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Internazionalizzazione produttiva del Regno Unito negli Stati Uniti, quote sul totale mondo (%)

In sintesi, a paragone con gli altri tre maggiori paesi dell’Unione Europea, il peso dell’I-talia sul totale delle attività multinazionali appare di dimensioni rilevanti soltanto sui mercati della Polonia e, soprattutto, della Turchia. Va tuttavia ricordato che in questa analisi non sono state considerate le partecipazioni paritarie e minoritarie, che nel caso italiano costituivano al 1 gennaio 2001 circa il 23% delle attività svolte oltre confine dalle imprese27.

4. Sintesi e conclusioni

L’economia italiana faceva parte alla fine degli anni novanta del gruppo di paesi svilup-pati caratterizzati da una posizione di credito nei confronti del resto del mondo. Gli avanzi correnti conseguiti a partire dal 1993 le avevano consentito di annullare completamente, già dal 1997, il debito estero accumulato in precedenza. L’eccesso del risparmio nazionale rispet-to agli investimenti, implicirispet-to in questa evoluzione, era principalmente il riflesso del rallenta-mento relativo dell’attività economica, tanto da poter affermare che il saldo corrente, più che rappresentare un vincolo alla crescita, si era trasformato nella seconda metà degli anni novan-ta in un segnale delle opportunità di sviluppo che il paese non riusciva a cogliere28. Tuttavia più recentemente i conti con l’estero hanno subito un progressivo deterioramento e il saldo

26Cfr. Fontagné (1999).

27Cfr. Ice, L’Italia nell’economia internazionale. Rapporto Ice 2001-2002, Ice, Roma, 2002, p. 268.

0 5 1 0 1 5 2 0 2 5 3 0 3 5 4 0

Turnover affiliate estere

Acquisti tecnologici affiliatee

Cessioni tecnologiche affiliate estere Stock di IDE controllate

Stock di IDE totali

1 9 8 7 1 9 9 8

corrente è tornato in disavanzo, malgrado l’accentuarsi del rallentamento dell’attività econo-mica. Inoltre altri indicatori della posizione internazionale del paese, e in particolare la quota di mercato mondiale delle esportazioni, appaiono in tendenziale declino almeno dal 1996, an-che nel confronto con quelle degli altri principali paesi europei.

La tesi sviluppata nella prima parte di questo lavoro è che l’indebolimento della posizio-ne italiana riflette in primo luogo le caratteristiche del modello di specializzazioposizio-ne delle esportazioni, i cui vantaggi comparati si concentrano in mercati e settori che sono stati caratte-rizzati, negli ultimi anni, da una dinamica della domanda inferiore alla media mondiale. Al netto di questi sfavorevoli fattori strutturali, le quote italiane si sono comunque tendenzial-mente ridimensionate anche a livello di singoli prodotti e mercati. L’andamento dei tassi di cambio e dei prezzi relativi potrebbe aver contribuito a questo risultato, ma il ruolo della com-petitività di prezzo sulle quote di mercato, misurate in valore, è più ambiguo di quanto comu-nemente ritenuto: il deprezzamento reale subito dall’euro nel 1999-2000, ad esempio, sembra aver avuto un impatto nominale negativo sulle quote italiane più forte dei suoi effetti positivi di sostituzione sulle quantità. Peraltro i principali beneficiari delle perdite di quota subite dal-l’Italia e da altri paesi sviluppati sono gli esportatori delle aree emergenti, caratterizzate spes-so da vantaggi asspes-soluti di costo che non vengono colti adeguatamente dalle oscillazioni dei tassi di cambio reali. Questi differenziali salariali contribuiscono a incentivare i processi sem-pre più intensi di frammentazione internazionale delle attività produttive. Le imsem-prese italiane si sono inserite in queste tendenze con un certo ritardo e tuttora manifestano una capacità di produrre all’estero assai inferiore al peso del paese nell’economia mondiale. Ma in qualche caso si potrebbe già ipotizzare che la perdita di quota delle esportazioni nasconda in realtà non un problema di competitività delle imprese, ma anzi una strategia esplicita di espansione mul-tinazionale, che include la scelta di usare le proprie affiliate nei paesi emergenti per sostituire una parte delle esportazioni verso altri mercati con prodotti realizzati all’estero, e tuttavia do-tati di almeno alcune caratteristiche essenziali del made in Italy. Le implicazioni di questa ipotesi interpretativa per le prospettive dell’economia italiana sono complesse, ma in primo luogo occorrerebbe disporre di informazioni statistiche adeguate per valutarne la consistenza, che sono purtroppo ancora carenti.

I dati disponibili mostrano invece con grande evidenza la correlazione esistente tra la ca-pacità di attrarre investimenti dall’estero e i risultati conseguiti dalle esportazioni. I paesi che sono riusciti ad aumentare in misura più consistente le proprie quote di mercato mondiale ne-gli anni novanta sono stati quasi tutti caratterizzati anche da un forte incremento dello stock di Ide in entrata. Si tratta in primo luogo della Cina e di altri paesi dell’Estremo Oriente, ma an-che dell’Europa centro-orientale, del Messico e dell’Irlanda, unico tra i paesi sviluppati. Da un lato, le condizioni strutturali presenti in questi luoghi hanno stimolato simultaneamente il successo delle esportazioni e l’afflusso di Ide, attratti anche dalle prospettive favorevoli offer-te proprio in offer-termini di esportazioni. Dall’altro, è evidenoffer-te che i mutamenti di localizzazione delle attività produttive delle multinazionali si sono tradotti in ingenti flussi di commercio in-tra- ed exin-tra-aziendale, che hanno ridisegnato la mappa degli scambi mondiali. Inoltre gli ef-fetti di diffusione delle conoscenze tecniche e gestionali che la presenza delle multinazionali attiva nei sistemi economici locali ne hanno potenziato la capacità di esportare, inserendo an-che molte piccole e medie imprese nelle reti di produzione globale.

L’Italia appare sostanzialmente emarginata da questi processi. Non essendo riuscita ad affermarsi come polo di attrazione di capitali esteri, anche per le particolari caratteristiche del suo modello di specializzazione internazionale, concentrato su settori e dimensioni d’impresa poco attraenti per le grandi operazioni di fusione e acquisizione internazionale, ha perso

terre-no anche in termini di quota di mercato delle esportazioni. Le reti produttive in cui si va rior-ganizzando l’economia mondiale si orientano prevalentemente su altre localizzazioni, nelle quali si concentra sempre di più anche l’attività di esportazione. I distretti industriali italiani partecipano in qualche misura a queste tendenze, ma la loro capacità di espansione sui mercati internazionali è frenata dalla relativa scarsità degli stimoli derivanti dalla presenza di imprese straniere.

Da ogni punto di vista appare comunque evidente l’impossibilità di capire come sta cam-biando la collocazione dell’Italia nell’economia mondiale, senza analizzare in modo integrato le varie forme assunte dalle attività internazionali delle imprese. Ma questo compito è reso particolarmente difficile dai già menzionati limiti dell’informazione statistica disponibile.

Nella seconda parte di questo lavoro, tuttavia, sono state presentate alcune semplici ela-borazioni di dati tratti da una nuova fonte, che consente di comparare le posizioni competitive delle imprese di diversi paesi sui principali mercati Ocse, in base a svariati indicatori sulle at-tività delle affiliate estere. Questi dati non permettono purtroppo di rispondere all’interrogati-vo posto nel paragrafo precedente, a proposito di un’eventuale sostituzione di esportazioni ita-liane verso i mercati dell’UE con prodotti realizzati da affiliate estere di imprese itaita-liane pre-senti, per esempio, nell’Europa centro-orientale. Tuttavia, essi appaiono molto utili per co-struire un’immagine più precisa della presenza produttiva multinazionale nei diversi mercati, mettendola a confronto con le quote di mercato delle esportazioni.

Il ritardo delle imprese italiane nell’internazionalizzazione produttiva viene confermato con evidenza. Diversamente dagli altri grandi paesi europei, l’Italia manifesta quasi ovunque una presenza di produzione estera, in termini di addetti, di fatturato, di stock di Ide, o di altri indicatori, nettamente inferiore alla sua quota sulle importazioni dei mercati considerati nel-l’analisi. In alcuni casi importanti (Germania, Stati Uniti, Canada, Turchia) la quota di presen-za produttiva delle imprese italiane, pur restando molto esigua, si è rafforpresen-zata negli anni no-vanta, spesso in controtendenza rispetto alla loro quota commerciale. Ma in altri mercati (Francia, Regno Unito, Giappone, Polonia, Ungheria) la posizione italiana si è ulteriormente indebolita in termini produttivi, seguendo una tendenza analoga a quella manifestata quasi ovunque dalle esportazioni.

Pur con i limiti derivanti dalla loro parzialità, i nuovi dati consentono inoltre di cogliere alcuni indizi interessanti sulle tendenze in atto nei principali mercati. Nell’Unione Europea, ad esempio, il completamento del mercato interno sembra aver stimolato un rafforzamento della presenza diretta di multinazionali esterne alla regione, mentre quelle europee manifesta-no tuttora una presenza produttiva generalmente più debole di quella commerciale, segnalan-do forse che l’eliminazione delle barriere agli scambi intra-regionali rende più conveniente lo sfruttamento delle economie di scala che la frammentazione delle attività produttive. Nei pae-si candidati a entrare nell’Unione, al contrario, le quote di presenza produttiva dei paepae-si euro-pei sono di solito più elevate di quelle commerciali, anche se queste ultime sono generalmente aumentate, riflettendo i progressi delle politiche di integrazione. Nel Nordamerica, infine, le strategie di mercato dei principali fornitori europei appaiono accomunate dalla tendenza a compensare l’indebolimento delle quote sulle importazioni con un rafforzamento della loro presenza produttiva.

Qualsiasi politica volta a sostenere la posizione internazionale delle imprese italiane de-ve necessariamente tener conto di questo complesso intreccio di relazioni tra commercio este-ro e attività peste-roduttiva multinazionale, che caratterizza oggi l’evoluzione dei mercati.

3. La dinamica della specializzazione internazionale delle

regioni del Mezzogiorno: tra persistenza e cambiamento