incarico di designare le «zone più adatte alla ricostruzione degli abitati colpiti dal terremoto del 1908 e precedenti».36 La

Commissione valutava affinché la ricostruzione avvenisse, sostanzialmente, nella medesima zona d’impianto e «nelle immediate vicinanze del porto»,37 ma che:

Nella riedificazione della città occorre pure tenersi a maggiore distanza dal mare e che in conseguenza non dovrà permettersi la costruzione di edifici destinati ad abitazioni permanenti in prossimità della spiaggia e sarà invece da prescrivere che tali abitazioni si mantengano a distanza di almeno 100 metri dal ciglio esterno delle banchine o dalla battigia del mare e dovrà del pari essere vietata ogni costruzione di abitazioni permanenti nell’area falcata.38

È facile credere che le rigide conclusioni cui pervenne la commissione, furono tratte nella convinzione – certamente ben radicata nei testimoni dell’orrendo spettacolo – della distruttività del maremoto, e nella necessità di attrezzare le

vicende della ricostruzione, per la particolare cifra di solidarietà dei popoli che la contrassegnò, non manca di notare come occorra periodizzare, «[…, Fra] esercizio della virtù, nel primo trentennio del secolo, fino al 1938, e […] satiriasi urbanistica [dal 1938 ad oggi]».

36 Formata da: prof. Pietro Blaserna, senatore, presidente dell’Accademia dei

Lincei con funzione di presidente; prof. Angelo Battelli, deputato al Parlamento, don Guido Alfani, direttore dell’Osservatorio geodinamico Ximeniano; prof. Carlo De Stefani, docente presso l’Istituto superiore di Firenze; ing. Raffaele De Corné, ispettore superiore del Genio Civile; Lucio Mazzuoli, ispettore superiore capo del Regio Corpo delle Miniere; prof. Torquato Taramelli, docente presso la Regia Università di Pavia; Eugenio Caputo, tenente colonnello del Corpo di Stato Maggiore del Regio Esercito; Paolo Marzolo, capitano di fregata, direttore del Regio Istituto idrografico della Marina; prof. Luigi Palazzo, direttore dell’Ufficio centrale di meteorologia e geodinamica; prof. Annibale Riccò, direttore dell’Osservatorio Etneo di Catania; prof. Giovanni Battista Rizzo, direttore dell’Osservatorio di Fisica di Messina. La Relazione della Commissione Reale incaricata di designare zone più adatte alla ricostruzione degli abitati colpiti dal terremoto del 1908 e precedenti, Roma, Tipografia della R. Accademia dei Lincei, 1909 è citata nell’articolo di NICOLA

ARICÒ, Ragionamento sulla città tradita, in La furia di Poseidon…op. cit. p. 313 e sgg.

37 Cfr. ANTONIO GUIDINI, Piano Regolatore della Città di Messina, Milano, Civelli,

1910, p. 24 e sg.

38 L’estratto della relazione è riportata da NICOLA ARICÒ in La furia di

(24)

banchine per l’approdo di più grandi scafi. Non si spiegano altrimenti prescrizioni che contravverrebbero con la spontanea vocazione della città e che creerebbero (e che, in effetti, crearono) una laceratura tra Messina e il suo porto. I cento metri di sicurezza fissati dalla battigia – e poi scrupolosamente rispettati nella prima stesura del piano approvato – fecero subito una vittima illustre. Ricadeva, infatti, all’interno della fascia di inedificabilità39 delimitata dalla Commissione quanto

restava del Teatro Marittimo – che d’ora in avanti appelleremo col nome post-unitario di Palazzata – e che non era poca cosa.

Sembra, infatti, che la Palazzata fosse dirupata a blocchi e nel complesso, non difficilmente riedificabile. Svariate le teorie al proposito dei danni, pure consistenti nel Grande Palazzo; ad esempio ci fu chi credé che a rimanere in piedi furono solamente le fabbriche cadute durante il sisma del 1783 e poi interamente riedificate; mentre a rovinare quelle che, pur resistendo alla prima «convulsione», raffazonatamente rattoppate, non ressero alla seconda. Pare plausibile; si tenga anche conto che il moto composito del sisma, prima oscillatorio poi sussultorio, crepò il terreno con discontinuità, come testimoniato dall’on. Luigi Fulci, il quale scrive:

«Ho saputo pure che il suolo della via Garibaldi si fosse rialzato. […] Essa presentava dei crepacci tra le basole della strada, ma non come un rialzo del terreno, ma invece come un avvallamento nella parte più bassa della città, nell’area cioè in cui la Palazzata fronteggia il teatro Vittorio Emanuele. […] Ebbi pure l’impressione che la distruzione completa sia stata in tutto quel terreno alluvionale che si trova vicino al torrente Boccetta e al torrente Portalegni, che passa presso il Grande Ospedale civico […]»40

E le fotografie della città distrutta non smentiscono la testimonianza, tanto più che anche laddove il nucleo della fabbrica crollava, i muri maestri restavano in piedi.41

39 Tra 15 e 30 m, con un massimo di 70 m. davanti la fontana del Nettuno. Cfr.

La furia di Poseidon… op. cit. p. 322.

40 Ibidem, p. 34 e sg. La testimonianza di Luigi Fulci è edita ne I giorni del

terremoto, a cura di Attilio Borda Bossana, Messina, Città e Territorio, 1998.

41 E lo spettacolo doveva parere spettrale: «A prima vista, sembrava che la

(25)

Comprensibile, quindi, che in breve tempo s’accese un appassionato dibattito fra i sostenitori della completa distruzione della Palazzata – concordemente con le norme igieniche e antisismiche – e coloro i quali, contrariamente, ne auspicavano la rinascita.

Per capire la centralità del tema, occorre tenere ben presente l’importanza che la cortina del porto assunse per Messina sin dalla sua fondazione: essa era il massimo orgoglio civico e s’identificava quasi integralmente con l’immagine della città. In tutta la topografia, cartografia, nelle rappresentazioni storiche dal 1625 fino ai primi anni del Novecento – sia, Messina, ritratta da sud (arrivando via terra da Catania), lo sia da nord (via mare) o lo sia frontalmente (è il caso più comune) – la Palazzata occupa, visivamente, un posto di assoluta importanza, a volta retoricamente ingigantita a discapito delle verità spaziali. Sia detto inoltre, che di là del pregio architettonico e della suggestività dell’immagine, il grande complesso monumentale rappresentava il potere cittadino che al suo interno vi teneva dimora.

Fondata con lo scopo di magnificare una tra le città più floride del regno, fu edificata con il sostegno stesso dell’élite messinese. Il viceré Savoia, infatti, mecenate e ideatore del Teatro Marittimo nel 1622 dopo aver messo in vendita l’area demaniale su cui sorgeva la cintura muraria lato mare, primamente abbattuta per far spazio all’erigenda fabbrica, obbligò gli acquirenti al completamento della costruzione, sul disegno dell’architetto incaricato Simone Gullì, in tempi strettissimi; fu così che la colossale opera poté essere ultimata in soli tre anni.42

Una lunga fila di sontuosi edificj sullo stesso disegno cingevano in guisa d’anfiteatro il porto anzidetto: eran questi uniti per via di magnifiche porte, in guisa che un solo palazzo figuravano. […] era tale la loro maestà ed eccellenza che venivan chiamati l’ottava meraviglia del

videro che il muro esterno, con la sua facciata scolpita di graziose divinità, era come un guscio vuoto di conchiglia». Ibidem p. 136.

(26)

mondo.43

In tutte le rappresentazioni, la costruzione appare sempre a quattro piani, di cui due nobili, con balconi a frontini alternati (curvilinei e triangolari) senza lesene, in cui l’unico elemento verticale di scansione ritmica era rappresentato dalle porte di accesso che si alternavano con periodicità costante, connotandosi in tal modo come elementi architettonici di riferimento.44

Il successo e la fama dell’opus maximum furono planetari (per il senso che può assumere questa parola nel XVII secolo): Regent Street, Bath, così come il l’idea di più palazzi, distribuiti lungo uno sviluppo mistilineo, «che un solo palazzo figuravano» trovano nel Teatro Marittimo Messinese il primo e più valido archetipo. La forza di un progetto, «in grado di cingere lo specchio del Porto», stava, fra l’altro, nel sostituire con «un’immagine di città aperta e vitale, [la] chiusura delle mura che isolavano la città dal mare».45 Per di più la varietà

funzionale e sociale che trovava albergo al suo interno – come dimora nobile, come centro direzionale, come centro mercantile – restava un unicum nel panorama italiano, come anche siciliano, possibile solo dove «quella fonte inesauribile di ricchezza»,46 che era il porto, aveva consentito la proliferazione

di un agiato ceto borghese. La Palazzata, per tutte queste ragioni trasversali, è candidata ad essere, con prepotenza, e quasi sin dalla sua inaugurazione, come fronte stesso della città e come unico modello di auto-rappresentazione.47

Tale la gloria che il giovane Filippo Juvarra, massimo tra gli architetti barocchi e – non a caso – messinese,48 alla vigilia

43 GAETANO GRANO, Guida alla città di Messina, scritta dall’autore de’ Pittori

Messinesi, Messina, Giuseppe Pappalardo, 1826.

44 PASQUALE LA SPINA, Appunti grafici della Palazzata nella Città di Messina,

Messina, Quaderno n. 2 dell’istituto di disegno dell’Università di Messina, 1980, p. 97

45 LAURA DI LEO,MASSIMO LO CURZIO, Messina, una città ricostruita: materiali

per lo studio di una realtà urbana, Bari, Dedalo, 1985, p. 35.

46 Messina prima e dopo il disastro…, op. cit. p. 163

47 Cfr. L. Di Leo, M. Lo Curzio, Messina una città ricostruita… op. cit.

48 Messina durante il XVII secolo teneva scuola di maestranze, principalmente

specializzate nell’opera d’intaglio e nel commesso di marmi. Foraggiati da un clero economicamente potente, capace di commissionare opere mirabolanti e massimamente decorate, le scuole messinesi si affermarono solidamente in tutta

(27)

della partenza per Torino, schizzerà una veduta del porto cittadino immaginando di vedere prolungata la Palazzata di cinque chilometri – oltre metà dell’intera lunghezza della costa settentrionale – fino al santuario di Santa Maria delle Grazie nel villaggio suburbano di Grotte.

Non sorprende, quindi, che dopo il terremoto del 1783, già nel 1803, su disegno dell’abate Giacomo Minutoli e con le stesse modalità secondo le quali sorse la precedente, «Rincorati gli animi […], prima d’ogni altro, si pensò di far risorgere la Palazzata più ricca, più imponente, più bella, se non più elevata di prima, quale segnacolo del risveglio edilizio della nuova Messina».49 Non vi fu, quindi, un dubbio ch’essa avesse

a risorgere, ma molte furono «le lungaggini» per risolvere il «grave quesito di non privare il porto della sua antica imponenza» e allo stesso tempo di assicurarla contro le future «convulsioni» del terreno. Nel complesso, la Palazzata dell’abate Minutoli era di bella forma e di poco divergeva da quella del Gullì, se non per un più evidente classicismo e per il «freddo razionalismo minutoliano».50 Per il resto – come la

precedente – era caratterizzata dall’assenza d’interruzioni orizzontali, e solamente cadenzata verticalmente da un alternarsi di colonnati. Al centro della cortina, spiccava su gli altri, il Palazzo della Città (Municipio) che aveva una più evidente cifra di monumentalità; mentre al 1908 essa appariva incompleta in alcuni blocchi i quali non erano ancora stati elevati alla quota del cornicione. Comunque, nell’insieme, «esprimeva gli stessi valori urbanistico-scenografici» della più antica fabbrica,51 e l’effetto era parimenti pregevole e del tutto

l’isola. Dalle decorazioni dei palazzi Biscari e Cerami a Catania, fino ai frontoni delle chiese di Noto, passando per la grande stagione edilizia che seguì il terremoto del 1693, Messina diede i natali a moltissimi tra gli artigiani più prolifici e raffinati del meridione. Juvarra, in questo senso, anch’egli figlio di un mastro cesellatore, non costituisce eccezione e porta alla corte sabauda quella fantasia spregiudicatamente barocca che eccelleva nella Città dello Stretto. Cfr. MARIA ACCASCINA, Profilo dell’Architettura a Messina dal 1600 al 1800, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964.

49 Messina prima e dopo il disastro…, op. cit.

50 Il giudizio è di Francesco Basile, riportato da P. La Spina, Appunti… op. cit.

p. 103

(28)

analogo a quello che aveva a meravigliare i viaggiatori durante il XVII e XVIII secolo.

È comprensibile quindi come la cittadinanza di Messina sentisse prioritaria la questione della Palazzata – e particolarmente del municipio, esempio di monumentalità e rappresentatività civica – che esplose allorquando il governo fissò quelle leggi antisismiche e igieniche cui ne sarebbe conseguita la definitiva soppressione. Di queste leggi occorre tenere a mente soltanto i due articoli del Regio Decreto 18 aprile 1909 N. 193, che furono decisivi nella ricostruzione e che tanto mutarono il volto della Città: «Art. 22 comma a) le vie debbono avere una larghezza non minore di metri dieci; […] comma b) le case prospicienti, […] non debbono avere altezza maggiore della larghezza della strada diminuita di m. 3,50».52

La ratio di queste due disposizioni è facilmente intuibile. Le case basse resistettero meglio al movimento tellurico, perché le oscillazioni non s’amplificarono in elevato. Messina, poi, all’alba del 28, era letteralmente sepolta sotto le macerie, tanto che non se ne riconosceva il tracciato viario: un’opportuna ampiezza delle strade – oltre ad avere degli ovvi vantaggi tecnologici e impiantistici – avrebbe maggiormente assicurato la sicurezza all’aperto.

È l’ingegnere cav. Luigi Borzì – già tecnico comunale al Genio Civile e sopravvissuto al 28 dicembre – a ricevere l’incarico del nuovo Piano Regolatore per la ricostruzione della città, ed a rispettare per primo puntigliosamente la normativa asismica, a misura di disastro, varata dal Governo. Egli previde, nel suo Piano, la soppressione della Palazzata, per l’intera sua chilometrica lunghezza, avendo fatte proprie le ragioni della sopra citata Regia Commissione, delle normative, e convinto, com’era, dalle precedenti sciagure, dell’instabilità di una simile opera.53 Scriveva, infatti, nel suo documento che

52 LUIGI BORZÌ, Piano regolatore della città di Messina, approvato con R. Decreto 31

dicembre 1911, p. 19 e sg. Edito in G. CAMPIONE,Il progetto urbano di Messina…, op. cit. p. 217 e sg.

53 Di seguito riportiamo le righe che Borzì dedica all’argomento nel suo Piano,

con le ragioni cui faceva ricorso per affermare l’impossibilità del restauro della Palazzata: prima fra tutte, l’esito disastroso del Teatro Marittimo gulliniano all’indomani del 1783. Scrive Borzì: «[…] Prima di chiudere questa parte, ritengo opportuno dare qualche notizia intorno alla Palazzata, la cui

(29)

«sarebbe il più grave errore persistere ora nella riedificazione della Palazzata»; e più avanti ribadiva come primaria per la «ricostruzione e il risanamento della vecchia città», la «soppressione della Palazzata con allargamento della via

costruzione, durante il regno di Filippo IV, fu ideata da Emanuele Filiberto. Questo Principe, il quale nutriva un culto per le manifestazioni dell'arte, pensò di costruire attorno al porto un superbo teatro di palazzi: e nel 1622 ne fece porre la prima pietra ed a ricordo fece subito erigere un altare presso la Porta dei Martoriati, “Porta Messina”. Gli annali del Gallo narrano che la grande fabbrica fu ultimata in soli due anni [in realtà sono tre, dal ’22 – ’25. N.d.A.]. Ciò valga a dimostrare quanto florida fosse allora la città. Un secolo dopo, 20 Giugno 1753. il viceré Duca di Laviefuille, sotto il dominio di Carlo di Borbone, nominava una speciale commissione per la decorazione del grande edifizio; e, “per migliorare la linea estetica del teatro marittimo”, faceva sgombrare la casupole e le baracche abitate dai pescatori, le quali deturpavano l’ampia strada. La Palazzata cadde poi interamente, in seguito al terremoto del 1783. Attenuata col tempo l’impressione disastrosa di quel cataclisma, rinacque l’idea di riedificare la Palazzata là dov’era già caduta. E molti furono i dibattiti nei quali, più che le ragioni dell’arte, contendevasi la vittoria gli interessi delle persone. Nel 1790 il Capitano Ingegnere Francesco La Vega, aveva impartito all’abate Minutoli (incaricato del progetto) istruzioni in proposito; ma queste furono revocate nel 1801 in seguito a parere della Giunta delle strade, la quale stabilì che la nuova Palazzata, a differenza dell’antica, dovesse comprendere 36 isolati con altrettante porte 13 delle quali dovevano distinguersi per speciali ornamenti. Oltre a ciò ogni fabbricato doveva contenere tre ordini di aperture, ciascun dei quali, in linea orizzontale, doveva averne almeno sei. L’altezza. dal livello del terreno al cornicione, doveva essere di palmi 77, pari a metri 19.86. Ma gli intrighi continuarono, e solo cessarono quando l’abate Minutoli autore del progetto approvato, si unì con uno degli altri architetti il quale, pur facendo parte della giunta delle strade, era stato il più accanito avversario. Ciò avvenne il I7 settembre 1808. Ma una nuova remora doveva ostacolare la riedificazione della Palazzata: le difficoltà per la concessione del suolo. Provvide disposizioni del governo permisero di appianare siffatte difficoltà, diguisaché sul finire del 1809 si videro sorgere i primi palazzi che, col volgere di alquanti lustri, dovevano formare quel monumento d’arte che fu uno dei più lodati di Messina e che il tremendo disastro ultimo inesorabilmente distrusse. Certamente i nostri antenati non tennero alcun conto dei movimenti sismici a cui era oggetto il nostro territorio: il disastro del 1783 ed i fenomeni allora osservati, avrebbero dovuto ammaestrarli specialmente sulla resistenza che poteva offrire il sottosuolo della città: ma l’amore dell’arte e la maestosità dell’opera sorpassarono ogni sentimento di prudenza! A distanza di un secolo, la rovina del superbo edificio doveva recare lo sterminio nelle famiglie più agiate e di nobile casato! Sarebbe quindi il più grave errore persistere ora nella riedificazione della Palazzata». Ivi, p. 9 e sgg.; in G.CAMPIONE,Il progetto urbano di Messina…, op. cit. p. 207 e sgg.

(30)

Garibaldi sino al mare».54 E così accadde. Ma non prima, che

l’opinione pubblica, i quadri dirigenti e altri autorevoli personaggi si fossero espressi sulla questione ed avessero auspicato la conservazione del fronte a mare.

Il parere che più d’altri è rilevante, per serietà d’indagine e sensibilità d’approccio, è quello sostenuto dall’ingegner Augusto Guidini, ticinese, di solida e moderna formazione. Egli alimentò la speranza nei superstiti, che non solo la Palazzata potesse essere ricostruita, ma che ciò accadesse, era un obbligo e un segno di rispetto verso la Città.55 Guidini aveva proposto

54 Quest’ultima seguirà il contorno del porto, raccordandosi col viale 'Principe

Amedeo’ a nord e con viale San Martino a sud. Per aderire al desiderio della cittadinanza, espresso dalla commissione nominata dal Regio Commissario, detta via, in corrispondenza del palazzo prefettizio, continuerà egualmente larga a nord Verso il quartiere Fornaci, mentre dal lato opposto, attraversando sempre in linea retta la via Primo Settembre, sboccherà in Piazza Cairoli. Tenuto conto del rialzamento che dovrà subire lo spazio destinato a calata del porto (in conformità del progetto di massima compilato da apposita Commissione di Ispettori Superiori del Genio Civile) il tipo che abbiamo dato all’arteria in questione è indicato nella tavola 6. Allegato 6. La sua massima larghezza, dato il traffico che è destinata a contenere, è stata stabilita pari a quella dei viali Principe Amedeo e San Martino, dei quali rappresenta il tratto di riunione.

Eguale larghezza si é pure assegnata ai due tratti estremi in rettifilo con la parte Centrale. Ivi p. 27; in G. CAMPIONE, Il progetto urbano di Messina…, op. cit. p. 225.

55 Di seguito si riporta il paragrafo, dal titolo «Necessaria e doverosa

conservazione della Palazzata», nel quale, Guidini, scrive ragioni e modi per trattare il fronte a mare. «E ciò deve valere anche e principalmente per la Palazzata, di così monumentale e grandioso aspetto, che segna una linea frontale decorativa in prospetto del mare. La quale Palazzata può essere, in tutta od in parte, conservata e riedificata, con monumentale carattere – ad esempio degli insigni monumenti antichi ed asismici – alla semplice condizione di migliorarne ed irrobustirne le fondazioni, mediante larghe ed idonee platee d’impianto, in cemento armato ed a doppia orditura; o con una costruzione più collegata e massiccia, con miglior pietra che non sia l’arenaria di Siracusa, ed impiegata meno a rimpello dell’attuale. È un fatto che la Palazzata – nel suo sviluppo chilometrico, formante il magnifico fronte della città – ebbe più gravemente a soffrire dell’incendio, che delle scosse telluriche. Onde il suo aspetto – solo in parte lesionato – larvava dal Porto l’immensità del disastro retrostante ed esteso, dell’infranta Città. Nessuna speciale ragione scientifica ne esige od impone lo sgombro. La costituzione litologia e geologica del sottosuolo è uguale a quella della adiacente e rimanente zona pianeggiante, risultando lo stesso identicamente formato da sabbie marine, e da alluvioni recenti, consolidate: col vantaggio di una stratificazione regolare e spianta, esente dai pericoli di frana dei più accentuati pendii retrostanti; e colla identica e

(31)

al Comune, su iniziativa personale, un Piano Regolatore alternativo a quello Borzì, segnato da una cifra spiccatamente più conservativa e rispettosa, non soltanto del tessuto dell’antica «zona d’impianto», quant’anche delle testimonianze che, seppur malconce, avevano ancora speranza di essere restituite alla città. Tanto più, un tale approccio, doveva valere

sottostante esistenza del cristallino e del conglomerato, come è attestato dai diversi affioramenti circostanti, e nella falce naturale ed antistante del Porto. E la stessa Sottocommissione scientifica, nella dotta Relazione stesa dall’illustre professore Taramelli, mentre afferma come «nell’area della distrutta Messina non esistono plaghe di spiccata incolumità» riconosce esplicitamente, ed a ragione, che «le alture circostanti […] siano state ancora più del piano fortemente scosse e sconvolte, e disseminate di rovine». Ora la Palazzata forma appunto il fronte della zona pianeggiante: e di questa, e della intiera zona d’impianto della vecchia Città, fu la meno danneggiata dalle scosse distruttrici, segnatamente nella sua tratta centrale e nella testata verso l’antico Palazzo Reale; risultando solo più lesionata nell’opposta testata, verso il Faro, ove si accentua un maggior isolamento. Tutto questo non attesta certamente, in suo favore: né può imporne, od anche semplicemente indicarne, la totale rimossione [sic], e lo sgombro. Né il parziale abbassamento di uno dei margini del Corso Vittorio Emanuele, può far temere – e dopo una tanto catastrofe – ulteriori frane o sommersioni: trattandosi per di più di sponda di un Porto, di limitata profondità, e moderata azione delle acque, e colle continue dejezioni dei torrenti che vi sboccano: e non di riva di mare aperto. E la battigia del mare – in detto Porto naturale protetto dal lido falcato – è ben limitata: né può esercitarvi, certamente, una soverchia azione di corrosione. Perché dunque distruggere l’intiera Palazzata ed arretrare il fronte della Città? Perché non dovrà invece essere conservata: e meglio perché non dovrà risorgere – almeno in parte – nella identica zona d’impianto, nello storico e scenico suo aspetto, ed alle forme tradizionali e congenite della classica architettura? L’eliminarla intieramente sarebbe, certamente, atto ingiustificato ed eccessivo. Il deliberato già accennato della Commissione Reale conferma ed elenca le imprescindibili ragioni, esigenti che la Città risorga sulla superficie già da essa occupata, in immediata vicinanza del porto» la eliminazione della intiera sua parte frontale e migliore, sarebbe quindi in contraddizione: sarebbe per di più un vandalismo – che tornerebbe di grave sfregio alla Città, dannoso allo stesso Porto, e sommamente doloroso ai superstiti abitanti. Il magnifico anfiteatro marittimo – che data ormai dal XVII secolo – e che fu geniale concetto e creazione fastosa degli antenati di Casa Savoia, essendone stato ideatore Emanuele Filiberto, e continuatore Vittorio Amedeo Sovrano di Sicilia, fregiato dal nome del primo Re d’Italia, vuol essere conservato all’arte, alla storia, ai fasti della Città sventurata e gloriosa. Così l’aspetto sul mare, della Città rinnovata, non sarà meno bello e trionfale, di quanto lo era quello della vecchia Città; ora tanto ed orribilmente devastata e distrutta. Così la risorgente Città avrà nuovamente il suo fronte tradizionale, specchiantesi nelle acque azzurre del Porto falcato ed eterno. “Post fata resurgam”, ed in tutto il prisco splendore: sarà la divisa fatidica della nuova Messina». A.GUIDINI, Piano Regolatore…, op. cit. p. 24 e sgg.

(32)

per la Palazzata «di così monumentale e grandioso aspetto». Le ragioni tecniche che attendono all’operazione di tutela, pongono un’alternativa alle rigide norme asismiche, ampiamente avallate nel piano Borzì: tanto l’altezza degli edifici,56 quanto l’ampiezza delle strade, per Guidni, non

dovrebbero costituire una variabile, stando costante l’elevata qualità tecnologica delle fabbriche e le alte prestazioni dei materiali impiegati. Anzi, rilancia. Una maggiore altezza, «colla aggiunta di [un piano] intermedio», oltre ad assicurare quella cifra di monumentalità che sarebbe impari negare alle zone del sud, dove esistono poche «aree di spiccata incolumità» dai sismi, renderebbe «l’edificio […] più solido, collegato e resistente: e la sua limitata maggior altezza è largamente compensata dal migliore ed organico sistema costruttivo e dalla maggiore sicurezza asismica, conseguentemente risultante». «Nessuna speciale ragione scientifica ne esige od impone lo sgombro», «alla semplice condizione di migliorarne ed irrobustirne le fondazioni, mediante larghe ed idonee platee d’impianto, in cemento armato», e mediante l’impiego di una pietra diversa, più resistente, della fragile arenaria di Siracusa. La Palazzata, poi, diversamente dalle costruzioni più a monte, meglio resistette alle scosse, e ciò avvenne per la sua posizione, nell’area più pianeggiante e quindi meno soggetta ai moti

56 «Vostra eccellenza accenna alle norme tecniche ed alla limitata altezza

ufficialmente prescritta per i nuovi edifici. Ma io osservo in proposito, che la buona soluzione di un edificio asismico e sicuro è possibile anche fuori dai limiti ufficiali. […] L’altezza soverchiamente limitata degli edifici costituisce una vera e propria disparità di trattamento nelle zone meridionali generalmente soggette a scosse sismiche. E penso che Vostra eccellenza farebbe cosa utile e necessaria – pur rispettando per i casi comuni e di edifici popolari ed economici le norme citate – di porre allo studio la occorrente estensione del problema, e la utile soluzione, per speciali ed importanti edifici civili, e pubblici e privati, di organismi di maggior altezza, da almeno dodici a sedici metri: e comunque prendenti almeno un piano ammezzato, oltre i due piani normali. […] perché l’edificio spesso – colla aggiunta di una intermedia e generale impalcatura – ne risulta più solido, collegato e resistente: e la sua limitata maggior altezza è largamente compensata dal migliore ed organico sistema costruttivo e dalla maggiore sicurezza asismica, conseguentemente risultante». Si tratta di uno stralcio della corrispondenza tra Guidini e il Ministro ai LL. PP. Ettore Sacchi pubblicata sulla «Gazzetta di Messina e delle Calabrie», 7-8 agosto 1910, in RAIMONDO MERCADANTE, Messina dopo il terremoto del 1908, la ricostruzione dal piano Borzì agli interventi fascisti, Palermo, Caracol, 2009, p. 93.

Riferimenti

Documenti correlati

Pedro Marques de Abreu 10.. novembre 2008 DISEGNARE CON DISEGNARE CON ISSN 1828 5961 dicembre 2008 DISEGNARE CON.. Palazzi

Il bilinguismo greco-latino nella Sicilia dell’età imperiale può essere valutato più chiaramente rispetto ad altri periodi. Nell’età imperiale sembra che

Combinando il modello di esposizione, che contiene il numero di edifici in ogni gruppo di vulnerabilità all’interno di una sezione di cen- simento, con le previsioni delle

L’indagine sulla Condizione occupazionale dei laureati ad uno e a due anni dalla laurea è dovuta alla collaborazione fra gli Atenei di Bologna, Catania, Chieti, Ferrara,

[r]

d) infine, l’interessato - sulla base del riconoscimento dei diritti derivanti dagli articoli 7 (Rispetto della vita privata e della vita familiare) e 8 (Protezione dei dati

p.. que, pour le dire un peu brutalement et d’une formule, du point de vue de ces relations, « l’animal ça n’existe pas » : nous ne les considérons pas du tout de façon

Attribuzione - Non commerciale 3.0 Unported This work is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0 Unported License Orsina Simona Pierini EDItoRIAlE:. MADRID REConsIDERED