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Integrazione in Italia e all’estero

Emigrati, associazionismo e politiche regional

3.2 Integrazione in Italia e all’estero

Fino a buona parte degli anni Settanta l’emigrazione sarda era caratterizzata da una forte propensione al ritorno. Questo fine, rendeva più difficoltosa e indesiderata l’integrazione nella società di ricezione e, contemporaneamente, man mano che il soggiorno si prolungava, l’emigrato si sentiva escluso anche nella società di origine.

Al momento della partenza il migrante si poneva il fine del miglioramento dello status economico goduto nel luogo di partenza: la mancata realizzazione di questo obiettivo determinava il conseguente fallimento dello stesso progetto migratorio.

Il passaggio da una realtà economica e sociale di tipo tradizionale alle città industriali del Nord d’Italia e in quelle europee comportava un processo di adattamento che non sempre avveniva senza traumi. La condizione della manodopera immigrata, generalmente occupava posizioni sociali inferiori, vivendo ai margini della società e le difficoltà di contatto con la popolazione locale della società di accoglienza, la mancanza della conoscenza della lingua del nuovo Paese, nel caso di emigrazione all’estero erano fattori che contribuivano alla elaborazione di un progetto di ritorno per realizzare gli «obiettivi della partenza all’interno della comunità di origine»500.

A volte nostalgia e solitudine, unite alla sensazione del mancato raggiungimento di un miglioramento delle proprie condizioni di vita si trasformavano in vere e proprie patologie mentali501.

Nel 1973 il direttore dell’Ospedale psichiatrico di Cagliari, il prof. Giuseppe Uccheddu, dichiarava che circa il 25% dei pazienti di quell’ospedale erano ex emigrati502.

499

Cfr. Benedetto Meloni, Famiglie di pastori, cit.; Felice Tiragallo, Restare paese. Antropologia dello

spopolamento della Sardegna sud-orientale, Cagliari, Cuec, 1999.

500

Aurora Campus, Il mito del ritorno, cit., p. 158. 501

Per ripercorrere gli studi su emigrazione e patologia mentale si veda Delia Frigessi Castelnuovo - Michele Risso, A Mezza parete. Emigrazione, nostalgia, malattia mentale, Torino, Einaudi, 1982.

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Diversi anni più tardi in base a una rilevazione effettuata sui primi ingressi presso i servizi psichiatrici di Sassari e di Cagliari, tra il 1978 e il 1981, era stata evidenziata la presenza di 200 emigrati su 1500 ingressi. La maggior parte presentava «forme severe e gravi di destrutturazione mentale: nel 52% dei casi si trattava di forme dissociative e per l’8% di forme depressive gravi»503.

Queste problematiche furono affrontate dalla psichiatra Nereide Rudas che nel corso dei suoi studi aveva constatato una notevole incidenza dei costi psicologici e psicopatologici nell’emigrazione sarda su oltre duemila emigrati.

In generale l’inserimento del lavoratore immigrato avveniva in una condizione di emarginazione «socio-economica, occupazionale, alloggiativa, ecc».

Il sardo non era certo soggetto a una «indattabilità elettiva», ma era predisposto a incontrare maggiori difficoltà per via delle «specifiche condizioni in cui questa emigrazione si attua, e delle componenti storiche della stessa personalità sarda»504.

Il periodico per gli emigrati sardi Il Messaggero Sardo, pubblicato dal 1969 e finanziato dall’Assessorato del Lavoro della Regione sarda, dedicava molte pagine alle condizioni in cui si trovavano i lavoratori isolani nelle diverse parti del mondo, principalmente nella Penisola e nell’Europa occidentale.

Nel 1970, a conclusione del primo anno di vita, Il Messaggero Sardo promosse un’indagine fra i suoi lettori per conoscere l’opinione sul periodico e stimolare eventuali suggerimenti. Risposero al questionario proposto dal giornale in 521, un numero statisticamente non rilevante in termini di valori assoluti se messi a confronto con il numero dei lettori (oltre 20 mila) ― poteva avere influito sulla scarsa partecipazione che l’invio della risposta fosse a carico del lettore ― ma che diede risultati comunque significativi. Risposero 355 lavoratori sardi all’estero, 116 nell’Italia continentale e 35 dalla Sardegna. Le risposte provenivano soprattutto dai «Paesi del Mec e Inghilterra e Svizzera, poi gli emigrati dell’Italia del nord». Dalla compilazione dei questionari risultò che gli emigrati avevano interesse a leggere notizie di cronaca dalla

503

Intervento di Nereide Rudas, Università di Cagliari, in Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato del lavoro, formazione professionale, cooperazione e sicurezza sociale, 2a Conferenza Regionale dell’emigrazione, cit., p. 79, ASCA, Fondo Il messaggero Sardo.

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Nereide Rudas, La nostalgia immobile: Emigrazione, estraneità ed esilio, Relazione tenuta al Convegno di Studi su Agostino Di Ippona e le Apocalissi dell’Occidente (Cagliari, 22-24 novembre 1996), in Atti pubblicati dalle Edizioni Fondazione Sardinia, a cura di Placido Cherchi, Cagliari, 1998.

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Sardegna, delle quali chiesero un aumento. Dichiararono di gradire un maggior numero di notizie dall’estero, di informazione sindacale e previdenziale e sulla storia della Sardegna. L’informazione sulla politica regionale era stata giudicata sufficiente. Non gradivano, invece, le inchieste, spesso crude, pubblicate dal periodico sulle loro umilianti condizioni di vita poiché li metteva a disagio, soprattutto con loro stessi, prima che con le loro famiglie505.

Nel Norditalia non era sempre facile trovare lavoro, soprattutto quando non si possedeva una qualifica professionale. Per questo motivo anche dall’associazione “Sarda Tellus” di Genova veniva richiesto l’intervento regionale per istituire corsi professionali per emigrati e loro figli, in previsione del loro rientro in Sardegna506.

Torino e Milano furono meta di numerosi arrivi di sardi e furono anche numerose le difficoltà che dovettero affrontare soprattutto dalla fine degli anni Sessanta, sia per i noti motivi discriminatori507 sia per i problemi legati alla condizione abitativa.

Il Centro Sociale dei sardi, per esempio, nel 1969 non riusciva a trovare una sede perché nessuno voleva affittarlo a sardi508.

La forte immigrazione a Torino comportò una grave carenza di alloggi e il contemporaneo aumento dei prezzi di quelli disponibili. Un aumento talmente esorbitante che molti sardi si trovavano costretti a dormire alla stazione centrale, nei dormitori pubblici o in macchina. A Torino, nella prima cintura, vivevano circa settantamila sardi, mentre ne erano arrivati negli ultimi mesi del 1969 alcune migliaia509.

Le ditte torinesi continuavano a mandare i propri emissari per reclutare i lavoratori e una ditta di trattori di Settimo Torinese aveva reclutato 64 giovani di Carbonia, tra i 16 e i 18 anni, appena diplomati in un istituto professionale. Il dirigente della ditta

505

“L’indagine sul giornale”, in Il Messaggero Sardo, maggio 1970, pp. 1 e 3; “La «radiografia del «Messaggero sardo» nell’inchiesta fra i lettori”, in ivi, p. 24.

506

Attilio Palmisano, “Genova: senza qualificazione l'emigrato sta peggio che a casa. La lunga strada per arrivare in fabbrica”,in Il Messaggero Sardo, novembre 1969, p. 9.

507

Una coppia di giovani emigrati, conosciutisi nella città di Torino, non riusciva a trovare una casa in cui vivere perché si rifiutavano di affittarle ai meridionali e sardi compresi, “Per chi viene dal Sud vietato sposarsi”, in Il Messaggero Sardo, giugno, 1969, p. 8.

508 Sandro Petrinea, “Un’isola di indifferenza per gli emigrati a Milano”, in Il Messaggero Sardo, ottobre, 1969,p. 9.

509

Ernesto Marenco, “Pagano a peso d’oro un letto per dormire”, in Il Messaggero Sardo, ottobre, 1969, pp. 10-11; Ernesto Marenco, “Parlano gli ospiti della «Casa dell'operaio» delle Vallette. Una squallida caserma per 150 sardi a Torino”, in Il Messaggero Sardo, dicembre, 1969, p. 19.

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aveva promesso loro un buono stipendio, vitto e alloggio. Invece, non solo a quest’ultimo dovettero provvedere da sé, ma alcuni rientrarono in Sardegna dopo avere accettato le più umilianti soluzioni.

Nell’area metropolitana milanese vivevano oltre 25 mila sardi. Una parte era giunta da molti anni e, prevalentemente, erano impiegati pubblici o professionisti, mentre la maggior parte giunse negli anni Sessanta. Dal 1965 al 1970 si trasferirono a Milano 5315 sardi; 1227 nel 1970 ed era stato rilevato che alla Sardegna spettasse il primato assoluto dell’emigrazione giovanile nella città. Nel 1969 il 40% degli emigrati sardi a Milano avevano tra i 15 e i 25 anni510.

Un altro caso in cui si era manifestata con forza la problematica abitativa per gli emigrati riguardava la città di Ostia, che aveva subito un vero e proprio boom demografico dopo il 1946, nel 1969 contava circa 80 mila abitanti, 15 mila dei quali erano sardi. La città balneare presentava diverse problematiche per i sardi che vi si erano trasferiti: il più grave era quello della casa. Infatti gli alti affitti li avevano costretti a vivere in baracche che, oltretutto furono forzati a lasciare a causa dello sfratto511.

La vita nei Paesi esteri in generale era scandita da dure condizioni di lavoro, nostalgia e voglia di rientrare dai propri cari, ma non erano rari i casi in cui si registrasse un discreto inserimento nella società ospitante. Come i mille i sardi che lavoravano a Wolfsburg nelle fabbriche della Wolkswagen, che viene descritto come un esempio positivo.

Wolsburg aveva 85 mila abitati, di cui 15 mila stranieri, 7 mila italiani e circa mille sardi. Alcuni non si adattavano al clima o all’ambiente e rientravano subito.Molti si erano sposati con giovani locali, altri erano stati raggiunti dalle mogli dalla Sardegna, mentre gli scapoli vivevano nel villaggio degli italiani a Berliner Brucke. Non si lamentavano delle condizioni di lavoro,

i tedeschi esigono puntualità, precisione, ordine, com’è nella loro natura. Ma abbiamo, nei limiti dei nostri diritti, tutto quanto ci spetta. Oggi possiamo dire che il nostro principale problema è quello dell’occupazione del tempo libero. Ed è qui

510

Romano Asuni, “A Milano mille sardi all'anno giocano la carta della speranza”, in Il Messaggero

Sardo, gennaio, 1972,p. 26.

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che ci manca quella mano d’aiuto dalla Sardegna che da tanto tempo andiamo sollecitando512.

L’esigenza di associarsi, quindi, non nasceva solo dalla necessità di risolvere problematiche contingenti, ma si manifestava anche come gestione del tempo libero che gli emigrati, una volta risolti i principali problemi della vita quotidiana, intendevano dedicare alla loro terra di origine in vario modo.

I sardi di Wolfsburg descrivevano i contrattempi che incontravano quando tornavano in Sardegna, le lentezze burocratiche per ottenere documenti o nei trasporti per il rientro che poteva anche costare il posto di lavoro.

Secondo il parere di un emigrato di Dorgali,

in Sardegna credono magari che la calma aiuti a risolvere i problemi. Molte volte invece, se la calma diventa lentezza, li aggrava, e noi siamo sempre qui, ad aspettare: interventi, comprensione. Cosa gli chiediamo, alla fin fine? Soltanto questo: siateci vicini perché abbiamo bisogno di voi, perché ce ne siamo andati soltanto per migliorare, per tentare di crescere e non essere di peso ad una terra alla quale siamo molto legati. Poi, per qualche giorno, torniamo in Sardegna e quasi non ci conosciamo, come se fossimo estranei, turisti»513.

Non si poteva rilevare la stessa situazione per i sardi di Stoccarda in Germania costretti a vivere in baracche514, e per quelli in Belgio, nel Borinage le cui condizioni erano peggiorate in seguito alla crisi carbonifera che aveva colpito tutta l’Europa515. La situazione peggiore riguardava la vita in Svizzera, inficiata da gravi ondate di xenofobia sfociate nella proposta di un legge per la “cacciata” della manodopera immigrata dalla terra elvetica nel 1970516.

I sardi che avevano trovato lavoro in Francia presso le fonderie a Le Creusot, sembrava che avessero trovato una situazione accettabile: avevano un lavoro, un

512

Romano Asuni, “I mille di Wolfsburg”, in Il Messaggero Sardo, novembre 1969, pp. 13-16. 513

Ivi, pp. 15-16. 514

Remo Concas, “Rassegnate macchine da lavoro i sardi emigrati a Stoccarda vivono isolati nelle baracche sognando soltanto il ritorno”, in Il Messaggero Sardo, febbraio 1970, pp. 14-17

515

“A colloquio con gli emigrati sardi in Belgio”, in Il Messaggero Sardo, maggio 1969, pp. 4-6. 516

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appartamento dignitoso, una famiglia, e questo era sufficiente per non volere rientrare, anche per la consapevolezza che non avrebbero trovato la stessa serenità517.

A Sciaffusa trecento sardi lavoravano nelle fonderie, nelle industrie tessili e nei cantieri edili. La maggior parte viveva in «baracche», così gli operai chiamavano i propri alloggi. Dal reportage de Il Messaggero Sardo emergeva come a una maggiore autonomia abitativa dell’emigrato corrispondesse una maggiore serenità nel vivere l’esperienza all’estero, mentre maggiore era l’affiatamento tra il gruppo di emigrati e l’interdipendenza e più frequente era anche il sorgere della nostalgia. I pochi che erano riusciti a inserirsi nella società elvetica erano coloro che avevano un lavoro specializzato.

Gli emigrati avevano inizato a riunirsi in circoli dove si discuteva della lontana Sardegna, di come poter rientrare al più presto e delle strategie per influire sulle scelte politiche isolane. Il votoera un importante strumento nelle mani dell’emigrato, era infatti considerato

un atto necessario per farci ricordare da coloro che molto spesso e molto facilmente ci dimenticano, e sono molti, a tutti i livelli politici e sociali. (…) andare a votare vuol dire gridare al mondo che la Sardegna è per noi l’elemento vitale, vuol dire esternare il più che giusto convincimento che non ci sarà mai rinascita della Sardegna senza il rientro degi figli migliori: gli emigrati, che vivono di rinunce, di umiliazioni, di pane amaro518.

L’Associazione “Emigrati Sardi” di Ginevra offriva un momento di condivisione per i sardi che non si sentivano accettati in Svizzera «Noi li sopportiamo e loro ci sopportano, tutto qui», afferma un quarantenne di Lanusei da nove anni in Svizzera. Alcuni avevano una casa di proprietà, ma la maggior parte non ne aveva bisogno, infatti tornavano solo la sera per mangiare e dormire, ma soprattutto perché il progetto migratorio avrebbe dovuto concludersi con il rientro, quindi, bisognava essere pronti a lasciare tutto in Svizzera e senza rimpianti.

517

Remo Concas, “Fabbricano nuove case e carri armati lavorando in Francia senza rimpianti”, in Il

Messaggero Sardo, agosto, 1969, pp. 14-15

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I membri del Circolo avevano fiducia nell’aiuto della Regione per potere pagare l’affitto di una sede. Il sostegno finanziario regionale aveva una forte importanza, significava che non erano stati dimenticati.

Il caso svizzero dimostrava che la forte conflittualità con la società di destinazione e una scarsa propensione all’integrazione aumentava il bisogno di rafforzare l’identità del paese d’origine e la mitizzazione dello stesso: una Sardegna ideale, dove il successo della rinascita sociale e economica avrebbe permesso di accogliere “i propri figli dispersi”519.