• Non ci sono risultati.

L’islam e i diritti umani p

Nel documento Lo Ius Corrigendi nel matrimonio islamico (pagine 191-198)

Lo ius corrigendi, in ogni suo aspetto e soprattutto alla luce della varie cause che potrebbero spingere il marito a compiere gli atti ampiamenti descritti nei capitolo precedenti, lede non soltanto la dignità della donna, ma principalmente qualsiasi diritto umano, perché la donna prima di essere tale, è un essere umano.

Le femministe islamiche hanno cercato di eliminare questo fenomeno attraverso una lettura nuova e più ragionevole delle fonti, richiamando al rapporto che intercorre tra l’islam e i diritti umani.

Il riconoscimento dei diritti umani è sostanzialmente il prodotto di uno dei più antichi sogni dell’umanità, che rimanda all’esistenza di una giustizia vera e oggettiva in cui i diritti sono intesi come assoluti e la loro esistenza è correlata all’uomo in quanto tale301.

Attualmente, emergono delle circostanze contrastanti in cui, dinanzi alla proliferazione di dichiarazioni che sanciscono il carattere universale dei diritti, vi sono attestazioni che ne rivendicano il carattere etnocentrico, per cui al riconoscimento formale previsto dalle prime segue la mancata attuazione in base alle disposizioni contenute nelle seconde.

Secondo la prospettiva internazionalistica, la condizione giuridica delle donne è regolata dell’articolo 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel quale viene sancito il principio di uguaglianza e, dei successivi Patti universali, i 316 diritti civili e politici e i diritti economici, sociali e culturali del 1966, i quali hanno ulteriormente rafforzato la tutela prevista con il principio di non discriminazione. A queste si aggiunge il principale documento a tutela della condizione giuridica del mondo femminile adottato dalla Comunità

301 Cfr. E. Denninger, Diritti dell’uomo e legge fondamentale (a cura di C.

internazionale, la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (da ora CEDAW). Nei confronti di questa Convenzione, gli ordinamenti musulmani, in virtù della specificità del proprio sistema, hanno opposto numerose riserve, giustificate da motivazioni che richiamano l’incompatibilità tra le disposizioni della CEDAW con i principi della Shari’a.

Se da un lato sono proclamati solennemente i diritti della persona in quanto tale a livello internazionale, dall’altro sono avanzate forme di riconoscimento in relazione alla specifica lettura che se ne fa, in virtù dell’istinto alla salvaguardia della cultura di appartenenza.

Prima di parlare delle diverse dichiarazioni dei diritti universalmente riconosciuti che hanno caratterizzano l’esperienza islamica, è necessario affermare che la casistica islamica rappresenta una situazione limite al riconoscimento dei diritti in chiave universalistica, la quale si traduce nel caso di specie, in un vincolo alla formazione specifica di una volontà diretta alla protezione effettiva della donna negli ordinamenti che si ispirano all’islam.

Nel caso musulmano, al principio di uguaglianza tra i sessi e al divieto di discriminazione tra uomo e donna sancito sul piano internazionale, la tradizione giuridica islamica risponde con una diseguaglianza di legittimazione divina, tanto da non poter accettare quanto previsto dala Comunità internazionale.

Tra le disposizioni della Convenzione, l’attenzione è qui focalizzata sugli articoli 1, 2 e 16, nei confronti dei quali sono state promosse dagli stati islamici le principali riserve, giustificate dall’incompatibilità con le norme dell’islam e dal richiamo alle disposizioni della legislazione nazionale.

L’articolo 1 della CEDAW definisce le discriminazioni quale “ogni distinzione, esclusione o restrizione prodotta in base al sesso che ha l’effetto od il fine di rendere nullo od impari il riconoscimento, il godimento e l’esercizio da parte delle donne dei propri diritti e libertà

fondamentali, anche attraverso lo status maritale, nel campo politico, economico, sociale, culturale, civile ed in qualsiasi altro campo”. L’articolo 2 della CEDAW riferisce alla responsabilità degli Stati di modificare le normative, i regolamenti, i costumi e le pratiche discriminanti contro le donne, adottando “azioni positive” finalizzate a superare gli stereotipi relativi al rapporto tra uomo e donna, soprattutto nei contesti più tradizionali.

Nei confronti di questa disposizione l’Algeria, il Bangladesh, l’Egitto, la Libia, la Malesia, l’Iraq hanno presentato delle riserve giustificandole con riferimento alla tradizione sharaitica, la quale, secondo gli Stati, non ammette l’abrogazione di quelle disposizioni interne che sono derivanti dalla cultura giuridica autoctona.

L’articolo 16 della Convenzione, invece, riferisce ai diritti della donna all’interno della famiglia, e per questo la principale disposizione oggetto delle riserve degli Stati a maggioranza musulmana, giustificate con riferimento alla legge sharaitica.

La norma stabilisce, invero, che uomini e donne godono degli stessi diritti, sia nella fase della costituzione che della dissoluzione del rapporto coniugale, disposizione che ha prodotto un elevato numero di riserve, tra cui quelle di Egitto, Algeria, Marocco, Malesia, Tunisia, rappresentando le più dettagliate e forti dimostrazioni della cultura giuridica islamica all’implementazione della CEDAW.

La critica fondamentale alla disposizione può essere espressa con le parole di al-Būtī, secondo cui il mancato accoglimento della norma rappresenta un rifiuto dell’approccio individualista della Convenzione ai diritti, contraria all’impostazione islamica ove la famiglia è un tessuto di relazioni che la rende un soggetto di diritto.

Il riconoscimento che la CEDAW fa dei diritti dei “singoli” rappresenta una prevaricazione nei confronti di una istituzione, la ummah islamica, che nel suo complesso è tale da definire l’insieme

dei diritti di cui i singoli godono, in quanto conseguenza dell’equilibrio tra individuo e comunità302.

Come ricorda la Mayer303, la posizione degli ordinamenti musulmani rimanda ad una identificazione della legge islamica alla stregua di un sistema giuridico “sovranazionale”, produttivo di effetti vincolanti che i singoli stati devono provvedere e rispettare.

In virtù del dualismo che caratterizza il sistema giuridico islamico, si afferma che le riserve sono state opposte non attraverso un esplicito riferimento alla legge divina, quanto piuttosto alla legislazione interna, mettendo in evidenzia come le normative nazionali affondino in una cultura nazionale immodificabile, che ha radici nella mancanza di volontà di modificare il regime di discriminazione contro le donne. L’area islamica partecipa al processo di regionalizzazione dei diritti attraverso l’adozione di una serie di documenti che identificano il valore particolare degli stessi.

Tre sono i principali documenti, entrati in vigore nell’area islamica, che maggiormente ci interessano alla luce della condizione della donna di cui abbiamo ampiamente parlato facendo espresso riferimento allo ius corrigendi, che ne rappresenta l’aspetto principale. La Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo304 del 1981, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam del 1990 e la Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994, sono il simbolo di voci diverse nel quadro del rapporto tra lo stato e la Shari’a.

Se le prime due sono l’espressione delle correnti islamiche più tradizionaliste, la terza è caratterizzata da una posizione molto progressista, volta a sganciarsi dalla tradizione sharaitica.

Nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, si afferma che i diritti devono essere desunti direttamente dalle fonti sacre, il Corano e la Sunnah.

302 Cfr. I. De Francesco, cit., pp. 157-172. 303 Cfr. A. E. Mayer, cit., pp. 118-119.

304 La Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo è stata adottata dal

Nel preambolo si legge che “i diritti dell’uomo nell’islam non dipendono dalla generosità di un re o di un governo, né dalle decisioni emanate da un potere locale o da un’organizzazione internazionale. Si tratta, infatti di diritti cogenti in virtù della loro origine divina, che non possono essere soppressi, invalidati, violati o trascurati”305.

I diritti nell’islam sono definiti da Dio, e per tale motivo nessuna persona umana ha il diritto di abrogarli.

Nello specifico, sono tutelati il diritto alla vita (articolo 1), alla libertà personale (articolo 2), il diritto all’eguaglianza (articolo 3), ma sempre con specifico riferimento alla legislazione divina.

L’articolo 12 sugella la libertà di pensiero e di coscienza, stabilendo che “ognuno ha il diritto di pensare e credere in libertà, purché ciò avvenga nei limiti previsti dalla Legge islamica”.

Di conseguenza, riprendendo ciò che abbiamo detto fino a questo momento in relazione allo ius corrigendi, questo articolo ne elimina qualsiasi tipo di legittimazione, in quanto ogni credente ha il diritto di pensare in completa libertà, il cui unico limite è dato dalla legge islamica stessa, quindi un mezzo di correzione per evitare di pensare e di agire in modo errato esiste ed è chiaramente espresso.

Tutto è ricondotto alla singola individualità, in cui non c’è spazio per l’intromissione di un altro soggetto esterno, che si sente legittimato a poter intervenire e correggere i comportamenti dell’altro, in quanto il metro di giudizio non è umano ma divino, dunque sarò la stessa persona, che pensa e che agisce, a dover rintracciare nella legge divina, la direzione giusta per continuare a rispettare la parola di Dio. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam306, al momento costituisce il documento ufficiale nel quale si enunciano i diritti umani secondo la lettura islamica.

305 Cfr. Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (trad. dal testo arabo

originale), in A. Pacini, (a cura di), L’Islam e il dibattito sui diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino, 1998.

306 La Dichiarazione dei diritti dell’uomo nell’islam è stata adottata al Cairo

Essa chiarisce come la Shari’a, secondo la lettura storicizzata data della stessa, sia ancora l’elemento determinante nel definire lo status giuridico della donna, ed il solo riferimento valido al fine di interpretare o chiarire qualunque articolo della dichiarazione.

Si conferma il riconoscimento al diritto alla vita, alla libertà ed all’uguaglianza ed il diritto alla libertà di religione, di pensiero e di credo ma solo in conformità a quanto stabilito dalla legge.

Il richiamo alla specificità islamica è realizzato attraverso il richiamo alla Shari’a, cioè all’insieme delle disposizioni che rievocano la tradizione giuridica in materia di diritti, da cui, malgrado, derivano anche la serie di discriminazioni che la dottrina classica contempla in riferimento soprattutto alla donna.

Di conseguenza, i diritti umani non possono essere percepiti se non come frutto della volontà divina, e devono trovare origine nei principi stabiliti nelle fonti dell’islam.

Per cui, di fronte al contenuto dell’articolo 2 della Dichiarazione universale, che stabilisce l’universalità dei diritti umani indipendentemente dal loro status personale, l’equivalente nelle Dichiarazioni islamiche sono l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam e l’articolo 1 della Dichiarazione del Cairo, in cui si afferma l’uguaglianza degli esseri umani e la proibizione di ogni forma di discriminazione solo alla luce delle disposizioni giuridiche che caratterizzano questi ordinamenti307. La Carta araba dei diritti dell’uomo, ultima delle principali dichiarazioni adottate nell’area islamica, presenta un orientamento diverso rispetto alle due dichiarazioni sopracitate. Infatti non presenta il richiamo all’autorità divina quale fonte di legittimazione dei diritti. Di conseguenza è possibile definire questa dichiarazione come laica. Il fondamento dei diritti non è più Allah e la legge sharaitica, quanto piuttosto la nazione araba degli Stati, alla quale spetta il compito di

307Cfr. A. E. Mayer, Islam and Human Rights. Traditions and politics, Pinter Publishers and Westview Press, Bourder, 1991, p. 102.

realizzare i principi di fratellanza e di uguaglianza tra tutti i credenti, soprattutto tra uomo e donna.

Solo nel Preambolo è presente l’unica forma di evocazione della Shari’a, attraverso il richiamo alle precedenti dichiarazioni islamiche, alle quali si affianca il richiamo alla dichiarazione Onu del 1948 e ai due Patti delle Nazioni Unite del 1966.

A causa della sua espressa laicità, questa Dichiarazione non ha subito un’immediata promulgazione dopo la sua emanazione, infatti è rimasta improduttiva di effetti per molto tempo308.

E’ indubbio, nonostante il suo ritardo nella promulgazione, che il carattere secolare di questa dichiarazione rappresenti il vero elemento innovativo di questo documento. Infatti questa dichiarazione è l’unico atto capace di riprodurre ufficialmente una posizione riformatrice dei paesi islamici sul tema dei diritti umani, ed in particolar modo, in riferimento alla condizione e ai diritti della donna musulmana.

Alla luce delle Dichiarazioni sopracitate e del percorso riformatrice condotto dai movimenti islamici, è possibile affermare che la condizione della donna nel mondo islamico, e della moglie nello specifico rapporto coniugale, è dovuta ad un atteggiamento retrogrado e falsificato delle fonti islamiche, in quanto, anche nel Corano e nei vari hadith, trapela una netta condizione di uguaglianza tra la donna e l’uomo, rendendo illegittimo qualsiasi atto di correzione del marito nei confronti della moglie, in quanto testimone di una condizione di supremazia, che in realtà non è prevista dal credo islamico.

L’unico limite agli atteggiamenti posti in essere da uno dei credenti è la legge sharaitica e non la minaccia o la paura di essere corretti e di subire violenza.

La violenza, rifiutata nel modo più assoluto dal credo musulmano, non può essere intesa come un metodo per imporre il rispetto dei dettami religiosi, in quanto comporterebbe una violazione degli stessi.

308 Cfr. A. Pacini, Introduzione. L’Islam e il dibattito sui diritti dell’uomo in

A. Pacini (a cura di), L’Islam e il dibattito sui diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino, 1998, pp. 135 e ss.

Lo ius corrigendi, in ogni sua manifestazione, dalla meno invasiva, come l’ammonimento, fino a quella più incisiva, come la violenza domestica e quella sessuale, è simbolo di violenza in quanto implica l’annullamento del principio di uguaglianza, ampiamente sancito dalle fonti coraniche, e rompe in modo irreversibile l’equilibrio che dovrebbe crearsi tra i coniugi nella condivisione della loro vita. Indipendentemente dalle varie interpretazioni che possono essere date ai versetti del Corano che riguardano questo argomento, l’illegittimità di qualsiasi atto che rientra nello ius corrigendi, è dovuta ai principi posti alla base della religione islamica, che, sovrastano qualsiasi atto umano, in quanto frutto di derivazione divina.

Tenendo conto della supremazia dei principi posti alla base del credo musulmano, sono state emanate diverse dichiarazioni, come quelle sopracitate che hanno ribadito il concetto di uguaglianza tra i credenti, sia a livello formale che sostanziale. Di conseguenza, attualmente, è necessaria un’educazione del popolo islamico all’osservanza della nuova condizione della donna e al rispetto della sua dignità e dei suoi diritti come essere umano, in quanto, solo in questo modo, è possibile applicare concretamente tutto ciò che è sancito a livello legislativo, eliminando pregiudizi e visioni misogine, e migliorando efficacemente la condizione della donna, sia a livello pubblico che a livello privato.

Nel documento Lo Ius Corrigendi nel matrimonio islamico (pagine 191-198)

Documenti correlati