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Intervenire con la validazione: quando e perché

Nel documento Vol. 11 – Numero 2 – Dicembre 2014 (pagine 55-58)

Un problema che si pone è quindi quando intervenire validando quello che il paziente sente, dice o fa (validazione) e quando invece provare a modificare quello che lui sente, dice o fa (ristrutturazione cognitiva). Immagino già il lettore che nel leggere di modificare quello che il paziente sente sia quantomeno sorpreso. Ma perché cosa si fa quando il paziente ci dice di avere ansia? O tristezza? È proprio questo il problema, cercare di capire quando è utile modificare quel sentire (eliminare lo stato di ansia o di tristezza) e quando invece validarlo. La risposta potrebbe essere facile: validare tutti gli stati emotivi e modificare quelli che procurano molta sofferenza. Ma dalla nostra esperienza clinica non è così. Qui si vuole sostenere che in molti casi, tenendo conto di altri fattori, è utile validare uno stato di tristezza anche se comporta molta sofferenza e, d’altra parte, tentare di modificare uno stato di tristezza anche se non intenso. Per questo motivo è nato l’interesse verso una classificazione degli interventi e verso la validazione in particolare.

È possibile che l’intervento di validazione possa soddisfare più bisogni. L’intervento di validazione così come concettualizzato in questo lavoro potrebbe riguardare l’attivazione di un senso di appartenenza-affiliazione al gruppo da parte del paziente. Per appartenenza al gruppo intendiamo un senso di appartenenza al gruppo che il quel momento, secondo il paziente, gli garantirebbe l’accesso alle risorse. Questo non significa che di conseguenza l’intervento di validazione è volto a confermare l’autostima del paziente, non è il dimostrare al paziente quanto egli sia è bravo, ma, piuttosto, che è normale e che perciò appartiene al gruppo. Paradossalmente una persona potrebbe anche avere dei difetti, o non essere tanto bravo, o il più bravo, ed avere un senso di appartenenza al gruppo. Ad esempio, paziente: “Dottore sono profondamente dispiaciuto perché noto che tra gli amici spesso sono preso in giro”; terapeuta: “La capisco... diamoci la mano [tende la mano al paziente], anche io spesso lo sono tra i miei amici”.

attraverso la relazione agisce sulla modifica di un ABC secondario per favorire un senso di appartenenza, quali sono i fattori quindi che dovrebbero indirizzare la scelta del terapeuta verso questo tipo di intervento o, viceversa, verso la ristrutturazione cognitiva?

Tabella 2. Esempio di ABC primario e secondario: come si procede? Si ristruttura la B del primario, confermando parzialmente la B’ del secondario, oppure si valida la B del primario con la conseguente ristrutturazione della B’ del secondario?

A B C

Penso sempre alla mia separazione

Non troverò mai nessuno come lei, mi manca, mi

manca tantissimo Tristezza e depressione 1

A’ B’ C’

Tristezza e depressione per

la separazione Non sono un uomo, non so reagire Tristezza e depressione 2 È possibile considerare quattro aspetti che indirizzano la scelta dell’intervento sul modificare quello che il paziente sente, dice o fa (intervento di ristrutturazione cognitiva sull’ABC primario) oppure sul modificare, implicitamente, la valutazione di quello che il paziente dice, sente o fa (validazione dell’ABC primario e quindi ristrutturazione dell’ABC secondario).

Il primo aspetto è appunto il senso di appartenenza che il paziente presenta. Vi sono alcuni pazienti, come ad esempio i pazienti borderline, ai quali è difficile provare a modificare quello che sentono, dicono o fanno, nonostante questo gli procuri notevole disagio, perché, implicitamente, questo significa che non vanno bene e richiama la loro non-appartenenza al gruppo. Bisognerebbe proprio fare una distinzione iniziale tra pazienti con un buon senso di appartenenza e pazienti con uno scarso senso di appartenenza poiché questo influenza tutti gli interventi successivi. Quindi la prima valutazione da fare è quanto quel paziente ha un senso soddisfacente di appartenenza al gruppo: con quale gruppo si riconosce, quanti amici ha, se ha delle condivisioni, se collabora a dei progetti, se si sente accolto e sostenuto in caso di difficoltà. Più il paziente ha uno scarso senso di appartenenza, più bisogna considerare l’intervento di validazione come prioritario.

Il secondo aspetto è la causa dello stato affettivo di quel paziente. Bisogna considerare se lo stato emotivo espresso è frutto di uno stimolo che universalmente suscita l’attivazione di un sistema motivazionale biologicamente predisposto (ad esempio il pianto dovuto all’attivazione del sistema di attaccamento in relazione ad un lutto) oppure ad una considerazione assolutistica e generalizzata (“mai più troverò un partner”). Questa distinzione può apparire banale ma all’interno di un costruttivismo radicale (Foucault 1967; von Glasersfeld 1995) è ipotizzabile che qualsiasi cosa accada al paziente possa essere interpretato in diversi modi semplicemente modificando il significato che lo stesso ha per quel paziente. Al di la della bontà del ragionamento filosofico (vedi Jervis 2005; Ferraris 2012), in ambito psicoterapico sembra utile considerare che alcune reazioni emotive rispetto a certi stimoli sono biologicamente predisposte e pertanto inevitabili e naturali (Gilbert 1989; Lichtenberg et al. 1992; Liotti 1994). Per queste reazioni emotive sembra opportuno validare il vissuto del paziente. In altre parole (vedi esempio in tabella 2), bisogna distinguere nello stesso pianto la parte di lutto che il paziente sta vivendo per la perdita di una persona (sistema motivazionale biologicamente predisposto) e la parte relativa al pensiero di non poter avere più una relazione affettiva importante nella vita (considerazione assolutistica e generalizzata). Sulla prima parte si può intervenire con la validazione (ristrutturando così un ABC secondario sulla normalità della propria reazione), sulla seconda con la ristrutturazione

cognitiva. La Linehan (2001 p. 224) chiarisce bene questo punto quando sostiene che “le strategie di validazioni emozionali... sono vicine all’approccio di Greemberg e Safran (1987)… [secondo i quali] le emozioni di carattere disfunzionale e disadattative sono emozioni “secondarie” che bloccano la capacità di esperire ed esprimere le emozioni primarie… [le quali] ‘forniscono informazioni sugli stati motivazionali che hanno per l’organismo valore adattivo’ (1987 p. 176)”.

Il terzo aspetto da valutare è la fonte delle considerazioni che riporta il paziente. Bisogna valutare se le considerazioni sono frutto di suoi ragionamenti oppure se sono pari pari considerazioni fatte da altri (genitori, amici, partner ecc.). Questo aspetto appare particolarmente importante perché distingue quello che è frutto del paziente, a prescindere dalla bontà del ragionamento, da quello che è preso da altri. La differenza è data se il paziente ha valutato criticamente ed emotivamente quello che gli altri dicono oppure, semplicemente, lo riporta. Ha confrontato quello che gli altri dicono o suggeriscono con i sui principi e il suo vissuto emotivo? La necessità di fare questa distinzione può consentire di validare, eventualmente, anche lo sforzo, l’impegno o semplicemente il ragionare del paziente, a prescindere dal contenuto che può apparire, al momento, anche del tutto inadeguato. In questo modo non si rischia di validare ragionamenti che il paziente non ha fatto suoi oppure, al contrario, di invalidare la capacità, lo sforzo e l’impegno del paziente di ragionare al di la della bontà del ragionamento, che, per il momento, potrà anche essere inadeguato. A volte, tra l’altro, i pazienti, consapevolmente o inconsapevolmente, verificano cosa pensano i terapeuti sui loro modi di pensare riportando però i concetti come se li avessero detto gli altri e magari criticandoli (la paziente è una fervente cattolica e dice: “Il mio fidanzato dice di credere in Dio, di questi tempi, ma le pare?!”), altre volte, sempre per mettere alla prova le loro credenze ed i terapeuti (cfr. Weiss 1999), riportano i ragionamenti che gli altri fanno e di cui loro non sono d’accordo, facendoli propri e difendendoli (il padre ha detto alla paziente che è troppo aggressiva, la paziente per verificare tale ipotesi dice: “Dottore io penso di esser troppo aggressiva, questa è la verità”). Colpo basso, ma spesso efficace. L’essere attenti alla fonte delle credenze del paziente è, quindi, molto utile perché si può considerare una persona degna e accettata nel gruppo sicuramente per le sue qualità, oppure a prescindere dalle sue qualità, in quanto persona, ma bisogna anche considerare che si può essere riconosciuti e accettati dal gruppo (o almeno dalla persona che si ha davanti, ad esempio dal terapeuta) per i ragionamenti che la persona fa specie se sentiti e veritieri, anche se negativi e su se stessi.

Il quarto fattore riguarda, appunto, la veridicità di quello che il paziente sostiene. Anche in questo caso la questione può apparire banale ed invece è estremamente delicato e difficile valutare se quello che il paziente sostiene su di sé, sugli altri e sul mondo corrisponde a verità oppure no. Come fa il terapeuta a valutare se quello che sostiene il paziente è vero? Il paziente potrebbe avere ragione sulle sue mancanze, difficoltà, sugli altri, sui fatti che gli accadono e non avere affatto credenze sbagliate a riguardo. Cercando di modificare (ristrutturazione cognitiva) le credenze del paziente, anche se negative, ma vere (“dopo questo fallimento penso di non poter mai più avere una donna nella mia vita”), si rischia di invalidare il ragionamento e la realtà dei fatti non fornendo quello di cui il paziente ha bisogno in quel momento.

Questi sono quattro aspetti da tenere in considerazione nello scegliere l’intervento di validazione o ristrutturazione cognitiva nelle sedute di psicoterapia, in generale, nello scegliere gli interventi in psicoterapia così come elencati altrove (Marra e Esposito 2014).

Riassumendo: trovare la logica, i motivi, il senso di quello che il paziente sente, dice o fa, al di là del disagio che causano o della loro funzionalità, è un potente strumento per farlo sentire “normale”, parte del gruppo e, così, attivare un senso di appartenenza-affiliazione.

• distinguere e validare reazioni psico-biologiche universalmente e geneticamente predisposte rispetto a reazioni emotive frutto di generalizzazioni assolutistiche;

• capire quanto le considerazioni fatte sono frutto del ragionamento del paziente (confronto quello che gli altri dicono o suggeriscono con i sui principi ed il suo vissuto emotivo) e ciò per non rischiare di validare le opinioni di altri semplicemente riportate in seduta (verificare cosa ne pensano gli altri su quello che afferma oppure chiedere spesso: “lei cosa ne pensa a riguardo?”);

• chiedersi quanto quello che il paziente sostiene corrisponde a verità per non rischiare di invalidare la realtà dei fatti, e, soprattutto, lo sforzo del suo ragionamento (soprattutto quando questo è pertinente, realistico, veritiero).

Di fronte ad una problematica sarebbe, quindi, bene chiedersi: quanto questo paziente ha un senso di appartenenza? Quanto il suo stato emotivo è frutto di una predisposizione biologica? Quanto corrisponde a verità quello che sostiene? Quanto quello che dice è condiviso a livello emotivo e dei suoi principi?

Nel documento Vol. 11 – Numero 2 – Dicembre 2014 (pagine 55-58)