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3.3 Analisi delle interviste

3.3.7 Informazione, diritti e consapevolezza

Come ultima variabile si è voluto comprendere il livello di informazione dei migranti nei confronti dei loro diritti sanitari, gli interlocutori privilegiati nella ricerca delle risposte ai bisogni e la consapevolezza della salute come diritto.

La Tabella 16 ci mostra quelli che sono gli interlocutori privilegiati da parte dei migranti nel momento del bisogno. Il 36,40% di essi si dirige in primo luogo al patronato o ai sindacati, nel momento dell’aiuto per la risoluzione dei loro bisogni,

siano essi sanitari, lavorativi o sociali. Il 27,30% invece si rivolge alla rete familiare, mentre il 18,20% a quella amicale. È bene quindi tener conto di tali

Tabella 16. Interlocutori privilegiati nella ricerca delle informazioni per i migranti.

Fonte: dati ottenuti dalla rielaborazione delle interviste effettuate.

considerazioni per lo sviluppo dell’informazione in merito ai diritti degli stranieri, in maniera tale da ottimizzare canali informativi già utilizzati. Quello che tuttavia non sembra positivo, è che per la gran parte dei casi la rete attraverso la quale circolano le informazioni sia una rete non formale ed istituzionale, quindi certa e sicura, a dimostrare o la carenza di canali informativi, o l’inadeguatezza degli stessi. Anche il secondo quesito presente in Tabella 16 ci conferma questa impressione: dalle interviste risulta infatti come oltre il 63% degli intervistati sia giunto a conoscenza dei suoi diritti sanitari dai familiari già presenti in Italia, mentre il 18,20% grazie agli amici. Ciò che sconcerta in questi dati è la totale assenza di menzione alla rete istituzionale e pubblica, quali le Prefetture o le Questure, soggetti formali che lo straniero incontra appena arrivato in Italia al fine della regolarizzazione del suo soggiorno e che dovrebbero essere i primi a fornire tutte le indicazioni in merito ai propri diritti ed in particolar modo a far conoscere allo straniero la possibilità di ottenere l’iscrizione al SSN ed il medico di base.

Anche i medici concordano che vi è mancanza di informazione generale da parte dei migranti in merito ai propri diritti sanitari. Al di là della mancanza di informazioni riguardo la differenziazione tra i diversi erogatori di servizi (quando

c’è un’urgenza il recarsi al pronto soccorso o alla guardia medica, quando non è urgente l’andare dal proprio medico), secondo la maggioranza dei medici, e pure della mediatrice culturale, quello che manca è un’informazione estesa al di là di quella che può giungere dai familiari già presenti: anche in questo caso, emerge il vuoto lasciato dall’informazione di tipo istituzionale, dimostrandosi non capillare sul territorio. Indipendentemente dalla riflessione sulla popolazione straniera, questo palesa una certa lontananza tra le istituzioni ed il cittadino, cui senz’altro è da porre rimedio.

Al termine di ogni intervista con i migranti è stato chiesto loro se avessero mai parlato con qualcuno in merito al tema della salute. Ciò che è emerso è che l’81,80% non aveva mai considerato queste tematiche come un diritto di cui discutere e pretendere, mentre solo il restante 18,20% aveva già formato una sua opinione sulla materia, principalmente per casi di “mala sanità” vissuti in famiglia. Questo dimostra la necessità di discussione pubblica del diritto sanitario, al fine dell’affermazione dello stesso come tale.

La clandestinità sanitaria

Sicuramente il problema più grosso che emerge dalle interviste è senz’altro quello dei diritti dell’irregolare, tutelati sulla carta ma che trovano difficoltà ad attuarsi nella pratica. Il diventare “clandestino”, come alcuni chiamano il migrante senza regolari documenti, attuando peraltro così una ghettizzazione linguistica, è un rischio molto facile in cui imbattersi a seguito delle restrizioni sempre più rigide intorno ai requisiti di soggiorno. Chi perde il lavoro, infatti, se non può garantire un reddito sufficiente per sé e per la propria famiglia, nel giro di un anno può imbattersi in un provvedimento di espulsione, indipendentemente dal fatto che sia

qui per “vivere” e non solo per “lavorare”. Cadere nella “clandestinità” è molto facile. E cadere in essa significa anche non poter accedere a molti diritti, essere incapaci di agire, vivere nel limbo perché ogni azione quotidiana necessita di un documento e senza di esso si è tagliati fuori. Uno degli intervistati, irregolare, in modo drammatico mi spiega:

«Non posso fare nulla: non posso uscire, non posso andare a cercare un lavoro, non posso comprarmi le medicine, non posso fare un corso di italiano. Senza documenti non sono nulla e non so come uscire da questa situazione. Io qua ho la mia vita, i miei amici. Se torno in Sudan non ho nessuno, la guerra me li ha tolti tutti» (intervistato n. 16).

Se dal lato teorico le cure sanitarie “essenziali” vengono garantite a tutti, nella realtà la paura di segnalazione alle autorità della propria condizione di irregolarità è forte per il migrante senza documenti, tanto da portarlo a non rivolgersi al medico sino all’ultimo, portando così la sua malattia a stadi cronici e difficili da curare, come conferma anche la mediatrice culturale (intervistata n. 11). Questo aggrava non solo il rischio per il soggetto singolo ma pure per la comunità nel suo insieme, poiché alimenta le sacche di «clandestinità sanitaria» (Geraci, Marceca, 2002, p. 3) e marginalizzazione. La paura nasce dalla proposta del D.D.L. 733/2009, anche chiamato Pacchetto sicurezza che comportava la possibilità di segnalazione alle autorità, da parte del personale sanitario, dell’irregolare in stato di bisogno sanitario, oltre ad una modifica dell’art. 35 del T.U. che andava ad ostacolare l’accessibilità delle prestazioni sanitarie ai cittadini non in regola con il permesso di soggiorno51. Tale disegno di legge venne fronteggiato tramite una mobilitazione nazionale di medici, operatori socio-sanitari e cittadini, ritenuto un vero e proprio «insulto alla professione medica» (intervistato

51 Il D.D.L 733/2009, poi convertito nella L. 94 del 15 luglio 2009, introduce di fatto il reato

n. 10), poiché la segnalazione che veniva resa possibile risultava essere incompatibile con la professione sanitaria, che all’art. 3 del Codice di deontologia medica recita:

Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana, senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale, di ideologia, in tempo di pace come in tempo di guerra, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera. La salute è intesa nell’accezione più ampia del termine, come condizione cioè di benessere fisico e psichico della persona.» (Codice di deontologia medica, art. 3).

Tuttavia, nonostante la forte mobilitazione popolare e del personale sanitario, «la paura aveva già modificato i comportamenti» (Fusaro, 2009), avviando un grosso calo negli accessi alle strutture sanitarie da parte dei migranti irregolari.

In Friuli Venezia Giulia, osservando i casi a noi più vicini, oltre alla paura del

Pacchetto sicurezza, umori politici poco etici ed equi hanno comportato nel 2009

la chiusura degli ambulatori per irregolari che operavano su base volontaria e che offrivano un servizio di garanzia del diritto alla salute a tutti. Sebbene la possibilità di segnalazione non sia stata tradotta in legge, la paura è quindi rimasta ed è stata tradotta in realtà, dimostrando un contrasto tra gli ideali costituzionali e la realtà dei fatti. A tutt’oggi, presidi di un forte partito politico locale si impongono contro la riapertura dell’ambulatorio per irregolari di Pordenone (Polzot, Zani, 21 luglio 2011), dimostrando la bassezza cui l’uomo talvolta riesce a dimostrare.

E’ tuttavia importate rilevare come tutti i medici intervistati, primi soggetti che hanno a che fare con il migrante irregolare in stato di bisogno sanitario, manifestano la forte volontà di non discriminazione e di segnalazione, segno di maturità professionale ed eticità.

Diritti negati: il CIE di Gradisca d’Isonzo

Un passo molto significativo di Dentro la globalizzazione di Bauman (1998) descrive la grande differenza tra coloro che viaggiano per scelta e coloro che lo fanno perché sono costretti a muoversi ed a lasciare il proprio Paese:

«Per gli abitanti del primo mondo […] i confini statali sono aperti, e sono smantellati per le merci, i capitali, la finanza. Per gli abitanti del secondo mondo, i muri rappresentati dai controlli all’immigrazione, dalle leggi sulla residenza dalle strade pulite e dalla nessuna tolleranza dell’ordine pubblico, si fanno più spessi; si fanno più profondi i fossati che li separano dai luoghi dove aspirerebbero ad andare e dai sogni di redenzione, mentre tutti i ponti, appena provano ad attraversarli, si dimostrano dei ponti levatoi. I primi viaggiano quando vogliono, dal viaggio traggono piacere (specialmente se viaggiano in prima classe o con aerei privati), sono indotti a viaggiare o vengono pagati per farlo e, quando lo fanno, sono accolti con il sorriso del benvenuto a braccia aperte. I secondi viaggiano da clandestini, spesso illegalmente, accade ancora che paghino per l’affollata stiva di barche puzzolenti e rabberciate più di quanto gli altri non paghino per il lusso dorato della classe d’affari. Ciononostante, li si guarda con disprezzo e, se la fortuna li assiste, vengono arrestati e immediatamente deportati al primo arrivo.» (Bauman, 1998, p.99)

Bauman nel passo citato parla di muri e barriere ai viaggiatori del secondo mondo, che possono essere figurativi, come l’etichetta giuridica di “clandestino” che viene affibbiato loro, ma anche fisici. Sicuramente uno di essi può essere rappresentato dai muri dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). I CIE vanno a sostituire i “vecchi” Centri di Permanenza Temporanea (CPT), introdotti dalla cosiddetta Legge Turco-Napolitano (la L. 40/1998, all’art. 12), spazi per il trattenimento e l’assistenza di soggetti nei confronti dei quali è stato emesso un provvedimento di espulsione non immediatamente eseguibile. Nel 2008 i CPT vengono rinominati in CIE, e rappresentano, dal loro avvio, il paradosso odierno della detenzione poiché i soggetti trattenuti all’interno non sono considerabili

detenuti e, seppur prigionieri poiché non liberi di muoversi, vengono definiti “ospiti” (Paone, 2008, p.100), in attesa di accertamenti sulla loro identità.

In Friuli Venezia Giulia “vantiamo” la presenza di uno di questi Centri, situato a Gradisca D’Isonzo, nel Goriziano. Da molti viene criticata l’umanità di questi spazi52, soprattutto in termini di rispetto dei diritti umani e ciò che viene più additato è la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie, oltre che il sovraffollamento, la qualità dell’alimentazione e la mancanza di fornitura di vestiario, biancheria e lenzuola pulite.

A tal proposito, la dottoressa del Dipartimento di Prevenzione ed Igiene di Udine durante il nostro colloquio spiega gli aspetti critici del CIE di Gradisca:

«Se vuoi parlare di diritti negati, nella sanità pubblica, non puoi non parlare del divieto di accesso al personale sanitario pubblico ai CIE: infatti, la parte sanitaria è totalmente affidata ad una cooperativa di Gorizia, con cui l'azienda ospedaliera non riesce ad avere contatti. Non si sa nulla in merito, non si sanno le stime, non si sa cosa facciano.. c’è la chiara volontà politica di oscurare tutto! È importante fare poi attenzione ai richiedenti asilo53,reclusi in questi centri: non sono “migranti sani” visto che in molti casi sono stati vittime di torture..» (intervista n. 15)

Il CIE friulano è attualmente gestito dal consorzio Connecting People, nell’ambito dei progetti Nautilus 2 e Next in Progress54, che tuttavia, al di là della presentazione degli obiettivi di progetto, non presenta dati o stime di monitoraggio delle attività intraprese. Tutte le informazioni di cui si è in possesso provengono dall’esterno e rappresentano tutte forti denunce sulle ingiustizie vissute dai

52 Da anni, moltissime associazioni ed ONG si battono contro l’esistenza di tali Centri.

Solo per citarne alcuni: Medici Senza Frontiere (http://www.medicisenzafrontiere.it/);

Amnesty International (http://www.amnesty.it/index.html).

53 A tal proposito, a Gorizia ed Udine opera il Network Italiano per i Richiedenti Asilo

Sopravvissuti alla Tortura (NIRAST, vedi: https://www.nirast.it/), che mette a disposizione

una Commissione Territoriale composta da medici e psicologi per la tempestiva identificazione e cura dei richiedenti asilo.

migranti sulla loro pelle, e la negazione del diritto alla salute rappresenta senz’altro uno dei soprusi più drammatici.

CONCLUSIONI

L’obiettivo del presente lavoro era di comprendere i principi cardine dai quali muove l’universalità del diritto alla salute e di verificarne sua applicazione alla realtà quotidiana, quale prova tangibile di eguaglianza ed equità. In particolar modo, la ricerca ha tratto spunto dall’attività svolta nell’anno di Servizio Civile presso lo Sportello Immigrati del Patronato ITAL di Pordenone e si è soffermata sul diritto alle cure del migrante, soggetto molto spesso “diviso” tra i diritti lasciati al Paese di origine e quelli acquisiti nel Paese di accoglienza. Si è cercato così di comprendere se, dinnanzi allo stato di malattia, vi fosse una reale parificazione dello straniero all’italiano e se, dunque, le dichiarazioni di intenti dei governi si trasformassero in gesti concreti, non rimanendo dei semplici diritti “di carta”.

La tesi ha affrontato il tema del diritto alla cura a tre livelli, quello internazionale, quello italiano e quello del Friuli Venezia Giulia, la regione in cui vivo. L’analisi si è prima incentrata su aspetti teorici, nei primi due capitoli, per poi focalizzarsi sull’esperienza di ogni giorno, mediante una ricerca sul campo condotta attraverso il metodo d’indagine dell’intervista.

Il primo capitolo ha inquadrato la questione dei movimenti migratori nel loro complesso, per cogliere quali siano le ragioni che hanno spinto i popoli del mondo a muoversi e a continuare a farlo tuttora. Da uno sguardo al livello globale ed europeo la riflessione si è spostata al livello nazionale, con l’obiettivo di capire quali siano le principali comunità che hanno trovato accoglienza in Italia ed i motivi che li hanno spinti a cercare di costruire una vita nel nostro Paese. E’ parso importante soffermarsi sulle ragioni delle migrazioni per capire in maniera

approfondita di chi parliamo quando discutiamo di migranti e dei loro diritti. Lo sguardo poi è andato a focalizzarsi sul contesto locale friulano, dove è stata ambientata la ricerca di campo, tentando di accennare brevemente alla storia delle migrazioni locali e alle principali comunità presenti.

Dopo l’analisi del “chi”, dei soggetti di cui parliamo, il secondo capitolo ha affrontato il tema del “dove” e del “come”, ovvero l’evoluzione del diritto alla salute nei diversi contesti, dapprima, mediante l’analisi degli accordi internazionali che tutelano la salute dell’individuo in senso lato ed il migrante in senso specifico, in seguito approfondendo il caso italiano. Di esso si è voluta studiare innanzitutto quale sia stato lo sviluppo del diritto alle cure, mediante la tutela della salute sul piano legislativo e Costituzionale, che eleva il diritto alla cura quale diritto “fondamentale”. La riflessione si è poi sviluppata nell’ambito della pianificazione delle politiche sanitarie, sul sistema di welfare e l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale nel 1978. Del SSN si sono osservate le sue radici, ovvero i principi fondamentali che ne hanno favorito la nascita e gli aspetti prettamente economici: tutti elementi che hanno fatto sì che il SSN nascesse a garanzia dell’equo accesso dei cittadini alla cura, sia da un punto di vista etico ed assicurativo dello Stato (Rose, Day, 1990), sia dal punto di vista prettamente epidemiologico di tutela della salute collettiva. L’ultima parte del secondo capitolo si concentra sul trasferimento in norma del principio del diritto alla salute del migrante,passando per una breve ma doverosa parentesi riguardante le regole di soggiorno per lo straniero in Italia ed infine osservando il caso del Friuli Venezia Giulia, per uno sguardo al contesto legislativo entro il quale si sono svolte le interviste.

Il terzo ed ultimo capitolo passa invece alla pratica ed alla presentazione della ricerca effettuata sul campo, nelle province di Pordenone ed Udine.

L’obiettivo era proprio quello di comprendere come, nella realtà di ogni giorno, venga vissuto il diritto alla salute da parte degli stessi migranti. Dopo dei brevi cenni sul metodo d’indagine scelto, l’intervista, si è entrati nel merito dell’indagine effettuata attraverso la descrizione dei tempi e dei luoghi, degli obiettivi, del campionamento e delle variabili indagate, nonché delle criticità rilevate al fine dell’eventuale sviluppo in futuro della ricerca stessa. Infine, si è passati all’analisi dei dati, mediante la rielaborazione delle interviste, effettuata attraverso la disamina delle variabili considerate. I colloqui, avuti con soggetti diversi tra loro (migranti, regolari ed irregolari; medici di base ed igienisti; mediatrice culturale), hanno voluto quindi tener conto dei diversi punti di vista, al fine di dare una rappresentazione della realtà quanto più oggettiva possibile.

Quanto potremmo dire essere distante, alla fine del percorso, la teoria del diritto alla salute dall’applicazione pratica dello stesso, nel caso dei migranti? Sono emerse senz’altro diverse problematiche, ascoltando la voce sia dei migranti, indipendentemente dal loro status giuridico, sia dei medici, quale che fosse la loro specialità. Innanzitutto, il problema più sentito è la carenza di un’informazione sanitaria capillare sul territorio. Molto spesso il migrante ottiene spiegazioni non corrette in merito a che diritti può vantare, a chi rivolgersi in caso di bisogno sanitario, tanto meno quando sia opportuno rivolgersi al personale medico, onde evitare l’aggravarsi dello stato della malattia. In tal senso, è necessaria una più forte sinergia tra i soggetti istituzionali e sociosanitari sul territorio, al fine di facilitare l’espandersi delle informazioni tra i cittadini sui propri diritti, verso il modellamento di una comunità più consapevole e forte. In secondo luogo, emerge tra i medici la percezione che sia necessario proseguire nello studio dei determinanti della salute e in particolar modo sulla componente reddituale, poiché

grosse sono le difficoltà per il personale sanitario nella scelta della terapia da proporre nel momento in cui si trovino ad avere un paziente economicamente e socialmente “debole”. In terzo luogo, il problema più grosso riguarda i migranti sprovvisti di regolare titolo di soggiorno e la cosiddetta «clandestinità sanitaria» (Geraci, Marceca, 2002). Il Pacchetto sicurezza del 2009 non ha tradotto in realtà la possibilità di segnalazione da parte del medico del migrante irregolare, ma ha introdotto il “reato di clandestinità”, creando un clima di paura nei confronti delle strutture pubbliche e provocando difficoltà di cura del migrante non in regola, che si presenta all’ospedale solo in caso di stadio avanzato della malattia, con i rischi che ne possono conseguire sia per la salute dei migranti sia, almeno per certi tipi di patologie, per la comunità circostante. Il problema non si pone purtroppo solo per via della paura insita nel migrante, ma anche a causa di forti partiti politici locali che impediscono la riapertura degli ambulatori per irregolari, alimentando la tensione e dimostrando un livello di solidarietà sociale pressoché nullo.

Non bisogna però tralasciare gli aspetti positivi emersi, che ci permettono di guardare avanti e di credere fortemente che l’equità sociale, in un ambito basilare come quello della salute, sia effettivamente possibile. Prima di tutto, gli esempi positivi nella relazione medico-paziente, che dimostrano come la professione sanitaria sia un luogo eticamente maturo, nel rispetto della garanzia alla cura sancito all’art. 3 del Codice di Deontologia Medica e professato da ogni neo- medico attraverso il Giuramento di Ippocrate, al principio della sua carriera professionale. Infine, come altro aspetto positivo, l’utilizzo della mediazione linguistica e culturale in sanità, che permette di costruire un “ponte” comunicativo tra il paziente straniero ed il personale sanitario, per una migliore comprensione reciproca che permette al paziente di sentirsi compreso ed accettato, al medico di

praticare la sua professione al meglio, nel pieno rispetto della persona. Nonostante l’utilizzo della mediazione sia appena agli inizi, siamo certi che il suo sviluppo saprà dare grossi frutti.

L’auspicio è che un giorno non si debba più arrivare a scrivere di tali argomenti, operando cioè una differenza tra italiani e stranieri, ma che l’integrazione, riuscita una volta per tutte, diventi una cosa antiquata ed anacronistica, di cui parlarne appaia semplicemente sorpassato.

BIBLIOGRAFIA

AA.VV.,

2011 World Charter of Migrants, Gorèe, disponibile on line su

www.cmmigrants.org/goree. ANESSI PESSINA E.,