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Invocazioni e congedi

Nel documento Le guerre d’Italia in ottava rima (pagine 132-145)

2. ELEMENTI METANARRATIVI NEI POEMI BELLICI

2.1 Invocazioni e congedi

Come nei cantari di materia epica, anche nei poemi bellici l’invocazione alla divinità quasi sempre precede il racconto, ma non è legata ad alcuna esigenza narrativa specifica, anzi, nell’ottica di una performance orale, essa assume perlopiù una funzione fatica, cioè di richiamo dell’attenzione del pubblico, prima dell’inizio del cantare vero e proprio. Come ricorda Maria Cristina Cabani, l’invocazione alla divinità non deriva dalla chanson de geste, che tende a cominciare ex abrupto con la narrazione delle vicende, ma trova probabilmente la sua origine nella tradizione giullaresca, nei poemi religiosi e agiografici e, immancabilmente, per quanto riguarda la sua formulazione, nelle reminiscenze dantesche67. Le invocazioni, proprio in quanto forme cristallizzate in una tradizione, presentano quasi sempre la medesima struttura, che i poemi di guerra tendono a rispettare: la figura divina più spesso invocata è ovviamente Dio, nella sua accezione di Padre e Creatore. Circa la metà dei poemi considerati si apre con una preghiera rivolta direttamente a Dio, il quale è chiamato per nome o tramite perifrasi già ampiamente usate nell’ambito liturgico, come “sommo monarca”, “datore di tutti i beni”, “Padre di misericordia” etc. Solitamente il nome o la perifrasi per Dio è inserita in una preghiera di esaltazione della divinità e di supplica per il mondo cristiano:

Piatoso padre di misericordia, ch’a la tua somiglianza n’hai formati, deh, non guardar alla molta discordia e abominatione e gran peccati,

deh, metti pace unione e concordia fra tutti quanti i fedeli battezzati, per tua clemenza e infinita bontade, porgi aiuto alla cristianitade.

La guerra dei tedeschi contro i veneziani (T 3; GOR II, 3.1, 1 – p. 41)

O creatore d’ogni creata cosa, infinita potentia unica e pura, o luce dove non può star nascosa preterita, presente né futura, colonna eterna ove ogni virtù posa, lume che mai per altra luce oscura,

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pace de buoni e delli erranti guerra, sostenitor del cielo e della terra;

La venuta del Re Carlo con la rotta del Taro (T 9; GOR II, 4.8, 1 – p. 115)

La lode rivolta a Dio riempie una o più ottave; in altri casi, invece, l’invocazione della divinità, già dopo i primi versi, si congiunge con la richiesta fatta a Dio perché aiuti il poeta, consapevole della propria inadeguatezza e incapacità nel narrare la storia, della quale dichiara il difficile contenuto:

Suplico a te dator di tutti i beni, d’ogni cosa creata creatore, che di celesti lumi e di terreni e d’ogni imperio sei superiore, che ‘l mio fosco intellecto risereni tanto che con l’immenso tuo splendore io possa dire e di cantar non cessi i nuovi casi in Italia subcessi.

Giovanni Fiorentino - I nuovi casi successi in Italia (T 8; GOR II, 4.7, 1 – p. 105)

Senza il tuo adiuto, re celestiale, non fia nesun che faccia buon disegno, perché la gratia tua troppo a noi vale, però ricorro a te, Signor benegno che tu me cavi fuor de questa valle, col tuo favor alumina il mio ingegno, ch’io scriva questa rotta acerba e ria, qual fece Alphonso duca a la Bastia.

La rotta della Bastia

(T 19; GOR II, 11.1, 1 – p. 389)

Accanto a Dio Creatore, che è il destinatario più comune della preghiera, vi è anche Gesù Cristo Redentore, del quale sono di solito ricordate l’incarnazione, la morte e la resurrezione per la salvezza dei peccatori, mediante l’uso di formule già ampiamente usate nelle preghiere liturgiche; anche i poemi bellici talvolta ne fanno uso:

O sacro e sancto Redemptor che ‘l tutto col sangue tuo sì recuperasti,

da l’aspro inferno qual si fu perdutto, per il peccato primo noi caciasti nel centro de la terra strano e brutto, fino che humana carne tu pigliasti

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con il tuo sangue il mondo ricuperato fu da l’inferno come t’ho chiamato

La rotta di Parma

(T 7; GOR II, 4.5, 1 – p. 85)

Più frequentemente, tuttavia, i riferimenti all’incarnazione e alla redenzione del genere umano da parte di Gesù Cristo sono adoperati in formule più brevi per introdurre le coordinate temporali degli eventi descritti, come si avrà modo di osservare più avanti.

Altra figura divina spesso destinataria dell’invocazione è la Madonna, che insieme ad altri santi è pregata perché interceda presso Dio; anche in questi casi è frequente il riferimento alle Sacre Scritture, così come alle preghiere liturgiche:

Purificata virgo che nel tempio volesti presentar il tuo figliolo

sol per nostra salute e nostro esempio, che in te non si trovò fallacia o dolo aspira al servo tuo ignorante e sempio da quel tuo venerando e sacro polo, ch’io possa dir una felice nova di tua virtù che ‘l bel leon rinova.

M.C. - La vera nuova di Brescia (T 20; GOR II, 11.3, 1 – p. 405)

Come i poemi epici, anche i cantari bellici presentano spesso reminiscenze dantesche: nelle invocazioni, in particolare, i maggiori riferimenti sono tratti dal Purgatorio e dal

Paradiso, come, per esempio, il classico avvio dell’invocazione alla Madonna: Vergine madre, sopra ogn’altra donna

che electa fusti in alta hierarchia imperatrice regina e madonna lume de christiani e drita via de peccatori refrigerio e colonna, concedi gratia a la mia fantasia

che tracti in vulgar versi la gran guerra facta contra Venetia in ogni terra.

La storia del fatto d’arme di Geradadda (T 14; GOR II, 10.3, 1 – p. 273)

Altrove è possibile trovare alla lettera i versi della Commedia: ne La rotta dei francesi, l’invocazione riprende i primi quattro versi del canto XI del Purgatorio, che si apre con la preghiera del Pater recitata dai superbi. I primi versi sono copiati identici dal passo

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dantesco, in quanto la successione delle rime corrisponde alla prima metà dell’ottava (ABA B – ABAB), mentre i successivi introducono le due parola-rima A (“concederai”) e B (“errore”); il distico finale utilizza le rime C dei vv. 5 e 9 del canto (“degno”; “ingegno”). Una ripresa della preghiera del Pater da Purg XI è presente anche nell’Orlando68 (X,1), che la rielabora in modo molto simile, a riprova dell’affinità formale tra i due tipi di cantare:

O padre nostro che nel cielo stai O padre nostro che nei cieli stai, non circumscritto ma per più amore No(n) circhoscripto, ma per più amore che primi effecti di lassù tu hai Che (ai) primi effecti che lasù tu aj, laudato sia il tuo nome e ‘l tuo valore Laudato sia el tuo nome, il tuo valore e di tua grazia mi concederai Da ongni creatura sempre mai;

tanto ch’io possi scriver senza errore Noi rendiamo gratia al tuo dolce vapore, la mia historia e però padre degno Nel quale è vero la pace del tuo regnio, aiuta tu questo affannato ingegno” E noi ti ringratiamo sì chom’è degno.

La rotta dei francesi Orlando (X,1)

(T 26; GOR II, 14.1, 1 – p. 507)

Si è parlato finora delle invocazioni rivolte a Dio, a Gesù Cristo e alla Madonna, e di come la struttura degli esordi si ripeta pressoché invariata nei poemi di guerra in ottava rima; è tuttavia necessario integrare questa prima parte delineando un altro tipo di invocazione, affine nella struttura, ma che presenta talvolta soluzioni differenti. In diversi poemi, infatti, la preghiera del poeta è rivolta ad Apollo, alle muse o ad altre divinità come Marte, Minerva e Venere. La notevole frequenza con la quale i poemi bellici si aprono con invocazioni alle divinità pagane segna una differenza formale con la tradizione epico-cavalleresca, ma al contempo evidenzia il legame tra il cantare storico-contemporaneo e il poema d’argomento classico, che costituisce un’altra abbondante fonte di topoi formulari. Al di là della scelta del destinatario, la struttura formale dell’invocazione resta fondamentalmente la stessa: il poeta, cosciente dei propri limiti, invoca la divinità, o le muse, direttamente o tramite perifrasi, e richiede il loro aiuto, affinché i suoi versi siano illuminati ed egli possa narrare in modo degno e corretto gli eventi dei quali vuole dare notizia.

O sacro Appollo, prima che mia mano prenda la penna, el tuo socorso invoco, che senza te non credo corpo humano

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ardisca nel compor molto né poco, onde io con alegri cigli e viso altano te prego che ‘l prezar mio habia loco: prestame gratia e alumina mia mente che dica cosa che piaccia alla gente.

Perosino della Rotonda - La rotta degli spagnoli contro i veneziani (T 27; GOR II, 14.2, 1 – p. 513)

O Vener bella, il cui fulgido raggio adorna el ciel e fa rider la terra, regi l’ingegno mio sì prompto e saggio che dir io possa quel ch’al mio cor serra del re di Franza il suo buon viaggio e de so gente a cavallo e per terra e come i monti con gloria ha passato e come Prosper preson fu menato.

La venuta del Cristianissimo Re in Italia (T 30; GOR II, 14.6, 1 – p. 545)

Se da una parte la struttura dell’esordio non cambia quando destinatario della preghiera è Apollo, o il collegio delle Muse, vi sono tuttavia alcuni testi delle Guerre in ottava rima che presentano un esito diverso nell’invocazione, volto a rimarcare la differenza con i poemi epico-cavallereschi e d’argomento classico, opere di finzione iperbolica,

Supplico a voi, o de Romanzi muse, che fosti tanto pronte in vulgar carmi e al fingere hyperbolico siete use

La miseranda rotta dei veneziani

(T 13; GOR II, 10.2, 2, 1-3 – p. 263)

e i poemi di guerra che esprimono, nello stesso linguaggio, la verità storica delle vicende contemporanee. Si prendano ad esempio le ottave iniziali de La rotta degli spagnoli

contro i veneziani:

Signor, qui non bisogna de Troiani contar qui como Paris tolse Elena, né como un tempo i gloriosi Albani pugnar con Roma e fu tra lor gran pena, né come venen armati i tre soprani Hanibale, Philippo, e ‘l re Porsena né como Iuba ucise Curione

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Lasare intendo a Cesari e Pompeo, Corintho, Athene e ruinar Thesaglia e ‘l don che fece el vechio Tholomeo del qual seguì tanta travaglia,

ma spero, col adiuto de Peneo, cose contar che non sia de men vaglia se state attenti con vera memoria, darò principio ad una nova historia.

La rotta degli spagnoli contro i veneziani (T 27; GOR II, 14.2, 2-3 – pp. 513-514)

La differenza principale che le invocazioni dei poemi bellici spesso presentano rispetto alla tradizione cavalleresca risiede proprio nel sottolineare la natura della materia trattata: non si tratta più di opere di finzione che trasportano poeta e ascoltatore (o lettore) in un altrove leggendario; l’argomento del poema è invece storico, vicino sia nel tempo che nello spazio e, pertanto, vero69. Questo cambiamento di prospettiva introduce un nuovo ventaglio di soluzioni formali che si sovrappongono ai topoi del modello epico-cavalleresco, come, per esempio, la rinuncia del poeta nel cercare l’ispirazione di Apollo e delle muse, preferendo invece altre figure divine più adatte all’argomento del cantare. Al dio del Parnaso è preferito il Dio cristiano o, più frequentemente, Marte, dio della guerra:

Già mi fu duce Apollo in ogni passo hor del quinto splendor l’ausilio afferro, già ‘l favor delle muse ebbi per spasso, hor qui me fa mestier lingua di ferro che sol pensando di Roma il fracasso senza più dirlo me medesmo aterro, dunque soccorso dammi, o sacro Marte, ch’io non so navicar senza tue sarte.

Eustachio Celebrino da Udine - La presa di Roma (T 38; GOR II, 19.2, 1 – p. 815)

La dichiarazione del Celebrino, che necessita una “lingua di ferro” per descrivere le terribili vicende del sacco di Roma, è particolarmente significativa, in quanto mette in luce due tendenze opposte e complementari nelle invocazioni e, per estensione, nella

69Cfr. F. Tomasi, Raccontare la guerra in ottava rima nel Cinquecento, in Le forme e la storia, n.s. X, 2017, 2, pp. 70-71; C. Dionisotti, Fortuna e sfortuna del Boiardo nel Cinquecento [1970], in Id., Boiardo

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struttura stessa dei poemi bellici. Innanzitutto appare evidente l’insistenza con la quale i poeti rimarcano la differenza della materia trattata rispetto agli altri generi di cantare: una differenza di contenuto che dovrebbe determinare anche una differenza di stile, l’abbandono delle forme del poema cavalleresco e l’assunzione di un tono più schietto, senza abbellimenti retorici, più consono alla dimensione storica della materia:

L’alma di quel che nel parlar materno soverchiò tutti quivi non invoco

nè l’aqua pegasea nè il lauro eterno che ‘l canto mio giovar porebben poco, ma il cruentoso Marte, dio superno, che in tal materia tiene el primo loco et seco invoco l’alma dea Moneta ch’oggi fan falso parer bon poeta

Poeta adonque no, ma come historico el quinto canto fidelmente ordisco dove io non ponerò senso allegorico né tra li verdi fronde oculto visco et sopra modo usar color rhetorico in piazza tra boteghe non ardisco, ma chiaro e breve, senza alte sententie cantarò et senza electe desinentie.

La presa di Legnago

(T 18; GOR II, 10.11, 1-2 – p. 381)

Non come poeta, ma come storico l’anonimo autore de La presa di Legnago vuole narrare i fatti della guerra franco-veneta e, pertanto, intende lasciare da parte tutti gli artifici retorici e le raffinate espressioni dei cantari cavallereschi. La materia storica e contemporanea richiede chiarezza e incisività, così come la tutela e l’ispirazione di una divinità adatta, cioè il “cruentoso Marte”. Tuttavia, il secondo aspetto che si può notare è che la differenza dei contenuti tra la materia epico-cavalleresca e quella storico-contemporanea è ben lungi dal determinare un radicale cambiamento anche nel carattere formale dei poemi; la stessa dichiarazione del Celebrino, “me fa mestier lingua de ferro”, è emblematica di questo implicito paradosso. La volontà di raccontare i fatti d’arme contemporanei abbandonando le forme della tradizione è espressa tramite una citazione dall’Eneide:

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“Non, mihi si linguae centum sint oraque centum, ferrea vox, omnis scelerum comprendere formas, omnia poenarum percurrere nomina possim.”

Aenais VI, 625-627

Espressione tra l’altro già ripresa, come ricorda Romei nel commento alla Presa di

Roma70, anche dal Boiardo:

Lingua di ferro e voce di bombarda bisognarebbe a questo racontare.

Orlando innamorato (II, 24, 10)

I poeti delle Guerre prendono spesso le distanze dalla tradizione epico-cavalleresca e classica, dichiarando di non volersi servire dell’ispirazione di Apollo e delle muse, rifiutando le forme dei “romanzi da poeti”. Così ancora il Celebrino:

E voi che ad ascoltar qui atorno seti venuti in questo ameno e bel ridutto, pregovi state tutti attenti e queti che spedito s’intenda il mio dir tutto: questi non son romanci da poeti, ma di Roma la presa, il pianto e ‘l lutto, il sacco fatto la ruina e danni

per spani, italiani e alamanni.

Eustachio Celebrino da Udine - La presa di Roma (T 38; GOR II, 19.1, 2 – p. 815)

D’altro canto, la dichiarazione stessa è articolata secondo formule già utilizzate nei cantari epici e classici per sottolineare la straordinarietà della materia di volta in volta trattata71; in questo senso, le invocazioni che esprimono il rifiuto della tradizione, utilizzando le forme della tradizione stessa, sono un esempio evidente dell’ambivalenza che caratterizza molti altri aspetti dei poemi bellici: da una parte la pretesa di una precisione storica talvolta sfiorata, ma mai pienamente raggiunta; dall’altra l’assunzione delle forme della tradizione canterina in una struttura poetica che, pur presentando soluzioni metanarrative diverse, mantiene sostanzialmente immutata la sua connotazione epica e cavalleresca.

70 Cfr. E. Celebrino, La presa di Roma, a cura di D. Romei, Lulu, 2018, p. 50, nota 1.4.

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Come le invocazioni iniziali, anche i congedi sono codificati per mezzo di espressioni assai ricorrenti nella tradizione epico-cavalleresca; tra queste è molto comune la ripresa della preghiera a Dio, che è invocato spesso nei versi conclusivi del poema perché conceda pace e concordia ai cristiani:

Ma prego Dio, quel Signor verace, che metta tra cristiani tranquilla pace.

Perosino della Rotonda – Il fatto d’arme di Ravenna (T 25; GOR II, 12.7, 60, 7-8 – p. 494)

Io prego Idio, Redemptor soprano, che metta pace tra el popul christiano.

Perosino della Rotonda – La rotta degli spagnoli contro i veneziani (T 27; GOR II, 14.2, 62, 7-8 – p. 520)

Colui che in croce per noi hebbe a morire metta in pace el populo christiano,

faci’l Dio per sua misericordia e metta tra christiani vera concordia.

Teodoro Barbiere – Il fatto d’arme del Re di Francia (T 28; GOR II, 14.4, 80, 5-8 – p. 536)

I poemi bellici talvolta declinano questa formula conclusiva in un invito rivolto ad ascoltatori e lettori perché preghino Dio, affinché egli conceda la vittoria e la pace alla parte sostenuta dal poeta:

Unde preghiam lo eterno Re de gloria che faza questa lega prosperare

et che gli piacia donargli victoria da ogni banda per terra e per mare.

La guerra di Ferrara

(T 1; GOR II, 1.1, 81, 1-4 – p. 24)

Però auditore, el qual tu noti, habbi alla mente i mei sospiri e pianti, pregate religiosi e sacerdoti

che preghino per noi le sancte e i sancti, e voi farete oratione e voti

alla Madonna che il Signor davanti, che ci habbia misericordia se li piace et che metta fra noi vera pace.

Lamento di Roma

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I congedi nel cantare storico-contemporaneo, così come nella più ampia tradizione epico-cavalleresca, sono fortemente connotati dal punto di vista metanarrativo: contengono, cioè, un gran numero di formule che rimandano al contesto della performance, nelle sue molteplici sfaccettature. Si rimanda al capitolo successivo l’aspetto della parzialità nei poemi bellici, che rappresenta un elemento distintivo rilevante e non limitato ai soli congedi: ci si concentrerà ora su alcune altre formule ricorrenti nella chiusura dei cantari.

Nell’analisi delle espressioni formulari presenti negli esordi e nei congedi dei cantari cavallereschi, Cabani mette in evidenza il valore prettamente fatico dei due momenti che rispettivamente aprono e chiudono il canale comunicativo del canterino con il suo pubblico. Nell’ambito epico-cavalleresco, le dichiarazioni metanarrative in apertura e in chiusura del cantare segnano l’inizio e la fine di una séance, intesa come unità di performance, cui farà seguito un nuovo cantare che continuerà la narrazione. Per questa ragione, sono molto comuni nei congedi i rimandi al cantare successivo: il canterino dichiara di volersi fermare o invita i presenti a una pausa, per poi riprendere il racconto. Nei cantari storico-contemporanei e, in particolare, in quelli composti a ridosso degli eventi descritti, avviene un procedimento ancora una volta simile nella forma, ma adattato alla natura del contenuto; dal momento che lo spazio e il tempo della narrazione sono portati dall’epoca leggendaria dei paladini all’attualità, il contenuto della narrazione deve per forza attenersi, seppur in modo impreciso, alla realtà storica: il poeta non può più inventare misteriose fonti per la sua materia cavalleresca, deve invece attendere che giungano notizie dei più recenti sviluppi delle vicende belliche. Ecco allora che le formule di rinvio ai cantari successivi, che nello stile cavalleresco fungevano da raccordo tra una performance e un’altra, ora sono riconfigurate alle esigenze di una narrazione che, almeno nel contenuto, si discosta dalla finzione epica per avvicinarsi a una sorta di proto-giornalismo72. Sono infatti frequenti le dichiarazioni che invitano il pubblico ad attendere che il poeta riceva nuove notizie e possa così comporre il seguito del cantare:

Aspetareti poi di giorno in giorno che sempre intenderete cose nove,

72 Cfr. F. Tomasi, cit, p. 68; C. Palazzo, Nuove d’Europa e di Levante. Il network veneziano dell’informazione agli inizi dell’Età Moderna (1490-1520), Tesi di Dottorato - Università Ca’ Foscari

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seben mi parto, presto a voi ritorno voi ne havete vedute già le prove, vanno su ogni corrier con suo corno, quello che seguirà pur che mi giove darovi in scripto cum l’opera mia: Idio vi aiuti e la madre Maria.

Ercole Cinzio Rinuccini – Storia della rotta e presa del Moro (T 11; GOR II, 5.2, 60 - p. 147)

In questo mezzo, quel che accaderà tra l’una parte a l’altra notarò

et ogni cose che si tracterà come sin qui cum fede scriverò et quel che ‘l magno re nostro farà circa la rocca de Cremona mo’ ordirlo voglio e porlo in questo subio e al terzo canto ognun trarò de dubio.

La presa di Peschiera

(T 15; GOR II, 10.5, 30 – p. 300)

Accanto a questi riferimenti a futuri cantari, è frequente anche l’ammissione dell’ignoranza da parte del poeta, che dichiara, con espressioni altrettanto formulari, di non poter raccontare ciò che deve ancora avvenire, in quanto solo Dio conosce il futuro:

Carlo s’è ritornato inella Francia, di quel che seguita, guerra o divitia, sallo colui che ogni cosa bilancia e niuno altro ha del futuro notitia

Gerolamo Senese – La venuta del Re Carlo con la rotta del Taro (T 9, GOR II, 4.8, 144, 1-4 – p. 126)

E dele cose ch’hanno a seguire più oltra non dico, voglio star quieto,

Nel documento Le guerre d’Italia in ottava rima (pagine 132-145)