Enrico Leita accoglie chi va a trovarlo – non importa se cliente, compaesano o giornalista – con il sorriso di fiducioso ottimismo che lo contraddistingue e segna ciò che ha saputo costruire e che ancora sta costruendo. I tempi non sono facili, certo, ma è nato nel 1944 e come i suoi coetanei venuti al mondo durante la guerra, sotto le bombe, sa che deve la vita alla grande speranza dei suoi genitori verso il futuro. La vita come dono, che significa anche sentire l’impegno di dedicarsi agli altri, non solo a se stessi. Il sorriso è la sua vetrina, come lo sono i banchetti multicolori del suo negozio, “Trentinflora” al Ponte di Santa Giustina, in val di Non, dove le moltissime varietà di mele, antiche e nuove, si accompagnano alle piante e ai fiori. La gente è richiamata da questa tavolozza di colori, avvolti dalla cordiale accoglienza di Leita, della moglie Rosanna e dall’energica presenza del figlio Roberto, mentre Nadia, la figlia, si trova a Torino a tenere una serie di corsi di floricoltura, come insegnante.
Leita crede nel lavorare insieme, nel crescere insieme la famiglia… nessuno ha la chiave del futuro, ma la famiglia resta un riferimento di presenza, non solo per gli affetti: “I bambini – dice Rosanna – sono come i piccoli pomàri.
Quando vengono piantati hanno bisogno di un paletto che li sostenga nella crescita”.
È dentro questa cornice che Enrico Leita inserisce il racconto della sua vita e dei molti ruoli ricoperti. Perché è stato agricoltore, cooperatore, imprenditore, amministratore, e anche uomo politico… ma cosa si sente in realtà? “Mi sento imprenditore agricolo”, risponde senza esitare. Le radici sono contadine, la famiglia è di Tuenno, il papà Giulio, era presidente del consorzio di miglioramento fondiario, un’opera gigantesca che fin dal 1852 aveva portato l’acqua da Tovel alla valle. Una canalizzazione di cui si vedono ancora le tracce, che poté contare su pochissimi finanziamenti pubblici, ma venne sostenuta dal contributo dei contadini, anche da molti che erano emigrati in America. E proprio dal consorzio nasce il primo impegno civile, e politico di Leita, l’avvio che l’avrebbe portato ad essere assessore all’agricoltura nel Comprensorio della Val di Non, presidente, candidato al Parlamento (quando l’onorevole Ferruccio Pisoni divenne deputato europeo) e, dopo la mancata elezione, dal 1988 al 1993 consigliere provinciale a Trento. Erano gli anni Sessanta – racconta – e fondamentale fu l’incontro con Carlo Bridi che portava avanti i Club 3P e la formazione dei giovani coltivatori. “Formammo un gruppo dei
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8 minuti di Franco de Battaglia
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3P a Tuenno – ricorda – e la nostra prima battaglia, affiancando Vito Martini, fu per portare l’acqua sulla terra. L’acquedotto del consorzio, infatti, veniva gestito in base ai finanziamenti versati, come una società per azioni. Chi aveva pagato di più poteva contare su più ore di acqua. Noi invece dicevamo che il parametro di riferimento doveva essere la terra. Iniziò così il riscatto della terra trentina, per dare un riconoscimento pieno a chi la lavorava, e restava, invece di abbandonarla. Sono stati passaggi decisivi, se il Trentino ha un futuro agricolo oggi, nel mondo globalizzato, lo si deve all’impegno di quegli anni. Tutto era collegato. Bridi era instancabile, ma pochi anni più tardi Tullio Odorizzi, che era stato presidente della Regione e presiedeva la Cooperazione, mi chiamò per avviare il movimento dei giovani cooperatori.
Di quella prima riunione, a Palazzo Trentini, ricordo ancora il grande tavolo di legno massiccio attorno al quale ci sedemmo. Mi intimidiva non poco”.
Fondamentale fu poi il ruolo di Spartaco Marziani, un’altra figura dimenticata, direttore e in seguito presidente dell’Unione Contadini, vicino a Kessler e suo grande “suggeritore” di iniziative, anche se spesso litigavano. Fu Marziani a promuovere la Scuola di formazione sociale e politica per giovani contadini e cooperatori guidata da don Franco Demarchi, il grande sociologo. Da lì prese avvio la legislazione innovativa che rilanciò le campagne nel Trentino.
“Chi dire?” si chiede Leita. “Quella fu la nostra formazione. Le cooperative e le Casse Rurali si erano radicate nei paesi soprattutto per iniziativa dei parroci, non solo don Guetti, a Tuenno la Famiglia Cooperativa e l’asilo erano stati fondati da don Panizza, ma la dottrina sociale della Chiesa non era confinata a tema di dibattito giornalistico, si calava nella realtà della vita vissuta. C’era una gran voglia di lavoro e di riscatto per la condizione contadina. Bridi, Odorizzi, Marziani, Kessler, Pisoni capivano come il mondo contadino non fosse marginale, ma decisivo per il Trentino, anche e soprattutto nella modernità che si imponeva. Così ai “valori” si accompagnavano le iniziative per l’assistenza tecnica, ma anche per il miglioramento delle condizioni di vita e il credito alle giovani famiglie che volevano costruirsi una casa. Tutto si teneva, ed è questo il messaggio che vorrei rivolgere oggi in maniera pressante alla presidente Marina Mattarei, di riprendere questa attenzione a tutto campo verso i giovani che hanno bisogno di esperienze di vita, più ancora che di diplomi. Riprendere con fiducia e decisione i corsi di socialità di Demarchi. I tempi non sono facili, ma due restano i principi su cui orientarsi:
porre al centro la persona e far vivere le piccole comunità, che non sono solo nei paesi, ma ora anche nelle città! Persone (ascoltarle, fisicamente incontrarle) e conti in ordine, da “galantuomini”, che non è fare profitti, ma nemmeno essere “buonisti”. La Cooperazione non è assistenzialismo, è costruire insieme una comunità. E’ difendere, con la montagna, le piccole nicchie di produzione, valorizzare le diversità. Chi viaggia un po’ nel mondo, peraltro, si accorge del “miracolo” che la Cooperazione ha fatto nel Trentino, garantendo un reddito a chi aveva un ettaro o poco più di terra, quando altrove ne occorrono decine o centinaia. Ma ripeto come oggi, più che mai, ci sia bisogno di riprendere una formazione non solo tecnica, ma esistenziale.
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Amministrare una cooperativa non è come gestire un’azienda, si ha in mano un paese, la sua economia, le relazioni, le aspettative. Speranze e debolezze.
Tutto”.
È l’agricoltura, il “primario” economico, ma anche sociale del Trentino? “Per natura – dice Leita – sono ottimista, ma devo registrare, nelle campagne, una crisi da globalizzazione preoccupante, che va da una concorrenza esasperata (i polacchi, venendo a lavorare qui hanno imparato come si fanno le mele e i vivaisti hanno fornito loro gli impianti) ai nuovi virus che appestano le colture. Potevano essere combattuti con più controlli, o differenziando le colture? Non so. Certo la cimice asiatica è devastante”. Che fare? “Nessuno ha una soluzione precotta in mano. Forse introdurre nuove varietà non solo commerciali e internazionali (abbiamo una biodiversità di
mele antiche, nel Trentino, del tutto trascurata) o avviare un progetto serio per “far viaggiare” i giovani, non solo alla ricerca di nuovi mercati, ma perché attraverso ciò che vedono… in Canada, in Israele, in Olanda… trovino nuovi spunti per le nostre valli. Con la mia famiglia abbiamo affiancato i fiori alla frutta, ad esempio, dopo un viaggio in Olanda. E’ un compito che spetta anche alla Cooperazione rilanciare queste imprenditorialità sul territorio, in un Trentino che, peraltro, può contare su risorse intellettuali e capacità tecniche che poche regioni hanno. La Cooperazione resta la grande carta da giocare, ma deve rilanciare l’imprenditorialità. Quello che a volte rimpiango è che cercando di dare tutti i servizi ai cooperatori abbiamo creato prestatori d’opera più che imprenditori.
Ma ai giovani non mancano le strade da seguire”.
Enrico Leita
ritratto da Pierluigi Negriolli.
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