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PROSPETTIVE E DIVERGENZE INTERNE ALLA COMUNITÀ

“Là sul Danubio

c'è una magia.

Mi affascina con il suo profumo l'elicriso

e i trofei sotto le tettoie

abbelliscono il luogo. Là sul Danubio, per San Giorgio, fra le corone di fiori negli occhi di un Valacco trovo tutta la bellezza

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Aliu, Majlinda, Kosovo-Serbia, dialogo arenato, <<Osservatorio Balcani e Caucaso - Transeuropa>>, 29/04/2019, balcanicaucaso.org.

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e rimango incantata”.

In questa parte tratterò una peculiarità riguardante i cittadini provenienti dalla Serbia orientale, la regione danubiana al confine con la Romania e la Bulgaria. Tra i loro connazionali, questi rappresentano la maggioranza presente sul nostro territorio provinciale. Infatti, se si esclude la vallata dell'Agno dove vi è una netta maggioranza di cittadini provenienti dalla Serbia meridionale e la città di Vicenza, in cui si registrano in gran numero i serbi di Bosnia, gli uomini e le donne originari della regione corrispondente ai distretti di Braničevo, Bor e Zaječar si possono incontrare in tutto il restante territorio berico, particolarmente nei comuni dell'ovest vicentino. Essi presentano un tratto distintivo che soltanto di rado si rende evidente alla popolazione locale, spesso ignara di fronte alla complessità balcanica, che tuttavia contraddistingue molti di essi dai connazionali della Serbia “profonda” - quella che Miloš Stojković intende nell'area compresa “tra Jagodina e il Kosovo” – e dai serbi di Bosnia: l'appartenenza valacca. Si tratta di un'etnia le cui radici si perdono nel tempo, poiché si dice che discenda dagli antichi pastori nomadi che popolavano i Balcani, romanizzati tra il IV e il VI secolo e in seguito ritiratisi nelle regioni montuose a partire dal VII secolo, quando le popolazioni slave oltrepassarono il Limes Danubiano. A partire dal XIV secolo, con l'avvento della conquista Ottomana, gli slavi si rifugiarono progressivamente nelle zone dove si erano spinti i valacchi, assimilando questi ultimi. Il retaggio valacco rimane tuttavia riscontrabile fino al giorno d'oggi, particolarmente nella lingua e nella toponomastica: non di rado si incontrano termini di origine latina che rievocano l'attività pastorale, come per l'altopiano del Durmitur in Montenegro, che prende il proprio nome dal “dormitorio” dei pastori morlacchi, ossia i “valacchi neri” o “valacchi del nord”, secondo l'usanza turca di indicare i punti cardinali con i colori; o il rilievo denominato Romanjia, a est di Sarajevo. Si tratta di un'eredità sparsa a macchia di leopardo nella regione, che porta a suddividere diversi ceppi aventi però una matrice condivisa. Troviamo così le classificazioni ufficiali che distinguono tra i morlacchi in Dalmazia, gli arumeni tra i monti dell'Epiro in Albania e del Pindo in Grecia, i daco-romeni concentrati in massa nelle odierne

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repubbliche di Romania, Moldova e nelle zone limitrofe48. Ma dove ancora la popolazione mantiene la propria antica denominazione è nella Timočka Krajina, la frontiera del Timok, corrispondente ai distretti di Bor e Zaječar, e nelle aree ad ovest comprese nei distretti di Braničevo e Pomoravlje49, ossia i territori da cui provengono la maggior parte dei valacchi di Serbia presenti oggi a Vicenza. “Mio nonno si vestiva come i poveri, perchè erano contadini. A Kučevo magari ti guardavano un po' male al tempo. I serbi non vivevano in campagna o montagna, lì vivevano i Vlahi; mentre nelle città e nelle piane vivevano i serbi”, spiega Dragan Janković, falegname quarantacinquenne originario di Neresnica e residente a Barbarano Vicentino. La sua dichiarazione introduce la sottostante mappa della Serbia orientale, posta al fine di chiarire la situazione demografica della zona, per la quale attagliano le parole che lo storico Egidio Ivetic adotta per descrivere la complessità balcanica: “Sono rari i luoghi d'Europa dove in spazi così circoscritti, di pochi chilometri, si coglie una così stridente diversità di modelli culturali” (Ivetic 2015: 53).

it.wikipedia.org, Map of Vlach community in eastern Serbia.

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it.wikipedia.org, Vlasi.

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Si può osservare come i valacchi, pastori e allevatori, vivessero nelle zone circostanti i grossi centri, popolati invece dai serbi. La dichiarazione di Dragan lascia trasparire inoltre come i rapporti non fossero necessariamente in armonia tra le due componenti e si potessero registrare delle rivalità, in senso dicotomico città-campagna o centro-periferia ma non solo, se si pensa alla questione dei gruppi “identificabili” dopo il Congresso di Berlino, messa in risalto dallo storico Kemal Karpat (Karpat 1993: Introduzione), secondo cui nel trattato del 1878 si conferirono a determinati gruppi delle sovranità su altrettanti territori nei Balcani a scapito di altri; sotto questa luce, il nostro caso avrebbe visto le prerogative serbe sovrastare le possibilità di riconoscimento dei valacchi. Ma la criticità inerente ai criteri atti a rendere una definizione della popolazione più antica della regione si è protratta fino al tempo attuale ed è oggetto di differenti dinamiche, in base alla repubblica o alla regione in cui i valacchi risiedono. È del 2012 un articolo dell'Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa50, che evidenzia la diversità di trattamento riservato alla popolazione sotto il governo rumeno e nelle regioni della Vojvodina e della Timočka Krajina, al punto da divenire oggetto di attrito tra i governi di Belgrado e Bucarest e a far porre a quest'ultimo il veto nei confronti di una possibile candidatura per la Serbia all'ingresso nell'Unione Europea. Nello stesso senso va la denuncia di Dragan Janković: “I serbi vogliono far sparire la storia Vlaha e ascriversela a sé, farla propria. Vogliono assimilarci”. D'altro canto, come specificato nell'articolo apparso su Osservatorio Balcani e Caucaso, negli oltre centocinquanta villaggi della Serbia orientale in cui i valacchi costituiscono la maggioranza vige una forte divisione interna tra chi sente il legame con la Romania e chi spinge per un riconoscimento della minoranza di per sé stessa51. A complicare ulteriormente il quadro influisce una continuata volontà da parte di Bucarest di voler dimostrare attraverso i propri storici che le genti di lingua romena abbiano sempre abitato il territorio della Romania e non viceversa, come sottolineato nelle versioni ufficiali, che spiegano come i romeni siano discendenti dal ceppo dei valacchi sviluppato in forma molteplice a sud del Danubio (Malcolm 1999: 57). A riprova

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Falco, Gianluca, Serbia-Romania: i valacchi sulla strada per l'Europa, <<Osservatorio Balcani e Caucaso - Transeuropa>>, 09/03/2012, balcanicaucaso.org.

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dell'importanza fondamentale assunta dal sentore individuale di ciascun erede dell'antica popolazione romanizzata, vi è il censimento del 2011 che chiarisce come nell'intera Serbia i dichiaranti l'appartenenza valacca ammontino a 35.330, mentre i parlanti la lingua valacca siano addirittura 43.09552. Questa differenza lascia intendere che il numero degli appartenenti all'etnia potrebbe essere in numero maggiore e ciò si spiegherebbe con il processo di assimilazione attivo tramite matrimoni misti o con la diffusione del sentimento nazionale serbo, oltre al fatto che fino a pochi anni fa l'essere valacco era considerata una qualità poco prestigiosa, uno status di scarso rilievo, come testimoniato anche nel primo intervento di Dragan, intendendo una persona chiusa nella dimensione rurale e lontana dal mondo moderno dei centri e dei capoluoghi in cui vivevano i serbi, con il risultato di una disaffezione nei confronti del sentimento di appartenenza specie tra i giovani. Per azzardare un paragone, la stessa considerazione che nell'Italia del boom industriale avevano i contadini e i lavoratori impegnati nel settore primario della provincia e che continuarono a mantenere fino alla recente “riscoperta” e diffusione della sensibilità nei confronti delle tradizioni e

dell'ecologia nel nostro paese.

Tuttavia, la contrapposizione tra serbi e valacchi può essere osservata nella dimensione macro in madrepatria poiché, da quanto esperito durante la mia ricerca sul campo, nella vita quotidiana a Vicenza ho potuto registrare un fitto scambio. Lo stesso Dragan, che fieramente si ritiene valacco, è membro di una delle numerose associazioni culturali serbe in provincia, dal nome eloquente Vidovdan, le quali spesso promuovono balli folkloristici che spaziano per le diverse aree di influenza dei Balcani, tra cui quella popolata

dai valacchi.

Lasciando da parte le rivendicazioni politiche e i riconoscimenti identitari, va notato ciò per cui si distinguono i valacchi dai serbi ossia, oltre che per la lingua, per la ritualità che ancora oggi risente dell’inclinazione pagana. Si può parlare in alcune occasioni di sincretismo, come per la Pasqua. Dragan dà conto di particolari usanze per festeggiare il rito cristiano della Pasqua: “Si prende una foglia di ortica in mano, un uovo tagliato a metà, con la scorza colorata e un bicchiere di vino rosso. E fai il segno della croce e

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benedici il figlio che cresce bene e che studia bene. Se siamo contadini io benedico mio figlio che lavora i campi, se c'è l'animale benedico pecore e mucche, io benedico mia moglie e mia moglie benedice me, benedico i famigliari e i miei famigliari benedicono me, e poi si gira tre volte su sé

stessi, in senso antiorario”.

Le uova colorate per il giorno di Pasqua sono una pratica usuale nell'ortodossia serba, tuttavia la pratica di girare su sé stessi dopo aver augurato la prosperità per i propri cari esula dai dettami del Patriarcato. Il valacco di Neresnica poi procede a spiegare come il cibo preparato per la festività vada simbolicamente destinato al “Pasquo”, al dio di Pasqua, mentre un'altra parte venga indirizzata al mondo dei morti. Dragan dà inoltre testimonianza della pratica del “malocchio”, cui è ancora dato del credito in quell'angolo d'Europa: “Ci sono delle donne che noi non chiamiamo “streghe”, che ti possono fare il malocchio. Puoi finire sotto una macchina, diventare matto, farti del male”. Esiste però una specifica ritualità per identificare i casi in cui si tratta di malocchio: “Prendono delle braci, prendono un vaso di acqua, benedicono l'acqua, ci mettono le braci. E quel carbone messo in acqua, se affonda vuol dire che stai male, che qualcuno ti ha fatto del male, ti ha lanciato il malocchio. Se invece questi carboni galleggiano vuol dire che nessuno ti ha fatto del male. E che quindi non devi curarti da questo malocchio, da quello che una donna o un nemico ti ha fatto, anche per gelosia”. Particolare rilievo nelle usanze valacche assume il culto dei morti. La ritualità in serbo è definita Dacia, mentre in valacco si usa il termine Pomana. Si tratta di una serie di riti cadenzati nell’arco di sette anni, per ricordare il defunto a partire dal momento del decesso, partendo dal principio che esista un collegamento tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi. Dragan lo descrive in questo modo, intendendo per “riunione” il

ritrovo tra famigliari e paesani:

“Quando uno muore, dopo ventiquattro ore lo seppelliscono, però la sera fanno lì una riunione, una cena, in cui si beve e si mangia. Dopo quaranta giorni si fa un'altra riunione, e si prepara un tavolo con del mangiare anche per il defunto. Perché si dice che, dopo che uno muore, nei primi quaranta giorni la sua anima è ancora tra noi, ci osserva, ci guarda, ci vede; non

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abbandona questo mondo, è ancora tra noi, ma noi non lo vediamo; è come uno spirito. Qualcuno durante quei quaranta giorni sente rumori strani, qualcuno che cammina, sul soffitto o sulla mansarda, o vede di notte qualcosa di strano.. Dopo quaranta giorni si fa lo stesso una riunione, di famigliari o amici, e si prepara da mangiare. E ci sono donne che appositamente preparano e mandano “all'al di là” – dalla persona morta - del cibo, che viene messo sul tavolo e benedetto. Poi si ripete dopo sei mesi, e dopo un anno. A metà anno e a un anno dalla morte si prepara anche un tavolo lungo, in cui si “da” da mangiare non solo per il defunto, ma anche per i morti della famiglia: si manda anche a loro da mangiare, si arriva fino al grado dei nonni, conosciuti nella vita o che si vuole ricordare..”. Il mondo dei vivi, nel contempo, deve attenersi a uno specifico codice di comportamento:

“Per quanto riguarda le donne, deve venire una bambina vergine, che deve andare a un torrente per mandare acqua al defunto.. I maschi non tagliano la barba per quaranta giorni, qualcun altro indossa una placca nera. E quando si arriva a quaranta giorni ci si rade e si tagliano i capelli. È un segno, un rituale per il quale come tu ti radi, anche il morto deve radersi con te.. Dopo i sei mesi si indossano i vestiti del defunto. Dopo si benedicono e si mandano alla persona defunta. Il maschio della famiglia se il defunto è maschio, la femmina se si tratta di una femmina. Dopo un anno

i vestiti del defunto si possono dare via”.

Trascorso un anno dal decesso il rito di ritrovarsi per ricordare il defunto assume cadenza annuale fino al settimo anno, in cui per l’ultima volta il mondo dei vivi invia del cibo al defunto. La connessione tra il mondo dei morti e dei vivi diviene altresì evidente quando a morire è una persona giovane e non sposata. In questo caso assieme al funerale viene celebrato un matrimonio simbolico: un ragazzo o una ragazza vengono presentati per la veglia funebre. Me lo racconta Vladisa Buzejić, serbo-valacco custode e operaio presso l’azienda Sipe di Lonigo. Quarantanove anni, originario di Bukovska, mi spiega come questa ritualità racchiuda dei risvolti pericolosi, perchè nel caso il defunto rimanga insoddisfatto potrebbe voler portare con sé alcuni giovani dal mondo dei vivi, finchè non avrà trovato il corrispettivo ideale. È il caso di una serie di

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lutti ravvicinati avvenuti una quindicina di anni or sono nel territorio della vicina Kučevo. Perì una ragazza, ma nei mesi successivi diversi altri giovani del paese improvvisamente persero la vita, la maggior parte in incidenti stradali. L’interpretazione data fu qualcosa che suonò come una maledizione: “La ragazza, sepolta con il vestito da sposa, va in cerca dello sposo, e finché non trova quello giusto moriranno tante persone.. Tutto portava a quella maledizione, iniziata con la sepoltura della ragazza”. Un ulteriore elemento che contraddistingue la tipicità valacca e manifesta la distanza ridotta dal mondo dei morti lo si può riscontrare attraverso i luoghi fisici della sepoltura: nei villaggi, le chiese e i cimiteri in genere sono assenti, i morti vengono seppelliti nel terreno di proprietà. Così, durante un tour lungo la Serbia orientale può accadere non di rado di imbattersi in case di campagna che presentino delle tombe situate vicino il muro di cinta o sul

prato circostante.

Vladisa procede poi a raccontare una curiosa modalità in uso nel proprio paese per chiedere se si è capaci o meno di parlare la lingua valacca. La formulazione della domanda varia a seconda dell’interlocutore che si presume di avere di fronte: se si tratta di un valacco, gli si chiede se è in grado di parlare il romeno; quando la domanda è rivolta a un serbo gli si chiede “znas vlaški?”, ossia “sai parlare il valacco?”. Da questa differenza si evince il legame linguistico e culturale che la minoranza presenta nei confronti dei rumeni, tanto è vero che il proprio endonimo è “Rumînji”, mentre l’identificazione con “Vlasi” (valacchi) è di derivazione serba. Questo, come già sottolineato in precedenza, può divenire oggetto di dibattito politico. Va osservato, tuttavia, come dal 1991 (anno del crollo della Jugoslavia) incrementò il numero di coloro i quali si riconoscevano come “valacchi”, registrando un sempre più ampio divario nei confronti di chi sceglieva l’opzione “rumeno”; le cifre riportate nel censimento del 2001 parlano chiaro: 39.953 valacchi e 4.157 rumeni53. Nella regione ora vige il bilinguismo anche se il “vlaške” è sempre meno parlato dai giovani, ma soltanto pochi decenni or sono rappresentava l’unica lingua per le zone rurali della Serbia orientale. Il caso di Vladisa è emblematico per la sua generazione, l’uomo giunse al primo incontro con la

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lingua serba solamente tra i banchi di scuola: “Io quando sono andato a scuola non sapevo un tubo, se uno mi chiedeva come mi chiamavo riuscivo a rispondere in serbo, ma non sapevo dire nient'altro, conoscevo solo il

Vlah. Il serbo l'ho imparato a scuola”.

La lingua valacca è attualmente inserita dall’Unesco tra le lingue in pericolo, classificata come “Definitely endangered”, “decisamente in pericolo”54

. A causa dei processi storici che hanno avviato la recente migrazione dall’ex Jugoslavia, oggi nel retroterra culturale di molti serbi presenti in provincia di Vicenza possiamo rintracciare una ricchezza implicita per ciò che concerne il patrimonio immateriale, che riporta in epoca contemporanea dei caratteri ancestrali, discendente di quello che in molti definiscono il popolo più antico dei Balcani ma nei confronti del quale soltanto in rari casi i vicentini presentano una benché minima conoscenza.

5.4 – Il caso di una famiglia “mista” serbo-valacca

Incontro i coniugi Martinović in un giorno di inizio maggio 2019. Ho avuto modo di conoscerli durante le numerose feste folkloristiche che si tengono nella nostra provincia. L’intenzione di intervistare una coppia di persone venute dalla Serbia rivela presto una sorpresa inaspettata: si tratta di quella che potremmo definire una coppia “mista” serbo-valacca. Entrambi provengono dell’area a ovest della Timočka Krajina, nel distretto di Braničevo; Nenad ha origine nelle zone rurali, il villaggio valacco di Srpce, mentre Svetlana proviene dal centro di Kučevo, popolato dai serbi. Quarantaquattro anni lui, quarantadue lei, vivono con i figli Andjela e Kostantin nella loro casa di Altavilla Vicentina e sono occupati in paese presso la nota azienda Morato, produttrice di pane. Nenad mi racconta della sua terra di provenienza come di una zona depressa, dove “Diversamente da altre parti della Serbia, la mia zona è rimasta come una volta”. Una serie di villaggi in cui l’occupazione caratterizzata per lo più dal lavoro nei campi e da cui partirono molti valacchi prima della guerra degli anni ’90, (che potremmo dunque far rientrare nella prima ondata migratoria, anche se solamente in pochi

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raggiunsero l’Italia). Li muoveva non tanto la fame, poiché nelle zone rurali tra agricoltura e allevamento riuscivano a ricavare di che nutrirsi, ma per sfuggire alla vita grama che contraddistingueva la quotidianità dei contadini

in quell’angolo di mondo. Spiega Nenad:

“Non sono partiti dalla povertà assoluta dove non avevano da mangiare, ma da una vita difficile, una realtà contadina, dove i lavori erano tutti a mano. Il principale sogno di ognuno che è andato all'estero, in Italia, Francia, Germania, Belgio, era di fare le case per i propri eredi e tornare indietro.. Nessuno comprava le case all'estero, tutti volevano tornare. È stato un boom negli anni '80, in tutta l'ex Jugoslavia, fino all' '83-'84, con la

conseguente crescita del Pil”.

Secondo quanto riportato nell’intervista, particolarmente negli anni ’80 in Serbia orientale si ebbe un boom di nuove costruzioni che andarono a soppiantare le tradizionali case di fango balcaniche. Ciò avvenne a seguito dell’elevato potere di acquisto ottenuto da coloro i quali erano andati a lavorare all’estero, che nella maggior parte dei casi disponevano di una valuta forte da investire in madrepatria, come per i Gastarbeiter in Germania. Si trattava di gruppi di persone che al massimo avevano conseguito il diploma elementare, che partivano verso Occidente lasciando a casa i figli, custoditi dai nonni, “perché volevano che i figli rimanessero sulla loro terra di origine”. Fu così che molti di quei giovani appresero il vlaški, la lingua tradizionale, presentandosi alla scuola elementare senza conoscere il serbo-croato, la lingua ufficiale jugoslava. Questa dinamica cambiò radicalmente a partire dall’inizio degli anni ’90: “Né io né Svetlana oggi faremmo una cosa del genere, di venire qua e lasciare Andjela e Kostantin a vivere con i nonni”. Gli effetti del crollo della Jugoslavia resero i periodi di soggiorno all’estero definitivi anche per molti valacchi espatriati

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