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L’ INFLUENZA DI A DOLFO W ILDT E DELLA TEMATICA SPIRITUALE

Gli anni argentini furono inframmezzati dalla sola esperienza formativa che Fontana ebbe al di fuori dell’influenza paterna e del suo stesso talento nel mettersi in relazione con le persone stimolanti dei territori in cui viveva. Tornato a Milano, come noto, si iscrive alla classe di Adolfo Wildt che frequenta di fatto solo il primo anno. Il corso di Adolfo Wildt era strutturato come un corso triennale, dove al Maestro veniva lasciata totale libertà di scegliere programma e sistemi didattico-pratici che gli sembravano appropriati56. All’inizio del 192757 aveva

56 Milano, Archivio Storico Accademia di Belle Arti di Brera, cartella TEA G III 29: «Reale Accademia di Belle Arti e Regio Liceo artistico, Scuola per la

lavorazione del marmo. Regolamento: Viene istitutito un corso speciale per la lavorazione tecnica del marmo. Esso avrà durata di tre anni e accoglierà alunni obbligatori e alunni liberi frequentatori. Il corso è affidato all’insegnante di scultura Prof. Adolfo Wildt, il quale sarà libero di svolgerlo con quel programma

scelto di insegnare la lavorazione del marmo per venticinque ore settimanali. Lucio Fontana compare nel registro dei corsi come matricola 94858 per la prima volta, appunto, nel 1927, iscritto al primo anno di scultura con voto dieci, mentre risulta assente in Storia dell’arte e del costume e ha otto in anatomia; a margine si dice «data la sua maturità la commissione lo ritiene promosso al terzo anno di corso»; ma nel registro del terzo anno risulta assente. L’influenza di Wildt è riscontrabile maggiormente in alcuni lavori accademici come El auriga (28 SC 12) presentato per l’esame di diploma all’Accademia di Brera, o ancora in Ragazza seduta (28 SC 13), o nella Madonna del Loculo Pasta (29 A 1) nel cimitero monumentale di Milano, e rimarrà presente nel tempo sotto altre forme. Sul dibattito tra arte pura e decorazione, architettura e arti decorative, Wildt era solito dire che artista e artigiano dovevano camminare indivisibili. E queste parole lasciano intendere come credesse nell’arte in quanto operazione capace di rilevare gli ideali di un’intera epoca, e inoltre intendesse come centrale il rapporto arte/industria/artigianato, secondo i dettami dei primi decenni del secolo soprattutto in Austria e Germania. Si pensi all’ossessione di un’architettura totalizzante o al mito della cattedrale nell’Espressionismo o nel Bauhaus di Weimar. Non si vuole certo dire che Wildt promulgasse l’atmosfera del Bauhaus, tuttavia mostrava una decisa consuetudine con l’idea di Gesamtkunstwerk di memoria Wagneriana – cardine anche del Gropius di quell’epoca59. Ma Wildt era anche un grande conoscitore della scultura e la pittura antica, da Pontormo a Michelangelo alla scultura greca, e questo è tanto più vero se pensiamo che e con quei sistemi didattico-pratici che gli sembreranno più confacenti allo scopo. Il giudizio annuale come quello di licenza dal corso sarà reso da una commissione composta dal detto professore che sarà il presidente, da altro insegnante

dell’accademia e da un artista e cultore d’arte estraneo all’insegnamento che saranno nominati dal Presidente dell’Accademia»

57Cfr. Milano, Archivio Storico Accademia di Belle Arti di Brera, Atti della Presidenza del Consiglio, Cartella TEA G III 29. Atto n. 1222 del 20 dicembre 1926 (Regolamento per la scuola della lavorazione del marmo) in cui si comunica che la scuola può iniziare subito dopo le vacanze di Natale avendo ricevuto l’approvazione da parte del Ministero. In un altro foglio della cartella si legge «illustre maestro che oggi non ha forse chi lo eguagli».

58 Milano, Archivio Storico Accademia di Belle Arti di Brera, Cartella 4 I 25. 59 Cfr. Sileno Salvagnini, Brera e la scultura di Adolfo Wildt. Acune riflessioni, in

Due secoli di Scultura, a cura dell’Istituto di Storia e Teoria dell’Arte e

dell’Istituto di Scultura Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, Fabbri Editori, 1995, pp. 140-155.

quando studia, alla fine del 1800 (1877-78), si incominciano a intraprendere le prime campagne di scavi a Pergamo: chi si era formato sui canoni della scultura greca del V secolo restava assai scosso per la ricchezza compositiva e la frenesia quasi dionisiaca ostentata dai movimenti delle diverse storie rappresentate sui fregi dell’altare60. Fra i maestri più recenti, Wildt amava Rodin e Hildebrand. Di Rodin amava la forza espressiva e il guizzare drammatico della luce sulle superfici che dava alle opere un’inquietudine irresistibile, da Hildebrand aveva invece preso l’avversione per il realismo preferendo la ricerca di un equilibrio fra contenuto e espressione proprio della scultura classica. Il suo messaggio più stimolante fu sicuramente la scultura come dissoluzione materica e mezzo per giungere all’astrazione. In questo senso, l’allievo più wildtiano, non nella forma ma dal punto di vista di stimolo delle potenzialità fantastiche e della vocazione al bidimensionale, fu sicuramente Fontana. E’ già l’opera di Wildt a cercare con insistenza, quindi, il valore della superficie61. Per inciso, stranamente nessuno degli allievi più noti ha usato il marmo, e questo perlomeno appare degno di studio: forse il marmo era una materia troppo legata alla tradizione simbolista oltre che troppo costosa. Possiamo ipotizzare che il linearismo decorativo e la tensione della superficie in Fontana provengano proprio da Wildt, insieme all’uso dell’oro - che riprenderà anche nelle ultime Fine di Dio; un utilizzo nato dall’idea crisoelefantina della scultura, che in Fontana si muta anche in tessera di mosaico; l’oro diviene la più immateriale delle sostanze e il veicolo del più spirituale di tutti i sensi62. E anche questa tensione allo spirituale, al liberarsi della materia, Fontana la accoglie da Wildt, per il quale l’opera era la liberazione dello spirito dalla materia prima del marmo.

A proposito di spirito, tema così ricorrente nell’insegnamento di Wildt, non c’è dubbio, se non altro per la frequenza con cui ricorrono nella sua opera soggetti sacri, che esiste un problema che riguarda la religiosità di Fontana. Si è ipotizzato63 che egli tenti una sua lettura del sacro partendo da un’osservazione

60 Dal 1912 gli fu dedicato il museo a Berlino.

61 Cfr. Marco Meneguzzo, La scuola di Wildt. Cosiderazioni su un Mito, in Due

secoli di scultura, cit., pp. 220-229.

62 Cfr. Laura Cherubini, Un filo sacro da Wildt a Fontana, in Due secoli di

scultura, op. cit., pp. 232-237.

sull’uovo come simbolo di una divinità sempre presente, che si viene a sostituire all’iconologia di un’antica figuralità ormai usurata e consumata. Tuttavia il tema del sacro appare sicuramente interessare Fontana, almeno per la sua sfida a trattarlo in un modo non convenzionale; rimane un problema che connota gli ambienti, dove il cambiamento di umore e di percezione ricorda quasi un raccoglimento mistico, un’osservazione timorosa di qualcosa che fa pensare alle icone o a una certa simbologia. Anche qui gioca un ruolo, si direbbe, il fatto di aver avuto consuetudine fin da piccolo con le cappelle funebri, tema che peraltro non abbandonerà mai, neanche dopo il fatidico 1949. Comunque il rapporto di Fontana con la spiritualità sembra essere davvero ambiguo e così anche la sua negazione per il concetto di eternità nei manifesti riguarda l’arte64 e la materia; è chiaro anche dalle sue ultime interviste65 che Fontana non ha mai negato propriamente l’esistenza di Dio o di una dimensione assoluta, di un aldilà.

Il fatto di credere nel Paradiso o nell’Inferno è un fatto proprio di coscienza, di fede, che uno crede, ma come rappresentazione estetica […] perché il cosmo dimostra che è un infinito, l’infinito è nulla e non esiste eternità sulla terra […] e che Manzù faccia gli angeli che cadono dal cielo, la morte nello spazio, uno che cade giù tutto vestito, pare che si rompa l’osso del collo cadendo da una scala. Un artista moderno deve concepire la morte nello spazio come una strutturazione completamente nuova, no? […] La fine di Dio […] chi sa com’è Dio no? E allora avevo fatto questi buchi. Come anche un altro quadro che ho presentato a una mostra d’arte cattolica: c’eran due tagli, tutto azzurro e dicevo “io credo in Dio”. E loro son venuti e han detto “ma cosa vuol dire questo qui?” “un atto di fede, il solo gesto che faccio è credere in Dio” E ho detto loro “ditemi voi: com’è Dio? com’è fatto? non lo sapete nemmeno voi”. Allora io faccio un gesto, credo in Dio, faccio un atto di fede”. E commentando i suoi manifesti a proposito del Manifesto spaziale afferma: “parla di una trasformazione sociale che sarà indispensabile perché vede […]

64 «L’arte è eterna, ma non può essere immortale. E’ eterna in quanto un suo gesto, come qualunque altro gesto, non può continuare a permanere nello spirito dell’uomo come razza perpetuata. Così paganesimo, cristianesimo e tutto quanto è stato dello spirito sono gesti compiuti ed eterni che permangono e permarranno sempre nello spirito dell’uomo. Ma l’essere eterna non significa per nulla che sia immortale. Anzi essa non è mai immortale. Potrà vivere un anno o millenni, ma l’ora verrà, sempre, della sua distruzione materiale». Dal Primo Manifesto spaziale, Milano, dicembre 1947.

l’uomo nel cosmo è nello spazio in tutte le sue dimensioni. E allora anche nel fatto religioso finiscono tutte le allegorie perché devono cadere, ecco che io faccio un simbolo “credo in Dio”, faccio due tagli”.66

Nella sua disamina sull’attività religiosa di Fontana, Giorgio Verzotti67 sostiene che le sue raffigurazioni religiose sono da attribuire al carattere barocco della sua arte, ma che alcune opere sacre, soprattutto le crocifissioni o le via crucis, pongono un’enfasi sul peso della croce, sul dolore del calvario e della crocefissione di Cristo, difficile da trovare persino nelle vie crucis realizzate dagli autori più credenti. Nella biografia del catalogo del Centre Pompidou, Verzotti e Grenier68 ricordano che Wildt faceva disegnare uova agli allievi; ecco dunque la probabile matrice del tema dell’uovo in Fontana, immagine del microcosmo, dell’origine, denso di una simbologia sacra che proprio nella pinacoteca di Brera appare nella pala di Piero della Francesca. Tema formale che poi torna sia in Melotti, nella Palla sferica, sia in Fontana69. E non possiamo trascurare che anche il filo di luce che trasporterà quest’ultimo nell’arte spaziale, quell’arabesco di neon che realizzerà per la Triennale del ’51, porta quell’andamento a spirale che simboleggia anche il viaggio dell’anima dopo la morte dove la luce potrebbe alludere al Paradiso. In quest’ottica anche la forma conchiusa dei suoi primi ambienti non rimanderebbe altro che al tempio, al pantheon funebre che aveva

66 Ivi, p. 169.

67 Giorgio Verzotti, Fontana et le religieux, in Lucio Fontana, Paris, Editions du Centre Pompidou, 1987, pp. 324-332.

68 Ibidem; Catherine Grenier, La quatrième dimension ideale de l’Architecture, in

Lucio Fontana, Paris, Editions du Centre Pompidou, 1987, pp. 60-73.

69 L’uovo da sempre simbolo cosmico, emblema del verbo creatore, nelle antiche religioni del vicino oriente, l’uovo rappresentava il principio creativo, perciò divenne simbolo di rinascita nei riti che celebravano il rinnovarsi annuale della vegetazione. Di qui passò in ambito cristiano come simbolo pasquale della resurrezione di Cristo. L’uovo di struzzo, in quanto simbolo di rarità e preziosità, era talvolta appeso a fine decorativo e simbolico, dentro le chiese (cfr. Piero della Francesca, Sacra Conversazione, Pinacoteca di Brera, Milano).

Il globo, da sempre rappresenta la terra, l’intero, la sfera, l’universo, spesso in più sfere concentriche rappresenta il cielo cristiano o il vortice creatore. O ancora la sfera come allegoria della cosmogenesi, la pietra filosofale (Caravaggio, Allegoria della creazione alchemica, 1597 c.ca, casino di Villa Ludovisi, Roma).

visto realizzare così tante volte, dove è comune l’uso di una pianta centrale con una parete circolare esterna che sorregge la copertura a cupola70.

Da Wildt proviene il rispetto per il mestiere, l’esigenza di mantenere il controllo assoluto sull’esecuzione; al suo insegnamento si possono far risalire anche il gusto per l’astrazione e per i volumi puri, l’abilità nello svuotare la materia liberandola dal peso, la capacità unica di dare forma al vuoto. Scrive Melotti:

Adolfo Wildt è stato certamente un maestro, se deferenza si deve a chi ai propri allievi lascia in eredità qualcosa. Anche se le sue opere ci appaiono come diminuite da una certa retorica del dolore, è il suo modo di muovere i piani secondo eliche sfuggenti in un secco virtuosismo ancora oggi di valida lezione. Lucio Fontana come il sottoscritto suo allievo aveva scatti furiosi per la sufficienza verso il maestro […]. Non avendo ricevuto nulla da nessuno, noi sapevamo di dovere qualcosa ad Adolfo Wildt.71

Mentre la morte del padre (1946) in un certo senso lo libererà da un forte legame con l’arte di stampo tradizionale, la lezione di Wildt sembra in effetti permanere sottotraccia nel tempo. Persino i tagli ricordano gli occhi delle maschere del maestro, con il loro passaggio dal bianco al nero. Ma questa influenza, venata dal senso del lutto, si confonde anche con quella appunto del mestiere appreso dal padre: prima della scomparsa di quest’ultimo, consultando i disegni inediti presso la Fondazione Fontana, se ne osservano molti con studi di monumenti funebri e cappelle. Peraltro, dai disegni risulta altresì che questa pratica continua anche dopo ed è chiaro che i criteri di costruzione puntano soprattutto all’integrazione totale, al matrimonio, alla simbiosi tra architettura e scultura72.

70 Cfr. Gli spazi della memoria: architettura dei cimiteri monumentali europei, a cura di Mauro Felicori, Roma, Sossella, 2005.

71 Fausto Melotti, in Schewiller a Milano 1925-1983 (catalogo della mostra), Biblioteca Comunale e Museo di Milano, Milano, 1983, p. 54.

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