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Introduzione alla nozione di “sperimentale”

Pianificando una ricerca sul cinema sperimentale italiano prodotto dall’esperienza dei Cineguf, si è reso necessario – anche nei termini di una qualificazione del corpus di opere da considerare, tra quelle recuperate – focalizzare e dettagliare i contorni di una definizione che da sempre è ritenuta sfuggente, vaga, equivoca, fumosa1.

Che cos’è il cinema sperimentale? E per noi: che significato ha la formula “cinema sperimentale” sul frontespizio del libro di Domenico Paolella?

Per quanto riguarda il nostro caso specifico vogliamo porre l’attenzione su quelle poche parole scritte da Domenico Paolella nel suo libro-manifesto del 1937, cui raramente si è accordata una riflessione approfondita:

La parola sperimentale ha perduto il suo antico valore, per essere appropriata ad una categoria più estesa, in cui il tentativo consiste proprio nella costruzione totale del film in tutte le sue parti, di qualunque genere esso sia2.

Queste parole liberano il campo - con grande consapevolezza da parte di Paolella - dall’equivoco che ora come allora rischia di confonderci: nella nostra ricerca non abbiamo rintracciata nessuna “linea sperimentale” o “via sperimentale”, o “corrente” sperimentale all’interno dell’esperienza gufina. Non abbiamo privilegiato gli “esperimenti” formali più sofisticati, né le prove più mature e consapevoli.

Non abbiamo rintracciato una “tradizione sperimentale” del cinema italiano in

exploits stilistici e formalisti di matrice gufina. Se questa può essere ricostruita, deve

misurarsi con l’intera produzione dei Cineguf.                                                                                                                

1 Per un efficace ed esauriente quadro terminologico della “questione sperimentale”, con uno sguardo all’esperienza Italiana e internazionale, si veda il recente Giulio Bursi, The Rest is Our Business: La “questione” sperimentale (dalle origini agli anni ’60), in Adriano Aprà (a cura di), Fuori norma. La via sperimentale del cinema italiano, Marsilio, Venezia 2013, pp. 14-46.

La definizione di “sperimentale” che ci restituisce Paolella è piuttosto nitida: tutto il cinema dei Guf è sperimentale.

Questo significa che se Entusiasmo di Francesco Pasinetti, o Dieci Sintesi di Ubaldo Magnaghi, o Un cuore rivelatore di Mario Monicelli e Alberto Mondadori e Il

Caso Valdemar ancora di Magnaghi, rappresentano casi eccellenti su cui è innegabile

serva una riflessione approfondita e l’attribuzione di un peso specifico adeguato nel quadro complessivo dell’esperienza, tuttavia essi non devono rappresentare l’esclusiva evidenza di una pratica sperimentale.

Questa, al contrario, manifesta sintomi e cruciali emergenze anche nei piccoli documentari sulle adunate, le colonie elioterapiche, le scuole di roccia, i littoriale ecc.

Dunque la domanda che sottende questa ricerca e che in queste pagine tentiamo variamente di onorare, non è tanto: “quali film dei Cineguf esprimono un carattere più marcatamente sperimentale?”, ma semmai quali sono le radici, le espressioni, le influenze di quella nozione che accomunava così indistintamente tutte le declinazioni formali dell’esperienza cinematografica nei Guf?

Detto altrimenti qual è la natura della nozione di “sperimentale” che il libro di Domenico Paolella, che per primo riporta una filmografia di poco meno di duecento titoli (tra cui i “quasi surrealisti” Fiera di Tipi di Antonio Leon Viola e Giochi di vela di Ubaldo Magnaghi, ma anche Medicina e sport di Mario Chiari o Resezione dello

splacnico del Cineguf di Siena, Semeiologia nervosa del Cineguf di Padova o Tecnica dell’arrampicata di Arrigo Pedrotti), specifica con chiarezza e notevole

consapevolezza, esprimendo tutta la complessità e il senso del termine rispetto al contesto internazionale?

Questa scelta implica fin da subito l’assunzione di un indirizzo metodologico fondamentale, cui anche Giulio Bursi nel saggio dedicato alla “questione sperimentale” fa giustamente riferimento: lo slittamento progressivo della problematizzazione della sperimentazione dal piano dello stile a quello della pratica3.

Nel ricercare la matrice teorica che potesse dar conto al meglio della qualifica della nozione “sperimentale” che ci preme indagare - che a questo punto rimanda a un esperienza vasta, diffusa, generica e generale - abbiamo discusso in sede di                                                                                                                

introduzione generale a questo lavoro il concetto di “innervazione” di Walter Benjamin. Ne abbiamo accennate le implicazioni filosofiche, tuttavia vogliamo riprenderne alcuni tratti in questo frangente specifico.

Rifacendoci nuovamente a Miriam Hansen, il concetto d’innervazione è “a key

term in Benjamin’s effort to imagine an alternative reception of technology” rispetto a

“the restless proliferation of shock in Taylorized labor, city traffic, finance capital,

and industrial warfare”, detto altrimenti – prosegue la Hansen – “innervation refers, broadly, to a neurophysiological process that mediates between internal and external, psychic and motoric, human and mechanical registers”4.

L’esperienza sperimentale dei giovani guffini si fonda su questo “privilegiato” accesso alla modernità, in uno spazio regolato e istituzionalizzato dal regime, che progressivamente si rivela come una modalità, un’etica, che investe i giovani gufini nella totalità della loro esperienza cinematografica: li introduce all’incontro con la tecnica, con la politica, con la modernità, con il cinema e ne incorpora gli effetti più generali del loro mutamento nella relazione (corporea e psicologica), irrimediabilmente mutata, con il mondo della modernità.

Pasi Väliaho esplora la complessa natura della modernità d’inizio secolo e nel periodo tra le due guerre, ravvisandovi sia la progressiva e complessa maturazione di un potere politico che diventa sempre più “microfisico” e “bio-politico”, sia il ruolo fondamentale dei media e della tecnologia nel mutare l’esistenza e la “vita”5 come campo sperimentale: “experimental life is a mode of life generated within modern

media, and signals a set of technologically supported physiological functions indistinguishable from diverse machinic arrangements”6.

L’incontro con il medium tecnologico nel processo dell’innervazione è processo precipuo dell’epoca moderna, un’epoca in cui “la vita naturale” (intesa come comune esistenza di essere vivente: zoé) e la sua declinazione “politica e sociale” (intesa come vita specifica di un individuo o un gruppo di individui: bios) vengono riconfigurate

                                                                                                               

4 Miriam Bratu Hansen, “Benjamin and Cinema: Not a One-Way Street”, in Critical Inquiry, n° 25, Inverno 1999, pp. 311-313.

5 Väliaho su questo punto introduce correttamente la distinzione ricordata da Agamben tra

Bios e Zoe; distinzione per altro discussa precedentemente da Karl Kerényi, Vita finita e infinita nella lingua greca, in Id., Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Adelphi

1992-2007, pp. 17-21.

6 Pasi Väliaho, Mapping the Moving Image: Gesture, Thought and Cinema Circa 1900, Amsterdam University Press, Amsterdam 2010, p. 66.

nel quadro del cambiamento epocale dell’esercizio del potere per come è stato ricostruito e criticato da Michel Foucault.

Continua Väliaho:

modern technological media, and foremost cinema, thus contribute to the goal of what Foucault calls a ‘threshold of modernity’, a situation in which ‘the life of the species is wagered on its own politics […] in the modernity the liminal state between natural life and political life becomes both the subject and the object of political power7.

In questo contesto, il cinema alle soglie della modernità è agente stesso di quella che Väliaho definisce una “vita sperimentale”:

the experimentalization of life in the nineteenth-century physiological and psychological laboratories and in today’s technological media presents exactly the zone of indistinction between Bios and Zoe that characterizes biopower and modern biopolitics8.

Potere e controllo politico, incontro con il mezzo tecnologico, la “visione del mondo” restituita dal cinema, cui aggiungiamo l’esercizio attivo della pratica cinematografica sono gli elementi che descrivono la vita sperimentale dei giovani gufini.

La loro “coscienza” sperimentale va ben oltre la semplice logica dell’esercizio euristico. Non si tratta di dilettantismo - rispetto al quale come vedremo non mancano di prendere le distanze - come non si tratta di una pratica professionale.

La loro dimensione sperimentale si radica in quelle stesse tensioni di un’epoca - che abbiamo rapidamente richiamato attraverso le parole dalla Hansen e di Väliaho - come quella moderna in cui la relazione corporale e psicologica con la realtà è riorganizzata, violentemente ridefinita, riqualificata.

Il cinema ha restituito allo spettatore una via di sopravvivenza e di resistenza e contemporaneamente uno specchio degli effetti della modernità sulla propria esistenza. Il cinema sperimentale dei Guf ci offre l’opportunità di indagarne le forme d’uso, l’incontro con il mezzo tecnologico, le strategie di restituzione di una realtà che                                                                                                                

7 Idem., pp. 65-66.

per la prima volta si offriva a loro come campo d’esperienza della tecnica, della politica, della modernità, dell’arte.

E a vivere quest’esperienza è la massa dei giovani studenti universitari: il gruppo su cui più di ogni altro gli sforzi di controllo e organizzazione politica e sociale del Fascismo si sono concentrati.

Da questa prospettiva trovano un’ulteriore valore le parole di Alberto Farassino che auspicava su queste pratiche:

l’occhio ubiquo di chi si occupa di cinema in generale (sperimentale e di genere, d’autore e di mestiere, militante e industriale, amatoriale e pubblicitario) non solo per desiderio di capire tutto il cinema ma per evitare di capire male proprio il cinema sperimentale. […] Chi sa guardare il cinema narrativo-rappresentativo-industriale con uno sguardo non diviso, ma semmai capace di dividere, riesce a leggere in esso, nella sua storia e nei suoi film, tutta una serie di rotture, di eccessi, di devianze, flagranze che non per il fatto di essere apparentemente integrate in un codice narrativo-rappresentativo, non per questo fatto perdono la loro capacità di innovazione e di eversione linguistica9.

Parafrasando Farassino, lo sguardo ubiquo che invochiamo non si ferma, nella ricerca dei “sintomi” di una “vita sperimentale”, né al cinema “rappresentativo”, né al documentario scientifico o turistico, né al film astratto o alle sinfonie visive: migra tra essi. Per superarli. Uno sguardo insomma che ecceda definitivamente i confini stessi del cinema, rintracciando altrove convergenze, contaminazioni, germinazioni.

In queste pagine introduttive proveremo a tracciare i confini problematici - filosofici e storici - di questa pratica, e in che modo essa può essere interrogata nei film raccolti e recuperati durante la nostra ricerca.

Modernismo, modernità, modernizzazione

L’esperienza del cinema sperimentale di cui ci stiamo occupando, affonda le sue radici e si sviluppa - assorbendone tutte le tensioni fondamentali - in quello che nel 1948, nell’ambito di una monumentale “storia anonima”, Siegfrid Giedion ha                                                                                                                

9 Alberto Farassino, Tagliateci un occhio ma non tagliateci il cinema, in Ester de Miro (a cura di), Il gergo inquieto. Le parole degli ospiti 1, Discussioni sul cinema sperimentale italiano

chiamato “l’era della meccanizzazione piena”: il periodo tra le due guerre mondiali. In esso “la meccanizzazione s’impone nella sfera intima”10.

Nel quadro di quella che Giedion presenta fin dalle prime pagine come un “opera di collegamento” tra le varie prospettive storiche di più ampio raggio su eventi economici, politici e sociali, l’architetto e storico tedesco si propone di investigare ciò che nella storia resta anonimo, invisibile, minuscolo: serrature, frigoriferi, pane, carne, cucine, bagni ecc. nel tentativo cioè di verificare “in che modo possiamo inserire la meccanizzazione nella nostra vita”, preoccupandosi da principio meno della “curva degli avvenimenti” che lo storico ha il compito di restituire, e più degli anonimi ed apparentemente insignificanti “fatti singoli” che circondano la nostra esistenza.

La tensione enciclopedica e tassonomica di Giedion non gli impedisce tuttavia di produrre alla fine un affascinante affresco di quella che pare “la curva degli avvenimenti” della modernità nella prima metà del secolo. Riletto oggi, il testo di Giedion risente certamente di un’eccessiva generalizzazione nella lettura dei fenomeni, dovuta in parte alla scelta di uno stile quasi aforistico (i paragrafi sono spesso brevissimi), dall’altra certamente alla volontà di abbracciare tutti gli eventi che si esprimono nel quotidiano. Fernand Francastel, fin dagli anni sessanta, avanzerà perplessità sulla sua lettura dei rapporti tra arte moderna e architettura. Tuttavia il testo di Giedion resta un affresco pressoché unico delle modificazioni in atto tra corpo umano, tecnica, ambienti di vita. Una lettura critica potente delle modificazioni dell’esperienza della modernità tra le due guerre.

Se la scienza sperimentale e la psicologia (in particolare lo studio dell’isteria), nel testo di Pasi Väliaho esprimono una dimensione essenziale di quella “sperimentalizzazione della vita” che il cinema dei primi Trent’anni del secolo scorso lascia emergere; la meccanizzazione della vita quotidiana descritta da Giedion né è in qualche modo il corollario antropologico necessario, fondamentale, complementare.

In esso si verifica – si direbbe quasi cinematograficamente - “la scomposizione di un lavoro nei suoi gesti parziali”11. Giedion ne rintraccia le origini nella Ricchezze

delle Nazioni di Adam Smith, ma sta parlando chiaramente delle dottrine Tayloriste (e

fordiste) in cui centrali sono la problematizzazione del tempo (il cronometraggio dei                                                                                                                

10 Siegfrid Giedion, L’èra della meccanizzazione, Feltrinelli, Milano 1969, p. 50.

tempi di lavoro al fine di ridurre le operazioni inutili) e il movimento (la dinamica fisica del corpo del lavoratore nella catena industriale). Ancora una volta le affinità (si direbbe quasi ontologiche) con il cinema sono evidenti, e d’altra parte lo stesso Giedion ha dedicare larga parte dei suoi argomenti agli effetti della trattazione del tempo e del movimento dell’era della meccanizzazione nel pensiero moderno e nell’arte moderna.

Tuttavia è fin troppo facile tentare questo collegamento, e non saremmo di certo i primi a farlo dopo Giedion. Ciò che resta da sottolineare - in questa radicale semplificazione che stiamo tentando ai fini della nostra introduzione alla nozione di sperimentale - è il rapporto tra il corpo umano e la macchina. Anche in questo caso non diciamo nulla di originale, tuttavia ne ripercorriamo alcuni aspetti ai fini della nostra dimostrazione.

L’Italia fascista - nella complessità e contraddittorietà delle sue strategie - accoglie, integra e adatta nel suo modello autarchico e corporativo le teorie tayloriste. D’altra parte la retorica del regime non mancava di rileggere la storia del metodo scientifico ritrovandone autarchicamente nell’Italia non solo l’origine (negli immancabili Leonardo Da Vinci, Telesio e Galileo), ma soprattutto il primato internazionale in epoca moderna (con Fermi e Marconi): insomma l’Italia creatrice del metodo sperimentale12.

Nel 1940 Agostino Gemelli, proprio, in relazione alle dottrine tayloriste sull’organizzazione scientifica del lavoro, parlava in termini di “psicofisiologia” e “psicologia del lavoro”, dell’adattamento dell’uomo alla macchina:

Le dottrine emesse da coloro che hanno promosso per primi l'organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo, fordismo, ecc.) richiamando l'attenzione nostra sull'importanza dello studio dei tempi di lavorazione e della forma dei movimenti che si compiono eseguendo un determinato lavoro, hanno certo dato un notevole impulso in questa direzione. Precisamente sotto una tale spinta in questi ultimi anni il problema della forma e dei tempi dei movimenti è stato posto anche agli psicotecnici ed è stato oggetto di ricerche accurate con risultati significativi. Ma il problema generale della forma e dei tempi dei movimenti ne sottende uno più particolare e                                                                                                                

12 Elia Villa, “L’Italia creatrice del metodo sperimentale”, in Libro e Moschetto, 23 novembre 1935.

forse più importante, ossia quelle dell'adattamento del ritmo e della velocità dell'attività umana al ritmo e alla velocità della macchina. È evidente che l'attività umana può adattarsi all'attività della macchina, solo entro certi limiti; ma quali sono questi limiti? Vi è un optimum di adattamento? In questo senso e in questa direzione sono iniziate le indagini degli psicotecnici. Noi siamo ben lungi dall'aver risolto il problema13.

In campo vi è, dunque, quello che nelle pagine precedenti abbiamo rilevato come gli effetti di quella “metabolizzazione” delle tracce choccanti della modernità che determinano una fondamentale mutazione dell’esperienza e della percezione del mondo.

Secondo Gemelli nel cambiamento dell’adattamento dell’uomo alla macchina si cristallizzano gli effetti di questo epocale cambiamento:

[Bisogna] esaminare come l’uomo si comporta; analizzare attraverso il prodotto del suo lavoro, la sua attività; studiare i sintomi della fatica, riconoscerne le cause; per questa via si giunge, si giunge non solo a determinare che cosa avviene quando l’uomo è costretto ad adattare la propria attività a quella a quella della macchina, ma dalla costatazione dei danni sgorga l’indicazione dei rimedi preventivi ai quali bisogna por mano14.

Durante gli anni Trenta Agostino Gemelli presiede una delle uniche due cattedre universitarie di psicologia; tuttavia la ricerca psicologica legata all’organizzazione scientifica del lavoro vive un proficuo cambiamento e una progressiva apertura alla psicologia applicata.

Silvio Alovisio in un recente e pionieristico saggio sui rapporti tra organizzazione scientifica del lavoro, psicologia applicata e cinema, scrive:

                                                                                                               

13 Agostino Gemelli, La psicologia del lavoro umano, in Francesco Bottazzi e Agostino Gemelli (a cura di), Il fattore umano del lavoro, Vallardi, Milano 1940, poi in Francesco Steri (a cura di), Taylorismo e fascismo. Le origini dell’organizzazione scientifica del lavoro

nell’industria italiana, Editrice sindacale italiana, 1979, p. 252. Su questi temi si veda anche

Luciano Mecacci, Psicologia e psicoanalisi nella cultura italiana del novecento, Laterza, Bari 1998 e il recente Roberta Passione, Le origini della psicologia del lavoro in Italia. Nascita e

declino di un’utopia liberale, Franco Angeli, Milano 2012.

L’incontro con il fascismo, è un’occasione non imposta, ma per molti aspetti auspicata da ampi settori della comunità scientifica e concepita da questi come un’inedita opportunità di legittimazione socio-politica15.

Il progressivo intervento istituzionale del Regime dalla seconda metà degli anni Venti a favore dell’organizzazione scientifica del lavoro e lo sviluppo della psicologia applicata ai temi del lavoro e dello studio del “fattore umano” in relazione alla macchina, costituiscono la trama epistemologica in cui il cinema - e sempre più il cinema a passo ridotto - diventa territorio di studio, ricerca, sperimentazione:

[…] è proprio nelle pieghe di questo confronto, teorico e sperimentale, tra l’umano e il tecnologico-meccanico, tra il corpo individuale del lavoratore e quello sociale dell’organizzazione che la nascente psicologia del lavoro, così come le scienze economiche e sociali interessante all’Organizzazione scientifica del lavoro, chiamano attivamente in causa il cinema16.

Il cinema a passo ridotto assorbirà in pieno le tensioni elaborate nella cultura cinematografica in relazione alla nuova “meccanizzazione” del lavoro e della società, tensioni che l’Istituto di Cinematografia Educativa dibatterà ed argomenterà per tutto il decennio degli anni ’30, e che i Guf esprimeranno a modo loro: la progressiva definizione e “categorizzazione” dei generi del cinema sperimentale dei Guf è un riflesso molto chiaro di questa trama culturale.

Anche la “sperimentazione” della tecnica cinematografica rientra in una lettura di questo tipo: la formazione di una competenza “tecnica” è un elemento fondante e determinante le dinamiche di finanziamento e di organizzazione di quella pratica cine-sperimentale che descriveremo nel prossimo capitolo.

Ma anche il cinema italiano che i giovani cinegufini frequentavano esprime la complessa congerie di questioni filosofiche e antropologiche della “vita moderna”.

                                                                                                               

15 Silvio Alovisio, “’Un metallo che sente e che pena’. Cinema e scienza del lavoro nell’Italia del primo Novecento”, in Immagine. Note di Storia del Cinema, AIRSC, Paolo Emilio Persiani, No. 6, 2012, pp. 88-89. Su questi tempi allargano lo sguardo al resto d’Europa si veda Patricia Rae, Modernism, Empirical Psychology and the Creative Imagination, in Astradur eysteinsson e Vivian Liska, Modernism, John Benjamins Publishing Company, Amsterdam/Philadelphia 2007, pp. 405-418.

I Guf fungono, per i giovani universitari, da collettore e terreno di negoziazione ed elaborazione per questa nuova realtà. Per i gufini, scrive Luca La Rovere:

la crisi dell’umanità, lo smarrimento dell’uomo ingannato dalle lusinghe materialistiche del progresso, era il tratto distintivo della civiltà contemporanea e la causa prima della sua decadenza. Le radici dell’alienazione dell’individuo risiedevano nella perdita di moralità indotta da una modernizzazione caotica […] L’avvento di una modernità selvaggia e disordinata aveva rescisso tutti i legami dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con il mondo, riducendolo a un automa costretto alla solitudine sociale e continuamente sospinto nel caos esistenziale. La critica gufina del moderno non sfociava nella condanna in blocco del progresso scientifico e culturale dell’umanità per vagheggiare forme di civiltà e di relazioni sociali di tipo preindustriale. Ma, piuttosto, nella convinzione che il progresso materiale sganciato da una crescita spirituale dell’individuo e della collettività non fosse sufficiente a produrre il pieno sviluppo dell’uomo, entità morale e materiale ad un tempo17.

Dunque sul terreno dell’esperienza gufina prende forma l’incontro con la