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S ELEZIONE DEGLI AMBIENTI IN ORDINE CRONOLOGICO 1949-

Gli ambienti esaminati nel capitolo che segue sono stati selezionati considerando solamente le opere più innovative create da Fontana, e cioè quelle che su tutta l’opera ambientale si distinguono perché pensate espressamente per occasioni espositive effimere, destinate a durare solo il tempo della mostra e considerate dallo stesso artista pure opere d’arte, in altre parole libere da vincoli di committenza legati ad abitazioni private o architetture celebrative. La selezione cronologica osserva ciascuna opera singolarmente, riportandone le caratteristiche tecniche, le realizzazioni, singole o ripetute, la documentazione esistente e un commento critico che, analizzando le implicazioni storiche, formali e culturali di ciascun ambiente, enuclea i principali nodi problematici che derivano dal confronto della consapevolezza spaziale di Fontana con le ricerche più all’avanguardia che contemporaneamente si svolgevano nel vecchio e nuovo continente. Tali ambienti che chiamiamo “maggiori” contribuiscono a dare nuova luce alla figura di Fontana come innovatore nella storia dell’environment che finora è stata vista dal solo punto di vista americano.73

73 Sebbene il processo di allargamento dei concetti modernisti di pittura e scultura (Cfr. Rosalind Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, 1981, tr.it. Milano, Bruno Mondadori, 1998; Rosalind Krauss, La scultura nel campo allargato, 1978, tr.it. in L’Originalità dell’avanguardia e altri miti

modernisti, Roma, Fazi editore, 2007, pp. 297) muove sin dal Manifesto futurista di Marinetti (1909) dove le arti tradizionali vengono affossate come statiche, è soltanto a partire dagli anni Novanta che il termine arte ambientale anche detta environmental art o environment entra a pieno titolo nelle forme artistiche riferendosi a un “luogo chiuso in cui l’intervento dell’artista dà allo spazio una caratteristica estetica che altrimenti non avrebbe” (Cfr. Kostelanetz, Dictionary of the avant-gardes, New York, Routeledge, 2001, p. 197) o a una “forma d’arte tridimensionale in cui lo spettatore si sente completamente avvolto in una molteplicità di stimoli sensoriali – visivi, uditivi, cinetici, tattili e olfattivi” (Chilvers, A Dictionary of Modern and Contemporary Art, Oxford, Oxford University Pr., 2010). Comunemente gli antecedenti vengono fatti risalire all’arte europea delle avanguardie, alle opere dada e costruttiviste come gli ambienti Proun di Lissitzky e il Merzbau di Schwitters o le opere dell’Esposizione

Internazionale Surrealista di Parigi del 1938. L’origine vera e propria del

movimento viene invece attribuita alle esperienze americane degli anni Sessanta, a partire dalle considerazioni sulla centralità e l’attivazione dello spettatore nate con il minimalismo (Judd, Specific Objects, in “Arts Yearbook”, n. 8, 1965) che consideravano l’opera d’arte incompleta senza lo spettatore, e trova il suo pieno sviluppo con gli scritti di Allan Kaprow (Assemblage, Environments Happenings, New York, 1966) quando il minimalismo scivola nella performance e di seguito nel riferimento critico verso un luogo, dando origine alla site-specific art. Nella trattazione recente il più delle volte, infatti, l’arte ambientale viene analizzata insieme all’installazione (Claire Bishop, Installation art a critical history, London, Tate, 2005) o considerando i livelli di partecipazione e coinvolgimento dello spettatore (Claire Bishop, Participation, London, MIT, 2006; AA.VV, The art of participation 1950 to now, New York, Thames and Hudson, 2008), o ancora la sua localizzazione in un determinato luogo (Miwon Kwon, One place after another, Cambridge MA, MIT, 2004) con il passaggio ulteriore all’arte pubblica in grado di creare aggregazione politica, o opinione. Il più delle volte, quindi, l’espansione nello spazio dell’opera d’arte viene vista in termini di rapporto fra l’oggetto e la posizione che occupa, o fra un evento e la relazione con lo spettatore (Nick Kaye, Site-specific art, performance, place and documentation, New York, Routeledge, 2000). Nelle pubblicazioni citate le questioni formali che tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta hanno portato l’opera d’arte scultorea e pittorica ad espandersi nello spazio sono analizzate attraverso esempi

principalmente filo americani. Dai quadri di Pollock (Allan Kaprow, The legacy of Jackson Pollock, 1958) ai combine di Robert Rauschenberg (Monogram, 1959), da mostre come The Art of Assemblage al Moma (1965), ai box in legno di Louise Nevelson (1958), fino ai tableaux vivants di Ed Kienholz (Roxy’s, 1962). Se invece guardiamo alle ragioni formali dell’allargamento dell’opera d’arte verso lo spazio, è con Balla che possiamo dire di osservare il primo esempio di arte

ambientale in uno spazio chiuso. La progettazione dell’intero arredo di casa Lowenstein (Düsseldorf, 1912-1914) e l’inizio della sistemazione della sua casa- studio di via Oslavia (1911) precedono il Manifesto della ricostruzione futurista dell’universo, che Balla firma con Depero nel 1915, dove si legge: “Balla sentì la necessità di costruire con fili di ferro, piani di cartone, stoffe e carte veline, ecc., il primo complesso plastico dinamico” che doveva essere “astratto, dinamico, coloratissimo e luminosissimo (mediante lampade interne), autonomo, cioè

somigliante solo a sé stesso, drammatico, odoroso, rumoreggiante”. Balla sancisce così la sua uscita dalla mera dimensione pittorica approdando a un concetto di arte totale; realizza complessi plastici, sperimenta nuovi spazi, disegna vestiti, progetta e crea arredi, mobili e suppellettili per la sua casa.

Anche l’esperienza di El Lisickij si colloca in questo contesto. Negli anni Venti sviluppa un nuovo tipo di allestimento in opere come il primo Ambiente Proun (Berlino, 1923), l’ambiente per l’arte astratta all’Esposizione Internazionale di Dresda nel 1926, dove le pareti erano ricoperte di listelli di legno dipinti di grigio, bianco e nero, il padiglione sovietico per l’esposizione internazionale Pressa (Colonia, 1928).

Entrambe le operazioni non devono essere viste come tentativo di creare nuovi ambienti espositivi, sono un riconoscimento della morte delle modalità percettive della pittura da cavalletto, per questo Benjamin Buchloh (Cold War

Nel suo complesso l’analisi, oltre a fare luce su alcuni aspetti tecnici finora poco chiari dell’opera ambientale di Fontana del secondo dopoguerra, cerca di mettere in evidenza quanta parte ha avuto la frequentazione di alcuni ambienti legati all’architettura innovatrice dell’epoca al formarsi di un suo pensiero spaziale in Constructivism, in Reconstructing Modernism, Cambridge MA, Mit Press,1990) lo definisce il primo tentativo di dilatazione ontologica dell’opera d’arte verso le dimensioni di un intero ambiente. Se poniamo il Merzbau di Schwitters (1923- 1943) sulla stessa linea degli ambienti di Lissitzky, notiamo la stessa attenzione per la questione della tattilità e per l’esperienza corporea in rapporto all’opera d’arte, tuttavia qui avviene anche la prima rottura tra i due modi di concepire lo spazio: in Lissitzky gli elementi sono composti in senso razionale, quasi

archivistico, mentre in Schwitters lo spazio è costruito in maniera progressiva e casuale, evidentemente non razionale, non archivistico, non istituzionale; in Schwitters la percezione è enfatizzata attraverso l’accumulo di ogni possibile elemento e, mentre il suo Merz viene replicato per due volte dopo il 1943, Lissitzky definisce le sue pratiche artistiche come temporalmente e

geograficamente specifiche.

Nei primi anni Venti sia Lissitzky che Schwitters pongono il corpo umano e i suoi cinque sensi al centro dell’opera d’arte, non come semplice esperienza estetica, ma per mezzo dell’esperienza fisica del visitatore, progettano un nuovo modo di partecipazione e di visione attraverso l’incremento di uno dei sensi percettivi, e in questo fondano l’opera ambientale, che trascende la scultura oltre che la pittura e l’arredamento d’interni, gettando un’ombra anche sulle precedenti esperienze futuriste. È in questa linea che si situa anche Fontana che, continuando la

tradizione dell’arte ambientale di stampo europeo, concepisce gli ambienti come oggetto unico che nasce indipendentemente dall’osservatore pur se costruito attorno ad esso. Con Fontana si compie dunque il passo più estremo della teorizzazione dell’environment: lo spettatore può entrare ed essere circondato dalla materia; l’intero spazio è progettato per creare sensazioni inconsuete, capaci di mettere in dubbio consuetudini percettive, provocando quello che Freud ha chiamato perturbante (Sigmund Freud, Il perturbante, 1919, tr.it. in Saggi

sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 1991), per cui “è necessario un conflitto del giudizio, cioè se l’incredibile che è stato superato non sia dopotutto realmente possibile” (ivi. p. 304).

In Fontana è prevalente il contenuto istintivo, emotivo dell’opera: lo spettatore è parte integrante dell’opera, perciò è in grado di comprenderne il meccanismo; inoltre, nei differenti Ambienti, resta sempre quella tendenza alla

rappresentazione istintiva, senza freni, che, provenendo dall’inconscio, è spinta a stimolare l’inconscio altrui.

La fortuna internazionale di Fontana iniziò solo dopo gli anni Ottanta, quando l’opposizione tra kitsch e avanguardia (Theodor Adorno, Teoria Estetica, tr.it. Torino, Einaudi, 1975; Yves-Alain Bois, Kitsch, 1997, in L’informe. Istruzioni per l’uso, tr.it. Milano, Bruno Mondadori, 1997; Clement Greenberg,

Avanguardia e Kitsch, 1939, tr.it. in Arte e Cultura, Torino, Allemandi, 1991) che aveva dominato la critica fino dalle origini del modernismo, cominciò a sfumare, tuttavia i suoi ambienti hanno influenzato tutte le pratiche a venire, dagli anni Sessanta in poi.

senso plastico architettonico, che considera cioè lo spazio come materia visuale, gestuale e luminosa attorno all’uomo e alle sue azioni. Uno spazio che si fa ambiente vissuto. Le relazioni con lo studio degli architetti milanesi BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti e Rogers) nonché Baldessari, Ponti, Figini e Pollini, Scarpa, precisano i contributi e fanno meglio comprendere alcune intuizioni di Fontana, rivelando ipotesi alternative e precorritrici fra l’arte di Fontana e quella europea e americana del secondo dopoguerra, e contribuendo a tracciare una nuova linea di continuità nell’opera ambientale-architettonica di Fontana.

Fontana leggeva poco e non scriveva. «Non leggo perché non ho niente da imparare: adesso tocca ai giovani. Non scrivo perché non ho niente da insegnare: mi fanno ridere i sessantenni che vogliono insegnare e vivere giovani»74.

La ricostruzione cronologica degli ambienti maggiori è dovuta quindi procedere per tentativi, visitando non solo l’archivio di Fontana, com’era immaginabile, ma anche quelli dei principali personaggi con i quali ha collaborato, molto spesso non trovando nessun documento scritto, ma solo qualche nota a margine, perché Fontana costruiva i suoi ambienti il più delle volte sul posto, in contatto diretto con lo spazio e in relazione non a progetti precisi ma a idee e suggestioni. Una buona fonte hanno invece svolto i disegni recentemente raccolti in vista della futura pubblicazione del catalogo generale. Per un uomo che era nato disegnando, e che anche nei taccuini di viaggio non scriveva ma ritraeva o schizzava, questi si sono rivelati a volte più eloquenti di una lettera o uno scritto.

Essendo così varia e vasta la collaborazione di Fontana con gli architetti è stata necessariamente doverosa una selezione, nello specifico si sono esclusi dalla disamina cronologica quegli ambienti che adornano solo parzialmente le superfici e i volumi di uno spazio dato, mentre si sono prese in considerazione le opere che, se pur realizzate nell’ambito di commissioni e non create specificamente come ambienti espositivi, assumendo la totalità spaziale dell’ambiente dato, lo strutturano e lo caratterizzano con una modificazione plastico-visuale.

74 Mario Pancera, Sfregia i quadri alla ricerca del dolore degli astronauti, in “La Notte”, 19 dicembre 1962.

1949

AMBIENTE SPAZIALE A LUCE NERA75

I allestimento (distrutto), Lucio Fontana, Milano, Galleria del Naviglio, 5 – 11

febbraio 1949.

II allestimento (distrutto), Agenore Fabbri con Luciano Baldessari, mostra Lucio

Fontana, Milano, Palazzo Reale, 19 aprile – 21 giugno (prorogata al 31 luglio) 1972, mostra e catalogo a cura di Guido Ballo con allestimenti di Luciano Baldessari76.

III allestimento (di proprietà della Fondazione Lucio Fontana), Andrea Franchi,

mostra Europa / America. L’astrazione determinata 1960/1976, Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, 22 maggio – settembre 1976, mostra e catalogo a cura di Flavio Caroli.

Allestimenti seguenti

In tutti gli allestimenti seguenti si è sempre usata la ricostruzione fatta da Andrea Franchi (1976), di proprietà della Fondazione Lucio Fontana, Milano.

− Milano, Castello Sforzesco, 1977 − Firenze, 1980

− Madrid, Palacio de Velasquez 1982

− Monaco-Darmstad 1983-1984 (ricostruzione esposta solo a Monaco) − Francoforte-Vienna 1996-1997 (ricostruzione esposta solo a Francoforte) − Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1998

− Milano, Palazzo della Triennale, 1999

75 Riportato come 48-49 A 2 in Enrico Crispolti, Lucio Fontana. Catalogo

ragionato di sculture, dipinti, ambientazioni, Milano, Skira, 2006. D’ora in avanti citato come Cat. gen. 2006.

76 Cfr. Nota sulle fonti per gli Ambienti spaziali in Guido Ballo, Lucio Fontana, (catalogo della mostra), Milano, 1972, pp. 283-284, qui p. 284. «L’ambiente spaziale del Naviglio, creato da Fontana nel 1949, è stato ricostruito in questa mostra nelle identiche misure della galleria milanese, sulla scorta di fotografie e disegni, con la collaborazione dello scultore Agenore Fabbri, il quale, come amico di Lucio, fu diretto testimone durante la realizzazione dell’opera originale».

− Mantova, Castello di San Giorgio - Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna 2007-2008

Documentazione

Cat. gen. 2006, scheda, pp. 944-945;

Fondazione Lucio Fontana, Milano, Progetto di ricostruzione Andrea Franchi, scala 1:50; fotografie dell’epoca; disegni e schizzi autografi, una fotografia in bianco e nero dipinta a chine colorate.

Descrizione e note critiche

Cartapesta, vernice fluorescente e luce di Wood.

Della prima ricostruzione a Palazzo Reale nel 1972, oltre vent’anni dopo l’originale del 1949 (immagine II-IV-V-VI-VII), Guido Ballo commenta: «la serie documentata dei disegni e soprattutto delle fotografie anche a colori ne hanno permesso un’adeguata ricostruzione»77.

Nel successivo allestimento di Andrea Franchi (1976)78, l’unica ricostruzione autorizzata dell’opera ancora in circolo (immagine IX), di proprietà della Fondazione Fontana, l’ambiente occupa una sala rettangolare di mt 6x9. Alla stanza si entra passando per un ingresso, rettangolare anch’esso, con due piccole pareti dirimpetto che hanno la funzione di filtrare la luce, mantenendo l’ambiente buio. Le pareti si dispongono in modo tale che il percorso da fare prima di entrare nella stanza buia non è lineare, ma presenta un andamento tortuoso, così che una volta dentro si prova una sensazione più forte di spaesamento. Allo stesso modo l’ingresso è ribassato (2,50 mt) rispetto all’ambiente (4 mt) così che entrando abbiamo anche la sensazione di riemersione dopo un transito, un passaggio o, in un certo modo, un’iniziazione. Le foto apparse sulla stampa dell’epoca79 (immagine I), mostrano un ambiente ad arco acuto dal cui soffitto evidentemente

77 Ballo, Lucio Fontana… cit., pag. 28.

78 La ricostruzione di Andrea Franchi riprende in tutto quella realizzata nel 1972 per la mostra di Palazzo Reale, andata distrutta.

79 Mario Ballocco, Realtà nuova in “AZ” anno I (1949); Lisa Ponti, Primo graffito

alto80 pende una forma ameboide di cartapesta che, ricoperta di vernice fluorescente e illuminata dalla luce di Wood81, assume colori fluorescenti, dal violaceo al rosato al bluastro. Nella fotografia di cm 21x17,5 custodita presso la Fondazione Lucio Fontana e presente in molta bibliografia (immagine III), gli elementi ameboidi presenti all’interno dell’ambiente sono ripassati con chine colorate da Lucio Fontana, dando evidenza degli effetti di luminosità allucinata che l’artista voleva intenzionalmente creare all’interno della stanza, e dell’impressione di avvolgimento che si doveva avere. All’interno dell’Ambiente nero ci si trovava dunque in un buio luminoso o penombra. Non solo, i colori usati nelle chine tradiscono un altro aspetto, quello della passione del colore per Fontana che lo ha accompagnato per tutta la vita, tanto che già nel Manifesto tecnico dello spazialismo parlando di colore, lega quest’ultimo allo spazio, affermando che

il colore è l’elemento dello spazio, la nuova arte si sviluppa nel colore. Il movimento è la condizione base della materia, il suo sviluppo è eterno, il colore ed il suono sono i fenomeni attraverso il cui sviluppo simultaneo si integra la nuova arte. […] Colore l’elemento dello spazio, suono, l’elemento del tempo ed il movimento che si sviluppa nel tempo e nello spazio82.

Immettendo immediatamente l’Ambiente nero nella tradizione caratteristica dell’artista della ceramica policroma, alla ricerca dello spazio e della luce tramite i riflessi del colore. Non è un caso, infatti, che alla stessa ceramica policroma molta

80 L’ambiente installato nella Galleria del Naviglio in un palazzo storico di Via Manzoni 45, non aveva un controsoffitto. La scultura in carta pesta era

direttamente agganciata al soffitto, e questo lascia supporre che l’altezza

originaria dell’ambiente fosse leggermente maggiore di 4 mt, trattandosi del piano terra di un palazzo storico. Tuttavia l’approssimazione risulta corretta se pensiamo che la sensazione che si voleva indurre nello spettatore era quella di spaesamento e di perdita delle normali coordinate spaziali.

81 Per luce nera o luce di Wood si intende una sorgente luminosa che emette radiazioni elettromagnetiche prevalentemente nella gamma degli ultravioletti e, in misura trascurabile, nel campo della luce visibile. Fu inventata all’inizio del ‘900 in America, dal fisico Robert Williams Wood (1868 – 1955) e fu applicata in molti settori, dall’astronomia, alle tecniche radar, al primo cinema di fantascienza. 82 Lucio Fontana, Manifesto tecnico, in Crispolti, Lucio Fontana... cit., pp. 116- 118. Letto da Fontana in occasione del I Congresso Internazionale delle Proporzioni alla IX Triennale di Milano (1951).

critica dell’epoca attribuisca un ruolo precorritore dell’agire ambientale di Fontana. È piuttosto Giò Ponti che nel numero inaugurale di “Domus” alla fine del conflitto afferma che il destino della ceramica è quello di realizzare una quarta dimensione della scultura83:

Picasso non è il solo né il primo artista che si sia volto con emozione alla ceramica, cercandovi quello che la scultura non può dare e la pittura nemmeno, e ciò induce a indagare il destino di questa arte nella quale forma-materia-colore sono una cosa sola. Forma più colore in creazione simultanea (che è diversa cosa di forma colorata, cioè di statua dipinta, per dirla alla grossa), forma più colore (colore di materia, non di pittura) non sono contaminazioni dell’arte pura, ma anzi creano una nuova dimensione pura e unitaria che può giocare attraverso colore, materia e superficie, una vera e propria trasformazione di peso e qualità del volume conferendo alla scultura la magia di una quarta dimensione.

Il commento di Ponti era volto a mettere i punti fermi su un dibattito che in quegli anni si era acceso fra le due scuole di ceramica, quella italiana di Albisola e quella francese di Vallauris, su chi detenesse il primato in termini di storia, pezzi e fama degli artisti coinvolti. Ci fu una vera e propria spedizione84 organizzata da Tullio d’Albisola e Agenore Fabbri che andò a illustrare a Picasso le proprie capacità, con tanto di album con riproduzioni delle opere di Prampolini, Martini, Marini, Manzù, Fontana. E in effetti è in quegli anni che inizia il declino della grande stagione della ceramica, sia per la scuola di Albisola che per Fontana, che durante gli anni Trenta aveva prodotto nei forni di Mazzotti alcuni dei suoi più bei pezzi riflessati, da Paulette, alle nature morte, frequentissime, come i fondi marini, i leoni, le sirene, i cavalli, i delfini (immagine X). In realtà Fontana non abbandonò mai del tutto questa materia, continuandosene ad occupare sia per le opere sacre sia in alcuni ritratti, sia come divertissement. Anzi, nel dopoguerra queste forme evolveranno, fino all’antifigurazione nelle Nature degli anni Sessanta (immagine XI).

83 Cfr. Giò Ponti, Picasso convertirà alla ceramica, ma noi, dice Lucio Fontana,

s’era già cominciato, in “Domus” n. 226 vol. I (1948) p. 24.

84 Cfr. La ceramica s’addice a Picasso in “Corriere Lombardo” 31 dicembre 1947.

Saranno proprio le forme voluttuose e sensuali della ceramica che molti anni dopo indurranno Yve Alain Bois a fare rientrare l’opera di Fontana nella categoria à la Bataille di «kitsch abbietto» e «basso materialismo»85.

Ciò che lo storico francese non coglie è che i termini della questione dell’arte ambientale in Europa, si giocavano proprio su di una rinnovata collaborazione fra le arti, tale da ribaltare il problema del rapporto tra arte pura e arte decorativa: si ripristinavano alcuni dettami del Bauhaus verso la sintesi e l’ibridazione di arti minori e maggiori, sulla via di un’abolizione della bipartizione, e si tentava una nuova articolazione spaziale che mettesse l’arte visiva in connessione anche con l’ambito prettamente architettonico. Tutto questo quindi ci fa supporre che, se l’ambiente nero doveva introdurre una nuova dimensione, il nero fu lo stratagemma per crearla. Ma una volta che Fontana vi ebbe preso confidenza, poté creare questa stessa inedita dimensione anche in ambienti luminosi, connotati dalla luce del neon o dal bianco.

In particolare, riguardo la genesi dell’Ambiente Guido Ballo lo fa derivare dalla serie di disegni circolari-ellittici che chiama Evoluzioni86. Questi sono stati inseriti fra i disegni recentemente raccolti in vista della pubblicazione del catalogo generale87 e catalogati come disegni per ambiente spaziale (DAS) e mostrano chiaramente quanto in realtà Fontana fosse interessato alla modulazione dell’ambiente, non solo all’espandersi della scultura per riflessi luminosi, quanto

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