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Interazione farmaco-attività fisica

Nel documento Attività Fisica e Scompenso cardiaco (pagine 60-94)

1. Introduzione

4.2 Interazione farmaco-attività fisica

In linea generale l’attività fisica viene consigliata ai pazienti affetti da scompenso cardiaco, soprattutto dei primi due gradi della scala di valutazione NYHA, allo scopo di migliorare la qualità di vita quotidiana e rallentare la progressione della sintomatologia.

È già stato documentato che c’è un’interazione diretta tra attività fisica e terapia farmacologica in una moltitudine di patologie cardiovascolari e non; ebbene è stato osservato che questa interazione è presente anche nei pazienti con scompenso cardiaco. L’attenzione su codesta interazione non è molto recente, lo dimostra uno studio datato 2 Marzo 1999 nel quale si è dimostrato che l’assunzione di un farmaco ACE-inibitore (il Losartan) in pazienti con scompenso cardiaco congestizio severo, migliora la capacità di esercizio e attenua anche la sintomatologia (17).

Questo studio è stato intrapreso allo scopo di determinare gli effetti del Losartan rispetto ad un placebo, sulla capacità di allenamento e la classe funzionale in pazienti con scompenso cardiaco e sintomatologia grave nonostante l’impiego di una adeguata terapia farmacologica. La popolazione studiata era composta da una trentina di pazienti con scompenso di III e IV grado della classe funzionale NYHA trattati, in modo random, chi con il farmaco chi con il placebo per un periodo di sei mesi e sottoposti ad un programma di condizionamento fisico sul tapis

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roulant fondato sulla misurazione del picco di assorbimento di ossigeno durante l’esercizio massimo tollerato.

Il picco di prerandomizzazione del VO₂ è stato determinato come il valore più alto di due test fisici con una variazione <10% mentre il picco relativo al 3 e al 6 mese è stato derivato da un singolo test massimale.

I risultati ottenuti da questa ricerca hanno mostrato che nei pazienti trattati con Losartan c’è stato un incremento del picco di VO₂ sia al 3° che al 6° mese e la classe funzionale di gravità della sintomatologia è migliorata di un valore ≥1 NYHA (17). Attraverso questo studio si è potuto dimostrare che l’utilizzo di Losartan nella terapia dello scompenso cardiaco di III e IV classe NYHA migliora il picco della capacità aerobica e allevia i sintomi in questi pazienti che, nonostante seguano una terapia con dosi ottimali di ACE- inibitori, digossina e diuretici, presentano una sintomatologia grave.

In una più recente recensione è stata discussa la potenziale interazione tra l’angiotensina II e l’eccitazione del sistema nervoso simpatico nei pazienti con scompenso cardiaco e la modulazione di questa interazione attraverso l’esercizio fisico (18).

All’interno dell’articolo è stato discusso il possibile meccanismo cellulare con il quale l‘esercizio fisico impatta sull’eccitazione del sistema nervoso simpatico per ridurre lo stress ossidativo, aumentare l’ossido nitrico e ridurre l’angiotensina II.

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Quest’ultimo effetto è rilevante in quanto, di tutti i mediatori delle funzioni simpatiche, l’angiotensina II è quello maggiormente implicato nella patogenesi dello scompenso cardiaco cronico. Alla fine dei conti questa recensione ha messo in luce il fatto che l’attività fisica ha un profondo effetto sul flusso informatico simpatico e vagale del sistema nervoso centrale, sui mediatori dell’infiammazione, sulle specie radicali che dell’ossigeno, e anche sul sistema emodinamico compresa la funzione endoteliale; tutti processi che vengono compromessi in presenza di scompenso cardiaco e, per i quali, l’angiotensina II ha dimostrato di essere implicata nell’attivazione attraverso i suoi recettori di tipo 1. Anche su questo fronte, è stata osservata l’efficienza dell’attività fisica nel ridurre la comparsa di questi processi in condizioni di scompenso cardiaco, la sua capacità di ridurre i livelli di angiotensina II circolante, l’espressione dei suoi recettori e anche lo stress ossidativo in soggetti con scompenso cardiaco in atto (18). In un o studio pilota molto recente si è cercato di valutare l’effetto a breve termine di un farmaco principalmente utilizzato per la terapia del diabete mellito di tipo 2 (Empagliflozin), nella massima capacità di esercizio nei pazienti con scompenso cardiaco (19). Questo studio riporta che il trattamento con questo farmaco riduce del 35% il rischio di ospedalizzazione nei pazienti scompensati. I soggetti inclusi nello studio presentavano una diagnosi certa di diabete mellito di tipo 2 accompagnata da una diagnosi di scompenso cardiaco evidenziata da anomalie strutturali o

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funzionali del cuore a riposo, con frazione d’eiezione compromessa e disfunzione sistolica del ventricolo sinistro.

Tali pazienti hanno seguito una terapia farmacologica a base di Empagliflozin per un periodo di 30 giorni ed è stata valutata la capacità massima funzionale attraverso il test da sforzo cardiopolmonare su cicloergometro calibrato in base alla sintomatologia dei pazienti: all’inizio con un carico di lavoro di 10W e nel proseguo, ogni minuto si aumentava l’intensità di 10W. I dati riguardanti lo scambio dei gas e i parametri cardiopolmonari variavano in media ogni 10 secondi.

Alla fine del ciclo di trattamento il picco di VO₂ è aumentato del 10% nel 11% dei soggetti trattati. Gli effetti benefici del farmaco sono stati osservati anche su altri parametri della tolleranza all’esercizio; di fatti risultano migliorati: l’efficienza ventilatoria durante l’esercizio, la distanza percorsa nel 6 minute walking test, la qualità della vita e i biomarker cardiaci e renali.

La spiegazione sugli effetti benefici di Empagliflozin risiede nel suo effetto diuretico; esso, a differenza degli altri diuretici utilizzati nella farmacoterapia dello scompenso, agisce sul tubulo prossimale del rene interagendo con lo scambio sodio/idrogeno, aumentando la presenza di sodio nel tubulo distale, migliorando l’efficacia dei diuretici dell’ansa e del tiazidico (19).

Un altro farmaco non direttamente legato alla terapia farmacologica classica dello scompenso cardiaco, ma utilizzato allo scopo di migliorarne la sintomatologia, è il Canakinumab, un anticorpo

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monoclonale completamente umano anti interleuchina 1 beta che è stato studiato per il trattamento delle malattie antiinfiammatorie principalmente; negli ultimi anni però, sono state fatte delle ricerche che lo inseriscono come farmaco utile nel ridurre il rischio di eventi cardiovascolari.

Nello studio preso in considerazione per questo documento, il suddetto farmaco viene impiegato nel trattare pazienti con scompenso cardiaco sistolico sintomatico con frazione d’eiezione ridotta; quello che si è voluto dimostrare è il fatto che un farmaco che blocchi l’azione dell’interleuchina 1 beta può migliorare la capacità cardiorespiratoria in pazienti scompensati (20).

Si tratta di un sottostudio del “Canakinumab Anti-inflammatory Thrombosis Outcome Study” (CANTOS) nel quale il farmaco viene somministrato allo scopo di prevenire le recidive di eventi trombotici in pazienti con precedente infarto del miocardio e elevata reattività della proteina C; dello studio principale sono stati selezionati 15 pazienti con scompenso cardiaco sintomatico di classe funzionale NYHA II e III e frazione d’eiezione <50%. Tutti i pazienti sono stati sottoposti al test da sforzo cardiopolmonare su tapis roulant per registrare il valore del picco di VO₂ all’inizio dello studio; lo stesso test è stato ripetuto dopo tre mesi di trattamento con il farmaco e dopo dodici mesi.

Nei risultati dei successivi test, si è considerato significativo un aumento del picco di VO₂ pari a 3,5 ml/kg/min equivalente ad 1 MET, in quanto si associa con riduzione di mortalità.

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I risultati ottenuti da questo studio evidenziano un aumento del picco di VO₂, che da 19,2 è arrivato a 22,8 nei primi tre mesi di somministrazione del farmaco; il test ripetuto dopo dodici mesi di terapia con Canakinumab ha evidenziato un aumento del 38%-44% della sintomatologia dello scompenso cardiaco sistolico con frazione d’eiezione del ventricolo sinistro < 50%.

In conclusione i dati prodotti da questo studio supportano la possibilità di utilizzare i farmaci che bloccano l’azione dell’interleuchina 1 beta in generale e, nello specifico, di Canakinumab per migliorare la capacità d’esercizio nei pazienti con scompenso cardiaco sistolico (20).

Un altro trattato clinico randomizzato suggerisce che l’inibizione della fosfodiesterasi-5 può migliorare la funzione cardiovascolare e quindi la capacità d’esercizio in pazienti con scompenso cardiaco diastolico, con una normale frazione d’eiezione.

È già stato dimostrato, in altri articoli scientifici che, la terapia con un inibitore della fosfodiesterasi-5 inverte il rimodellamento cardiaco strutturale e funzionale avverso e migliora la funzione vascolare, neuroendocrina e renale; è stato anche già osservato l’azione della stessa terapia nell’aumentare la tolleranza all’esercizio e lo stato clinico in pazienti con ipertensione polmonare e in pazienti con scompenso cardiaco e ridotta frazione d’eiezione.

L’articolo scientifico citato ha lo scopo di suggerire l’impiego di questo farmaco per migliorare diverse perturbazioni

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fisiopatologiche che sono alla base dello scompenso cardiaco con frazione d’eiezione conservata (21).

I pazienti presi in considerazione per lo svolgimento di questo studio presentavano scompenso cardiaco diastolico con classe funzionale NYHA da II a IV; hanno seguito una terapia per bocca del farmaco per 3 volte al giorno per 24 settimane. A 12 settimane dall’inizio della terapia, è stata aumentata la dose di farmaco somministrata ad ogni dose.

Per valutare lo stato di salute dei pazienti è stato utilizzato il test dei 6 minuti di camminata e anche un questionario appropriato sulla sintomatologia per valutare a livello clinico la patologia. I risultati ottenuti hanno deluso le aspettative perché il trattamento con l’inibitore della fosfodiesterasi-5 non ha avuto alcun effetto sulla capacità d’esercizio sub massimale e massimale nei pazienti con scompenso cardiaco diastolico e frazione d’eiezione normale; non c’è stato un cambiamento sullo stadio clinico dei pazienti, sulla qualità di vita, sul rimodellamento del ventricolo sinistro, sui parametri della funzione diastolica, o sulla pressione sistolica polmonare.

Si è ipotizzato che gli effetti terapeutici primari dell’inibizione della fosfodiesterasi-5 nello scompenso cardiaco, comportino la capacità del farmaco di far dilatare il letto polmonare capillare, migliorare la contrattilità del ventricolo destro, l’interdipendenza ventricolare, l’ipertensione polmonare e l’insufficienza ventricolare

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destra devono essere significative per poter osservare il beneficio clinico nei pazienti considerati.

In conclusione di questo lavoro scientifico dei pazienti esaminati e trattati con il sildenafil (inibitore della fosfodiesterasi-5 somministrato) per 24 settimane, messi a confronto con altri pazienti ai quali è stato somministrato un placebo, non hanno dato dei risultati significativi riguardo il miglioramento della capacità d’esercizio o dello stato clinico in merito all’azione del farmaco nella terapia a lungo termine. Ad ogni modo, gli autori dello studio, affermano che bisogna trovare una nuova strategia terapeutica e una nuova chiave per capire la fisiopatologia che si cela dietro lo scompenso cardiaco con frazione d’eiezione normale. (21).

Nel capitolo della terapia farmacologica abbiamo incontrato molti dei farmaci che sono stati testati negli articoli precedentemente discussi; uno tra questi farmaci, citato come medicinale capace di ottenere una riduzione della sintomatologia, della morbilità e della mortalità nei pazienti con classe NYHA è lo Spironolattone.

Si tratta di un composto sintetico di natura steroidea con struttura simile all’aldosterone il quale è stato testato in un esperimento datato 2016, allo scopo di capire il suo effetto sulla tolleranza all’esercizio in pazienti affetti da scompenso cardiaco con frazione d’eiezione conservata (22); sono stati considerati questi pazienti perché la prevalenza di questo stato di salute sta avanzando sia in rapporto all’età dei pazienti che come malattia secondaria a ipertensione, diabete e obesità, e rappresenta un problema in quanto

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ancora non si è trovata una terapia del tutto efficace e si porta dietro un alto tasso di morbilità e mortalità.

Il fine di questo esperimento è stato dimostrare che un antagonista dell’aldosterone è in grado di migliorare la capacità d’esercizio nei soggetti che presentano un’anomalia emodinamica, legata all’aumento di pressione del ventricolo sinistro in seguito alla pratica di attività fisica, che ha una ripercussione negativa nei pazienti con scompenso cardiaco con frazione d’eiezione conservata, perché si associa ad una ridotta compliance del miocardio attribuita alla presenza di fibrosi.

Seguendo queste informazioni, gli esaminatori hanno presupposto che lo spironolattone possa avere un’azione antifibrotica nei pazienti trattati che mitighi le anomalie emodinamiche messe in atto per produrre un miglioramento alla tolleranza dell’esercizio. La popolazione studiata comprendeva soggetti con sintomi evidenti di scompenso cardiaco diastolico, di classe NYHA II e III, con una frazione d’eiezione >50% e che, in seguito al test da sforzo cardiopolmonare presentassero un valore del rapporto tra la velocità di afflusso mitrale precoce e la velocità diastolica precoce anulare mitrale (E/e’ dato che riflette la pressione di riempimento ventricolare sinistra) >13, valore indice di una pressione elevata durante lo sforzo. Una parte di questi pazienti ha ricevuto una terapia con spironolattone pari a 25mg/die di farmaco per un periodo di sei mesi; l’altra parte della popolazione osservata, ha assunto un placebo. L’intera popolazione in esame è stata

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sottoposta al test da sforzo cardiopolmonare all’inizio dello studio e dopo sei mesi di terapia con il farmaco studiato; il protocollo di allenamento utilizzato è stato il “protocollo Bruce” considerando la limitazione dovuta al manifestarsi della sintomatologia durante l’esercizio e monitorando l’attività elettrica del cuore attraverso l’ECG e anche la pressione sanguigna; inoltre venivano continuamente monitorati: la ventilazione, i livelli di ossigeno e anidride carbonica prodotti, il picco di VO₂ e veniva anche calcolata la media dell’ossigeno consumato durante gli ultimi 30 secondi dell’esercizio. Alla fine della sperimentazione i pazienti trattati hanno dimostrato un aumento del rapporto E/e’ che denota un miglioramento nell’eccessivo aumento della pressione di riempimento del ventricolo sinistro; riguardo la capacità d’esercizio, c’è stato un miglioramento significativo del picco del VO₂. Inoltre i pazienti trattati con il farmaco hanno mostrato un aumento nel valore dei MET, del tempo d’esercizio, una maggiore pendenza sull’efficienza dell’assorbimento di ossigeno, sulla soglia anaerobica e sul rapporto di scambio respiratorio (22). Con questo studio si è dimostrato che una terapia di lunga durata con lo Spironolattone è in grado di migliorare lo stato di salute in soggetti affetti da scompenso cardiaco diastolico con risposta anomala allo sforzo fisico, inducendo una maggiore capacità d’esercizio indipendentemente dal cambiamento della pressione sanguigna, e che l’aumento del riempimento diastolico ventricolare sinistro durante l’esercizio potrebbe contribuire a questo effetto benefico.

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5 Attività fisica adattata ai pazienti scompensati.

Sebbene ci siano innumerevoli dati e documenti che avvalorino l’importanza dell’attività fisica come terapia coadiuvante nello scompenso cardiaco, non esiste ad oggi un programma che sia curato e dettagliato a riguardo per cui, anche i medici stessi, si ritrovano a consigliare ai loro pazienti di mantenere uno stile di vita attivo attraverso un’attività fisica moderata.

Questo suggerimento si traduce in un esercizio di tipo aerobico (spesso una camminata) ad intensità moderata, dal 40-50% del massimo sforzo tollerato e che, nel tempo, non superi il 70% del massimo consumo di ossigeno tollerabile dal paziente e il 70% della sua frequenza cardiaca massima; si raccomanda che tale esercizio sia continuo, quindi fatto almeno tre volte a settimana e protratto nel tempo.

Ultimamente si sta iniziando a consigliare un’attività mista aerobica e di resistenza in cui si introducono degli esercizi contro resistenza fatti a carichi muscolari che non superino il 40-50% della massima contrazione volontaria con contemporaneo aumento della frequenza cardiaca che non vada oltre il 70% della frequenza cardiaca massima, questo perché l’attività in palestra per il soggetto cardiopatico, in generale, è protesa a sviluppare forza resistente per cui si suggeriscono esercizi fatti con un alto numero di ripetizioni (>10) con tempi di recupero lunghi (1’30”-2’) (8).

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L’inserimento dell’esercizio isotonico nel programma di allenamento di soggetti con cardiopatie è recente e supportato da esperienze riabilitative consolidate che hanno dimostrato la sicurezza e l’efficacia del training con pesi e macchinari a coadiuvare l’esercizio aerobico, che rimane comunque alla base del programma di allenamento dei cardiopatici, questo perché è stato visto che il miglioramento della forza e del tono muscolare indotto dall’allenamento di potenza favorisce le funzioni articolari e concorre alla sensazione di benessere dell’individuo (23). Consultando le linee guida sulla prescrizione dell’attività fisica in ambito cardiologico si arriva ad una sezione dedicata ai pazienti con insufficienza cardiaca cronica in cui si riconosce la causa principale di tale insufficienza nella cardiopatia ischemica e l’ipertensione arteriosa e si accenna al progresso della terapia farmacologica che ha ridotto la mortalità della patologia, aumentando, di contro, la cronicizzazione della stessa e quindi anche le cure, l’assistenza medica e le riospedalizzazioni. Fortunatamente entra in gioco l’attività fisica che è in grado di migliorare la capacità funzionale degli stessi soggetti e la loro qualità di vita; l’effetto dell’esercizio fisico si rispecchia anche sulla morbilità e sulla mortalità della malattia a patto che si tratti di allenamenti protratti per lunghi periodi, intesi come anni di training, che sia supervisionato e di intensità moderata.

Il concetto che è saltato all’occhio è che nei soggetti con insufficienza cardiaca cronica sia necessario un allenamento

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supervisionato e ed effettuato più a lungo possibile (23). L’importanza della pratica di un esercizio fisico ragionato nei soggetti scompensati risiede nella sua capacità di ottenere degli adattamenti funzionali e strutturali a carico di diversi apparati che permettono di interrompere il circolo vizioso che condiziona l’avanzamento della malattia, il quale parte dalla ridotta tolleranza allo sforzo che determina il peggioramento della funzione circolatoria; l’inattività fisica promuove l’atrofia muscolare con conseguente riduzione di forza e precoce esauribilità; la stessa disfunzione cardiaca produce un’azione neurormonale che stimola il sistema renina-angiotensina-aldosterone peggiorando il deficit cardiocircolatorio con iperattività adrenergica e vasocostrizione arteriosa e ancora aumento del postcarico e sovraccarico cardiaco cronico (23).

Prendendo atto delle suddette informazioni è logico pensare che esiste un bisogno preponderante di definire concretamente un protocollo ad hoc che racchiuda le indicazioni generali che sono state redatte negli anni e che faccia fede agli studi sperimentali più recenti, i quali possano portare consigli utili nella stesura di tale programma specifico per i pazienti affetti da scompenso cardiaco diastolico a frazione d’eiezione conservata e pazienti con scompenso cardiaco sistolico con ridotta frazione d’eiezione. Sappiamo per certo che l’attività aerobica intesa come: camminata, pedalata o corsa blanda sta alla base dell’esercizio pensato per i soggetti scompensati e, come detto prima, anche l’attività isotonica

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è stata rivalutata come potenzialmente utile nel miglioramento della prognosi, lo suggerisce anche uno studio non recentissimo in cui si sono osservati gli effetti emodinamici dell’esercizio isotonico con l’ausilio di pesi nei pazienti con scompenso cardiaco (24).

Il motivo di tale esperimento si cela sulla riduzione di forza legata allo scompenso cardiaco avanzato che compromette lo svolgimento delle attività nella vita quotidiana; inoltre la mancata attività e le anomalie nel metabolismo del muscolo scheletrico portano questi pazienti ad essere intolleranti all’esercizio, ad una scarsità nella densità ossea, un’alterazione nociva delle proteine contrattili e ridotta capacità vasodilatatrice.

A questo proposito subentra l’attività fisica contro resistenza, vista la sua possibilità di ritardare o prevenire questi eventi negativi nella vita individuale e nei pazienti con malattie coronariche si è voluto indagare la risposta emodinamica all’esercizio di sollevamento isotonico nei pazienti con scompenso riguardo la pressione arteriosa, frequenza cardiaca, la pressione capillare polmonare, la resistenza vascolare sistemica, e l’eventuale presenza di aritmie. Il campione analizzato era composto di 35 persone di età compresa fra 32 e 65 anni con scompenso cardiaco avanzato di classe NYHA III o IV e con frazione d’eiezione compromessa (< 35%), trattati con una terapia multi farmacologica composta da diuretici, nitrati, ACE-inibitori per alcuni e beta-bloccanti per altri. Altro parametro importante per includere soggetti all’esperimento era la mancanza

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di allenamento aerobico o esecuzione di esercizi di sollevamento pesi prima della partecipazione all’esperimento (24).

L’esperimento è stato condotto facendo eseguire al campione analizzato esercizi con un carico di lavoro pari al 50%-65% e all’80% della massima contrazione volontaria; il carico selezionato doveva permettere l’esecuzione di serie di esercizi da 7 a 10 ripetizioni che venivano eseguiti in stazione eretta o da seduti. I pazienti iniziavano il loro programma con il riscaldamento, dopo di che eseguivano due set di esercizi di sollevamento pesi, da 12 e poi da 10 ripetizioni, l’ultima serie era da 8 ripetizioni; al calare del numero di ripetizioni aumentava il carico di lavoro come spiegato sopra. per minimizzare la possibilità di affaticamento e di accumulo di lattato si dava un riposo tra una serie e l’altra di tre minuti ed è stata usata la scala di Borg per misurare la percezione di fatica. I risultati dello studio hanno evidenziato un piccolo ma significante

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