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Da popolo in diaspora a modello di integrazione. Life-histories della comunità serba di Vicenza

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Academic year: 2021

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1 Alla memoria

di Lino “Fiuri” Cracco, che nel 1943 attraversò la Serbia e di Boris Pajić, che dalla Serbia giunse molti anni dopo.

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RINGRAZIAMENTI

Per questo lavoro ci tengo a ringraziare tutte le persone che in qualche forma mi hanno sostenuto durante la realizzazione della ricerca etnografica.

In primis la mia famiglia, senza la quale il mio percorso di studi non sarebbe stato possibile. Valentina Dal Grande, la mia più grande motivatrice. Andrea Dal Bosco, una sorta di relatore

“aggiunto” che annovera una ventina di viaggi in ex Jugoslavia a partire dall'immediato dopoguerra. Gli insegnanti che ho incontrato durante il mio percorso di studi all’interno del corso di laurea magistrale in Antropologia culturale, etnologia, etnolinguistica presso l’Università Cà Foscari di Venezia.

I miei accompagnatori per i due viaggi nei Balcani del 2018, rispettivamente in Dalmazia e in Serbia, Kosovo, Macedonia utili a creare una ricognizione su alcune tematiche trattate in questa tesi. Rispettivamente: Bob Lambert; il già citato Andrea Dal Bosco e Stefano Bertoldo.

Inoltre, tutte le persone che, nell'arco dei nostri itinerari, ci hanno dato ospitalità o appoggio: In Croazia: Nikola Zelenović di Civljane.

In Serbia: Sasa Marjanović di Porodin; Zeljko Marjanović di Sena; la famiglia Ristić di Sena; la famiglia Milošević di Kučevo; la famiglia Mitić di Donji Milanovac; la famiglia Janković di Voluja; la famiglia Čaranović di Jasikovo; la famiglia Jovanović, titolare del Restoran Dms Narcis a Lebane; la famiglia Mitrović di Konjino.

In Kosovo: la famiglia Petrović, titolare della Vinica Petrović nell'enclave di Velika Hoča e un grazie a Dejan Kusalo per averci fornito il loro contatto.

In Macedonia del Nord: la famiglia Trpeski, titolare dell'alloggio Al Sole e Blagoj Hristov a Ohrid; e un grazie a Venko e Vase Trpeski per averci indirizzati dal trentino.

Alcune altre persone che, ciascuna a modo proprio, hanno dato un contributo alla realizzazione del mio lavoro: Anna Cracco, Christian Parlato, Giacomo Rosa, Sarika Strobbe, Massimiliano Cracco, Gloria Fioravanti, Mauro Borin e Olivera Rasović, Alberto Morbin, Sveva Noaro, Michele Franco, Mario Zorzi, Maurizio Marioni, Argent Lumi.

Un ringraziamento speciale a tutti i miei intervistati per la loro disponibilità: Aleksandar e Ivan Spasov; Aleksandar Marijoković e Marina Milanović; Bojan Jovanović; Damir Ristić; Dejan Mitić; Diana Zivanović; Dragan Janković; Gradimir Stević; Ivana Marjanović; Jelena Glisić; Lazar

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Ivanović; Marina Janić; Marko Durlić; Miloje Durlić; Miloš Stojković; Mirjana Pavlović; Nebojša Aksić; Nenad e Svetlana Martinović; Olgica Krstić; Rada Rajić Ristić; Radomir e Olivera

Mihajlović; Slavko e Kristina Grabovac; Slobodanka Olar; Snežana Petrović; Stefan Sekulić; Stevan e Dušanka Jovanović; Stojan e Jelena Novaković; Tatjana Savčić; Titomir Gasić; Vladimir Ignjatović; Vladisa Buzejić; Zivomir Ilić.

Infine, un grazie al negozio balcanico Naša Prodavnica di Montecchio Maggiore, che fin dal principio è divenuto una preziosa fucina di contatti, all'associazione Sskud Vidovdan di Meledo e agli amici di tutte le altre associazioni serbe del vicentino.

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INDICE

INTRODUZIONE 10 CAPITOLO 1 METODOLOGIA DI RICERCA 13 CAPITOLO 2 LA CLASSIFICAZIONE DI TRE DIFFERENTI EPOCHE DI MIGRAZIONE 20

2.1 - “Tamo daleko”: l'irrefutabile idea del ritorno alla terra natìa 23

Gradimir Stević nella valle del Chiampo dagli anni '70 2.2 – Come abbiamo visto cambiare gli italiani negli ultimi trent'anni 25

La famiglia Jovanović nell'alto vicentino tra gli anni '80 e '90 2.2.1 - La prima volta in Italia come operai irregolari 26

2.2.2 - Ospiti inattesi a Provo: italiani in Jugoslavia 29

2.2.3 - Fine estate 1981: il ritorno di Stevan 30

2.2.4 - La naja in Macedonia nel 1983-1984 32

2.2.5 - L'insediamento definitivo nell'alto vicentino dal 1989: un meccanismo di solidarietà rurale 33

2.2.6 - Gli anni '90 in Italia durante la guerra di Jugoslavia 35

2.2.7 - Come gli stranieri hanno visto cambiare gli italiani 37

2.3 – Due storie parallele dal Kosovo, passando per la Serbia Centrale 38 Nebojša Aksić nel '90 e i coniugi Mihajlović a inizio 2000

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2.3.1 - Da Srpski Babuš a Montecchio Maggiore, passando per Kraljevo e Göteborg 39

2.3.2 - Da Prizren e Zočište a Castelgomberto via Kragujevac 44

2.4 - La fuga agli albori della guerra in Bosnia 46

Damir Ristić a Vicenza nel 1992 2.4.1 - La vita nella Bosnia pre-conflitto: un background cosmopolita 47

2.4.2 - Il servizio militare nei nuclei antiterrorismo di Belgrado 48

2.4.3 - Marzo 1992: fuga dalla Bosnia Erzegovina 50

2.4.4 - L'esperienza in Germania e l'arrivo in Italia 52

2.5 - “L'unico della mia generazione che è andato a vivere all'estero sono io” 54

Vladimir Ignjatović a Vicenza nel 2001 2.5.1 - Gli ultimi anni sotto la Repubblica Federale di Jugoslavia 54

2.5.2 - L'esperienza all'Accademia Militare di Belgrado e l'insorgere dei nazionalismi 56

2.5.3 - Anni di crisi economica e i bombardamenti Nato 58

2.5.4 - L'impossibilità di un futuro in Serbia 59

CAPITOLO 3 ANALISI DEI PROCESSI DI INTEGRAZIONE 62

3.1 – Un “Self-made man” in città 68

Aleksandar Spasov, incisore orafo a Vicenza 3.1.1 - In viaggio verso ovest, con il sogno di raggiungere gli States 70

3.1.2 - L'inizio della vita in Italia: un susseguirsi di soluzioni precarie 71

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3.1.4 - I genitori a Belgrado sotto le bombe della Nato 76

3.2 – Due modalità di riproduzione della tradizione serba in provincia 77

Dejan Mitić: titolare del negozio “Naša Prodavnica” di Montecchio Maggiore e presidente dell'associazione “Vidovdan” di Meledo 3.2.1 - Le prime sistemazioni e i primi impieghi 78

3.2.2 - La regolarizzazione dei documenti e la stabilità lavorativa 79

3.2.3 - Il “Naša Prodavnica” e le associazioni di folklore serbo 81

3.3 – La fiducia come elemento necessario nei rapporti con l'in-group 84

Olgica Krstić: badante nel vicentino 3.3.1 - La necessità di emigrare pochi mesi prima dei bombardamenti 84

3.3.2 - La ricerca del lavoro: il sistema del “passa parola” 85

3.3.3 - La mancanza di relazione con i connazionali 86

3.4 – Fratello e sorella: due versioni opposte di integrazione 87

Vladimir Ignjatović: impiegato nelle spedizioni ad Altavilla Vicentina e la sorella, rientrata in Serbia 3.4.1 - L'Italia: un paese dove fare i conti anche con lo stereotipo 87

3.4.2 - Un primo impiego duraturo 88

3.4.3 - Il passaggio al settore delle spedizioni 90

3.4.4 - L'esperienza traumatica della sorella 91

3.5 - Giovani migranti della prima generazione 92

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3.5.2 - Il riempimento di un “vuoto occupazionale” 96

3.5.3 - Il lavoro come modalità di relazione con la madrepatria 100

3.5.4 - L'istruzione come strategia di reazione al displacement 104

CAPITOLO 4 TRATTI DISTINTIVI DELL'IMMAGINARIO SERBO 108

4.1 - L'approccio all'inesorabile flusso del mutamento: quando l' “occidentalizzazione” è negativa 110

4.2 – Il legame con la tradizione: i Serbi con la “S” maiuscola 114

4.3 - Analisi del concetto di “autenticità” della cultura: chi sono i “veri serbi”? 116

4.4 - L'elemento religioso nel processo di organizzazione dell'identità 124

4.5 – L’elaborazione in divenire del passato: “noi” serbi 129

4.6 - L'irrinunciabile culla di una storia mitica: Kosovo “Gerusalemme serba” 133

4.7 - Da luogo della memoria collettiva a paesaggio intimo negato 147

CAPITOLO 5 PROSPETTIVE E DIVERGENZE INTERNE ALLA COMUNITÀ 162

5.1 - Serbi con la “S” minuscola? Il caso di due donne della Vojvodina 164

5.2 - Una possibile suddivisione di genere all'interno delle famiglie 171

5.3 – Una peculiarità degli immigrati della Serbia orientale: l’appartenenza valacca 175

5.4 – Il caso di una famiglia “mista” serbo-valacca 183

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5.6 - Il peso del vissuto traumatico sulla quotidianità: testimonianze del fronte serbo-croato

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5.7 - Il peso del vissuto traumatico sulla strada della convivenza 206

5.8 – L'idea del ritorno in madrepatria 211

5.9 - Il punto di vista delle giovani generazioni 220

5.9.1 - Le percezioni del figlio di un oppositore al regime di Milošević 221

5.9.2 - “Un serbo con la faccia da turco” 225

5.9.3 - La prospettiva dei nipoti sul legame con la madrepatria 230

5.9.4 - Un'analisi del grado di integrazione dall'interno della comunità 236

5.9.5 - Quando storia e passione sportiva si intrecciano 239

CAPITOLO 6 RIPRODUZIONE DELLA TRADIZIONE SERBA SUL TERRITORIO VICENTINO 243

6.1 – Nascita e sviluppo della comunità serbo-ortodossa di Vicenza 244

6.2 – Il fenomeno dell'associazionismo 250

6.2.1 - Focus su un'associazione della nostra provincia: la Srpska kulturna zajednica 255

"Arzignano" 6.2.2 - L' “Unione dei Serbi in Italia” 259

6.3 – La scuola serba “Sveti Sava” 262

6.4 – Alcune espressioni artistiche del patrimonio immateriale serbo 269

6.4.1 - La danza tradizionale del kolo: un modo di “essere” nei Balcani 269

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6.5 – Censimento dei locali etnici nel vicentino 281

CAPITOLO 7 CONCLUSIONE: L’EDUCAZIONE ALLA COMPLESSITÀ 284

BIBLIOGRAFIA 287

ARTICOLI DI GIORNALE 291

PAGINE CONSULTATE SUL WEB 291

SITOGRAFIA 295

FILMOGRAFIA 296

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INTRODUZIONE

La ricerca che intendo sviluppare nasce dal desiderio di dare maggiore visibilità a tutte le collettività straniere che nell'ultimo trentennio hanno sempre maggiormente riempito le nostre città. Tra tutte le collettività che popolano il vicentino quella serba è numericamente una delle più consistenti. La vicinanza geografica e per certi versi la comunanza storica rappresenta un fattore determinante per la scelta del nostro paese da parte di famiglie costrette per ragioni economiche e politiche, quando non di sicurezza, a lasciare le proprie case e la propria

terra, spesso in via definitiva.

Dei flussi migratori la gran parte della gente non presenta una conoscenza approfondita, se non l'impatto spesso mal digerito che produce l'arrivo di persone in fuga dalla propria terra. Il punto di vista di chi accoglie o respinge è ben diverso da quello di colui che desidera essere accolto e integrato nella realtà ospitante. Forse i nostri avi costretti dalla scarsità d'occupazione, che fino a metà del 1900 ha caratterizzato l'Italia, potrebbero capire cosa significa abbandonare la propria terra, consci delle criticità e delle umiliazioni da affrontare per poter gradualmente essere accettati in un nuovo contesto. I pregiudizi che i paesi benestanti nutrono nei confronti dei migranti sono spesse volte infondati e le motivazioni che inducono a riconoscere come destabilizzante e pericoloso un individuo economicamente debole sono sempre più oggetto di manipolazione politica, fondando le proprie basi sulla mancanza di conoscenza del nuovo che viene ad inserirsi nel pre-esistente. Il migrante per forza di cose è costretto a imparare gli usi e le abitudini del nuovo contesto, l'ospitante invece può limitarsi semplicemente ad essere pregiudiziale, non compromettendosi né sforzandosi di trovare un utile punto d'incontro o di mediazione. Il vecchio per quanto deprecabile è pur sempre un elemento di certezza e di pseudo-sicurezza, il nuovo può profilarsi come un vantaggio ma presuppone una componente di messa in discussione e di rischio che un buon numero di

persone non è disposto ad accettare.

Il mio lavoro non intende ovviamente liberare da pre-concetti la società, sarebbe uno sforzo ciclopico e probabilmente infruttuoso, ma intende per

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quanto possibile presentare la lettura dei nuovi contesti pluri-etnici che sempre più e irreversibilmente stanno trasformando la nostra società, partendo dagli occhi di coloro che hanno volentieri o a malincuore lasciato il proprio paese di origine. A tal proposito ho scelto di riferirmi alla collettività serba di Vicenza, che in questo territorio influisce sensibilmente con un cittadino straniero su dieci1. Risulta dunque facilmente deducibile quanto sia ampio il numero di interazioni quotidiane tra i locali e questa importante componente, sia nel mondo del lavoro, all'interno delle fabbriche del settore produttivo e nei cantieri, come per i più giovani nelle scuole, dove le classi “miste” sono una realtà sempre più consolidata o, ancora, nei rapporti personali che si possono venire a creare secondo le più svariate modalità. Si conosce ancora poco, tuttavia, delle vicende che hanno caratterizzato il vissuto di queste persone e della loro prospettiva su una realtà in cui si sono insediati e della quale, dopo un trentennio, sono divenuti parte integrante. La mia ricerca etnografica mira a far luce su queste dinamiche, con l'auspicio di configurare un quadro di questa collettività che possa contribuire allo scambio e al dialogo tra popolazione locale e straniera nella nostra provincia. Nel contempo, con la realizzazione di questo primo approfondimento sui serbi di Vicenza, coltivo la speranza di poter costituire una base generale per eventuali futuri studi in quest'ambito. La ricerca è scomponibile in tre livelli: l'esperienza, le rappresentazioni, le pratiche. Innanzitutto, attraverso il supporto delle life-histories, nei capitoli 2 e 3 si tratterà rispettivamente del fenomeno migratorio dalla Serbia all'Italia e delle modalità di integrazione all'interno della società maggioritaria. Sono distinte le epoche e gli itinerari che hanno caratterizzato il viaggio di ciascuno per giungere lontano dalla crisi economica e dagli eventi bellici, così come sono variegate le modalità di inserirsi nella nuova realtà.

In secondo luogo, nel capitolo 4 si analizzerà la percezione identitaria per cercare di comprendere come i serbi rappresentino sé stessi nell'arena del confronto con l'alterità; nella sezione successiva, tuttavia, si provvederà a realizzare un focus all'interno della comunità in diaspora, considerando alcuni casi che rivelano come essa sia configurata in base a dinamiche che la

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rendono un'entità tutt'altro che uniforme, bensì come un insieme carico di complessità.

Nel capitolo 6 passeremo all'osservazione delle pratiche di riproduzione della tradizione serba sul territorio vicentino: attraverso la volontà di cooperazione e l'associazionismo è stato alimentato negli anni uno straordinario fermento espressivo, che porta la provincia berica a rappresentare lo scenario per un caso forse unico tra tutte le comunità di serbi lontani dalla madrepatria. Infine, il capitolo 7 sarà dedicato alle conclusioni.

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13 CAPITOLO 1

METODOLOGIA DI RICERCA

Premessa: in questo capitolo verranno indicate le modalità utilizzate per svolgere questa ricerca. In tal senso, particolare importanza hanno rivestito le interviste a seguito delle quali strutturare il ragionamento.

La presenza dei serbi in Italia, eccezion fatta per la longeva comunità di Trieste, è un fenomeno che solo di recente ha acquisito proporzioni consistenti. L'immersione nel contesto vicentino ha rappresentato un'operazione inedita, che rende a questa ricerca un carattere pionieristico. Ciò ha comportato alcune criticità nell'individuare un modus operandi appropriato, data soprattutto l'assenza di riferimenti bibliografici specifici per il nostro caso. L’opera The past in exile di Birgit Bock-Luna ha costituito in tal senso un raro termine di paragone, utile per confrontare le dinamiche inerenti al nostro campo di studio con la di più antica comunità

situata a San Francisco.

I serbi rappresentano il 10,9% della popolazione straniera in provincia di Vicenza2. Questa percentuale si abbassa notevolmente se si allarga il contesto all'intera regione Veneto (2,7%) e alla nazione italiana (0,73%). Tale specificità del capoluogo berico vede i serbi come la seconda componente straniera sul territorio, numericamente inferiore soltanto ai romeni (17,6%). Il censimento del 2019 ne registra ufficialmente 9.002, una tendenza in ribasso rispetto ai picchi degli anni precedenti, come gli 11.343 del 2014, ma va osservato che nel riscontro attuale non sono inseriti quei cittadini che hanno conseguito la cittadinanza italiana, esclusi di fatto dalla categoria degli “stranieri” oltre a coloro i quali sono presenti nel nostro

paese senza un regolare permesso.

Considerata l'assenza di riferimenti bibliografici peculiari e la massiccia presenza di questa popolazione balcanica nel vicentino, la scelta della metodologia per questo elaborato è ricaduta sull'esperienza diretta nei suoi vari aspetti e l’organizzazione di una serie di interviste da cui poter ricavare le life histories finalizzate a rappresentare la situazione attuale dei serbi a

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Vicenza. L'approccio qualitativo è stato supportato da una ricerca etnografica che si è diramata in diverse situazioni. In primis, la frequentazione della parrocchia serbo-ortodossa di Sveti Luka e dei locali etnici, grazie a cui sono sorti i primi contatti. In seguito, la collaborazione con le associazioni culturali, sportive e di folklore, l'organizzazione e la partecipazione ai numerosi eventi promossi dalle diverse entità, nell'arco dei quali instaurare una rete di relazioni utile per individuare, secondo il personale arbitrio, i soggetti da intervistare. Va sottolineato che la scarsità di ricerche sui serbi in diaspora è stata controbilanciata dall'entusiasmo riscosso tra i miei interlocutori e dalla tradizionale apertura relazionale di questo popolo, sempre disposto a collaborare e a proporsi per incrementare la lista dei contatti e fornire occasioni di approfondimento su varie tematiche, riguardanti sia vicende personali che più in generale i processi migratori e la storia recente della madrepatria. Il carattere pionieristico della mia ricerca ha così posto un'ulteriore questione: quella di riuscire a mantenere un filo logico tra gli svariati argomenti che di volta in volta emergevano durante gli incontri, al fine di elaborare dei concetti ben strutturati e una chiara restituzione della collettività.

Il fattore linguistico ha rappresentato invece un'importante agevolazione dal punto di vista comunicativo, poiché mi sono trovato a interagire con soggetti che a seguito di un lungo periodo nella nostra regione o addirittura nati in Italia disponevano di una sufficiente competenza linguistica dell'italiano e in molti casi anche del dialetto veneto. Un ulteriore supporto dal quale ho tratto beneficio per la realizzazione di questo lavoro è costituito dall'insieme di esperienze ricavato nel 2018, durante due viaggi in ex Jugoslavia. Il primo è stato effettuato in aprile, al tempo della Pasqua ortodossa; è durato solamente quattro giorni, ma ha permesso a me e al mio compagno di viaggio Bob Lambert, un professore inglese che vanta una spiccata confidenza con il mondo balcanico, di addentrarci nella zona delle Krajine, la Dalmazia interna un tempo ad elevata densità serba, dove nel 1991 sfociò il conflitto serbo-croato. In questo contesto abbiamo potuto soggiornare a casa di Nikola Zelenović, un pastore del villaggio di Civljane, a pochi chilometri dalla città di Knin

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(ribattezzata dai croati “Tenin”). Nikola visse la drammatica esperienza del conflitto, a seguito della quale si trasferì per qualche anno in Veneto, divenendo abituale frequentatore della chiesa ortodossa di Vicenza, prima di ritornare a far parte dell'ormai sparuta minoranza serba rimasta nella zona dove un tempo erano stati istituiti i Confini Militari degli imperi asburgici e ottomani. La conoscenza con quest'uomo ci ha permesso da un lato di approfondire la sua vicenda personale, intrecciata saldamente alla storia recente dell’ex Jugoslavia; inoltre, ci è stato possibile inserirci nella comunità in occasione della Pasqua ortodossa, celebrata solennemente nel monastero di Dragović, situato tra il fiume Cetina e le aride montagne al confine con la Bosnia Erzegovina. Nell'estate successiva ho condotto un tour di venti giorni in Serbia, accompagnato dall'esperto ex volontario di Operazione Colomba Andrea Dal Bosco e dall'amico Stefano Bertoldo. In quest'occasione l'itinerario è stato organizzato secondo la volontà di toccare le principali regioni di provenienza per i serbi del vicentino: l'area orientale e meridionale del paese. Il viaggio si è protratto poi in direzione sud attraversando il Kosovo, la terra mitica dei serbi, permettendoci di saggiare la dura realtà delle enclave ed è terminato in Macedonia del Nord, sulle rive del lago di Ohrid. Per questa seconda esperienza sono risultati fondamentali l'appoggio logistico e l'ospitalità dei nostri “concittadini” balcanici, ritornati al villaggio natìo per trascorrervi le ferie d'agosto. Riuscire ad incrociare nozioni di storia e un'infarinatura geografica relativa alle regioni di provenienza dei serbi del vicentino si è rivelato un valore aggiunto da spendere nelle interviste, al fine di approfondire alcune tematiche quali le condizioni dell'espatrio e l'organizzazione dell'immaginario, ma anche di chiarire alcuni processi interni alla collettività, come quelli che hanno favorito l'insediamento in alcuni determinati centri della nostra provincia e le dinamiche che regolano i rapporti tra gli immigrati e le associazioni.

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I due capitoli che seguiranno, concernenti rispettivamente l'emigrazione e l'integrazione, si basano quasi interamente sulle life histories raccolte nelle interviste. Per il successivo, focalizzato sull'immaginario serbo, sono invece risultati fondamentali alcuni strumenti antropologici appresi partecipando ai corsi durante la mia esperienza universitaria. Il materiale raccolto dalle interviste torna nuovamente indispensabile nei capitoli 6 e 7, per scandagliare le peculiarità e le discontinuità interne al gruppo e per procedere a restituire un quadro delle molteplici attività promosse dal

popolo serbo a Vicenza.

Procedo ora a descrivere le tabelle presenti in questa sezione, con lo scopo di illustrare il materiale attraverso il quale è stata strutturata la ricerca. Ho

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realizzato trentuno interviste tra il novembre del 2018 e il maggio del 2019, molto spesso frutto di più incontri con lo stesso interlocutore, ricavando quasi novanta ore di registrazione, relative a ventinove interviste orali cui si sono aggiunte due per via scritta. Se si escludono i picchi rappresentati dalle conversazioni con Vladimir Ignjatović (quindici ore e mezza) e Vladisa Buzejić (sei ore e mezza) la media di ciascuna intervista si aggira attorno alle due ore e mezza. Talvolta gli incontri hanno raggruppato due persone, marito e moglie oppure una coppia di conviventi; ho considerato così trentanove interlocutori compresi tra i ventitrè e i sessant'anni: ventitrè maschi e sedici femmine. La stragrande maggioranza è costituita da persone della prima generazione di immigrati, ben trentacinque; quattro invece appartengono alla seconda. Tuttavia, se consideriamo i nati a partire dagli anni '80, troviamo ben undici soggetti che figuravano come minorenni all'epoca dell'arrivo in Italia. Quanto alla “provenienza”, è inteso il luogo che ha più significativamente caratterizzato il vissuto di ciascuna persona in Serbia. Il numero prevalente, diciassette, è quello degli originari dalla zona orientale del paese, che a Vicenza costituiscono il gruppo più folto, mentre quattro provengono da occidente, tre dalla capitale Belgrado, altri quattro rispettivamente dalla Serbia meridionale e dal Kosovo. A proposito di queste ultime due regioni, va considerata la vicinanza culturale dei serbi in esse presenti che, non a caso, fa registrare quale fenomeno analogo nel vicentino la massiccia concentrazione di cittadini della Serbia meridionale e del Kosovo lungo la vallata dell'Agno. A questa categoria si aggiungono due cittadini della “mitteleuropea” Vojvodina e cinque della parte serba della Bosnia. Osservando la tabella che indica gli anni di migrazione è facilmente deducibile come l'incremento delle partenze si sia verificato a seguito del crollo della Jugoslavia: a cominciare dal 1990 si assiste infatti a un'impennata degli espatri che prosegue fino ai primi anni 2000. Quanto a riconoscimento giuridico, diciassette persone sono in possesso della doppia cittadinanza, italiana e serba, tre di quella italiana e bosniaca, diciotto sono invece i cittadini serbi e un bosniaco, mentre in quattro sono in attesa della cittadinanza italiana; in un caso troviamo l'aspettativa del riconoscimento serbo. Infine, sottolineo come quasi la metà degli intervistati siano membri di associazioni culturali, sportive e folkloistiche; tra gli interpellati, sei sono

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iscritti a Sloga, con sede a Rossano Veneto e operante tra Vicenza e Bassano, cinque a Vidovdan di Meledo, tre a Sveti Sava di Valdagno, uno ad Arzignano, dove il gruppo ha preso il nome del paese in cui è sorto, un altro ancora a Duga di Montecchio Maggiore. Si registrano anche due membri di un'associazione presente in un'altra regione: Vidovdan Dolomiti-Trentino.

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20 CAPITOLO 2

LA CLASSIFICAZIONE DI TRE DIFFERENTI

EPOCHE DI MIGRAZIONE

Premessa: in questo capitolo verrà dedicato spazio al fenomeno migratorio dalla Serbia all’Italia, prendendo in esame alcuni casi specifici e strutturando una periodizzazione relativa a tale dinamica.

In questo capitolo propongo sei testimonianze tratte dalle storie di singoli cittadini o famiglie di serbi che sono giunti nel vicentino in diverse epoche. Non esiste alcuna documentazione che permetta di rendere dati statistici per quanto concerne i flussi che hanno interessato gli spostamenti di migranti dalla Serbia al territorio berico, tuttavia vorrei qui provare a categorizzare tre diverse epoche, direttamente influenzate dalla storia recente dell'ex Jugoslavia.

Un primo periodo può essere considerato quello della Jugoslavia comunista. Nonostante sotto il governo del Maresciallo Tito il paese rappresentasse un fiore all'occhiello quanto a situazione economica e sociale se confrontato con gli altri paesi del sud-est Europa, rimanevano alcune zone dalle quali, seppure in percentuale minima, alcuni cittadini partirono per cercare un'occupazione all'estero. Si tratta di aree rurali in cui l'industrializzazione stentava ad attecchire, come per le campagne della Serbia orientale da cui partì Gradimir Stević, uno dei primi a raggiungere il vicentino al principio degli anni '70; oppure le zone al confine con la Bosnia, paesaggio nativo per la famiglia Jovanović, che si trasferì nell'alto vicentino nel corso degli anni '80. Fino al tracollo finanziario cui fece seguito il conflitto inter-etnico, le migrazioni in Jugoslavia si registrarono soprattutto all'interno dei confini nazionali, per diverse ragioni, come quelle che interessarono la famiglia Aksic e la famiglia Mihajlović, che in un primo momento migrarono verso le città industriali della Serbia Centrale, alla stessa maniera in cui molti italiani del meridione si insediarono nell’area del triangolo industriale Milano-Torino-Genova. Sia Nebojša Aksić che la famiglia Mihajlović, lasciato il Kosovo tra gli anni '70 e '80 a causa dei problemi che già interessavano la convivenza con la componente albanese, si trasferirono in

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due momenti differenti nel vicentino.

La cesura tra un primo e secondo periodo può essere rappresentata dal break-up jugoslavo, quando le partenze dalla madrepatria si moltiplicarono improvvisamente e i migranti scelsero sempre più l'estero come meta per sfuggire alla guerra. È in particolar modo il caso dei serbi delle Krajine croate e di Bosnia, che costituivano un'identità nazionale posta al di fuori dei confini del proprio Stato. Così Damir Ristić, richiamato nella polizia militare dopo una precedente formazione nei gruppi antiterrorismo di Belgrado, al principio della guerra in Bosnia Erzegovina lasciò Teslić per giungere in un primo momento in Germania e poi in Italia. Ma la guerra dell'ex Jugoslavia si combattè quasi interamente al di fuori dei confini della Serbia, poiché interessò in particolar modo i territori sotto i governi di

Zagabria e di Sarajevo.

Questo dato ci porta ad intuire quanto più risonanti per i serbi siano stati gli effetti della guerra successiva, combattuta in Kosovo contro le forze dell'Uçk albanese e della Nato, entro quelli che erano allora i confini dello Stato serbo. Tale conflitto, seppur di durata inferiore rispetto alla guerra serbo-croata e di Bosnia Erzegovina, causò il bombardamento non solo della regione kosovara, ma anche di importanti città e stabilimenti industriali del resto della Serbia, come a Belgrado, Novi Sad, Kragujevac. Ciò riversò conseguenze drammatiche sulla popolazione all'interno dello Stato serbo, oltre ad infliggere un duro colpo all'economia del paese. In tale contesto è possibile inquadrare il terzo periodo, quello che presenta l’arrivo in massa dei serbi di Serbia a Vicenza, ossia di quei cittadini che non avevano subìto direttamente gli effetti della precedente guerra di Jugoslavia. Questa fase si può considerare originata dai bombardamenti Nato dell' Operation Allied Forces e si protrae per la prima decade del 2000, poiché le conseguenze che ne derivarono costrinsero molti serbi a lasciare il paese anche negli anni successivi. È in una Belgrado lacerata dai bombardamenti che a Vladimir Ignjatović, originario di Šabac, il futuro parve negato e l'unica soluzione plausibile divenne quella di raggiungere la moglie Tanja in Italia. È una Kragujevac segnata dalla medesima catastrofe quella che Radomir

Mihajlović lasciò nel 2001.

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jugoslava, negli anni '90 si affiancò la necessità di sopravvivenza lontano dal conflitto armato, fattore che contraddistinse le partenze della seconda

ondata migratoria.

I percorsi per raggiungere l'Italia variarono da periodo a periodo. Negli anni '70 Gradimir Stević attraversò senza problemi le repubbliche di Slovenia e Croazia, allora comprese nella Jugoslavia; così per Stevan Jovanović. Con l'avvio del conflitto degli anni '90, però, le condizioni cambiarono e ai cittadini serbi fu impedito di attraversare quei territori, costringendoli a un lungo tour per l'Europa centrale che passava attraverso l’Ungheria e l’Austria, viaggiando spesso all'interno di scomodi pullman con l'aria satura del fumo delle sigarette, come testimonia Vladimir Ignjatović. Tale situazione permase almeno fino ai primi anni 2000, quando i governi di Zagabria e Ljubliana tornanoro a permettere il passaggio dei serbi. Così Radomir Mihajlović afferma: “Io e un mio cugino in Trieste, siamo tra i primi serbi ad aver potuto passare in Slovenia e Croazia.. Era il 2003”. Le destinazioni erano spesso legate al fatto di ritrovarvi qualche amico o parente già emigrato precedentemente. Questo spiega la concentrazione di alcuni migranti della stessa provenienza in alcune aree della provincia vicentina e fa dell'Italia non una meta idealizzata ma piuttosto uno scenario in cui insediarsi solo nel caso in cui esso risponda a determinate esigenze di sopravvivenza, arrivandovi talvolta per tentativi: così Nebojša Aksić e Damir Ristić scelsero l'Italia dopo due esperienze negative rispettivamente in Svezia e Germania. La provincia di Vicenza, nei decenni precedenti la crisi del 2008, pullulava di offerte di lavoro in ambiti che in genere la popolazione locale, di fronte alla possibilità di scelta, aveva iniziato ad evitare. Molti serbi vennero progressivamente ad occupare i ruoli rimasti vacanti in diversi settori: dall'edilizia alla concia, dalla lavorazione del ferro ai trasporti. Tale processo si verificò contemporaneamente in diverse aree del nordest: un esempio può essere costituito dal progressivo insediamento

della componente macedone nel trevigiano.

Spesso a partire furono gli uomini di età adulta e, nel caso in cui avessero lasciato in madrepatria moglie e figli, una volta trovata sistemazione in Italia si fecero raggiungere dal resto della famiglia: così per il ricongiungimento degli Jovanović a Seghe di Velo e dei Mihajlović a

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Novale di Valdagno. Non sempre però tale dinamica venne rispettata: ci sono molti casi di donne che lasciarono la Serbia, come per Tanja Vujanović, che si stabilì dai parenti ad Altavilla Vicentina e in un secondo momento fu raggiunta dal marito Vladimir. Può inoltre fungere da esempio il fenomeno delle badanti (in tal senso, nel prossimo capitolo è trattata la

storia di Olgica Krstić).

Nei seguenti paragrafi sono dunque raccolte le testimonianze di Gradimir Stević, che negli anni '70 da Požarevac giunse a Montorso Vicentino; Stevan Jovanović, che durante gli anni '80 si spostò da Šabac ai comuni dell'alto vicentino; due casi di arrivi dal Kosovo in differenti epoche: Nebojša Aksić giunto in valle del Chiampo nel 1990 e Radomir Mihajlović in vallata dell'Agno a inizio del nuovo millennio, entrambi dopo essersi stabiliti precedentemente nella Serbia Centrale; Damir Ristić, che a inizio della guerra lasciò la Bosnia seguendo un itinerario che lo portò a Vicenza; Vladimir Ignjatović, originario di Šabac, che a seguito dei bombardamenti di Belgrado partì per raggiungere il suolo berico.

2.1 - “Tamo daleko”: l'irrefutabile idea del ritorno alla terra natìa

Gradimir Stević nella valle del Chiampo dagli anni '70

All'interno del Naša Prodavnica, il negozio serbo di Alte Ceccato, ho incontrato per la prima volta Gradimir Stević. Un uomo sulla cinquantina, di carnagione scura, l'aria riservata. È nato a Drmno, nei pressi di Požarevac, distretto di Braničevo, nel 1961. I suoi genitori lasciarono le campagne della Serbia orientale nel 1968 in cerca di una vita migliore, quando Gradimir aveva soli sette anni. In un primo momento si recarono in Svizzera, poi arrivarono nella vallata del Chiampo, dove il padre trovò impiego presso la Latteria Albiero di Ponte Cocco, la madre alla Conceria Serenissima di Arzignano. Era il 1972 quando Gradimir lasciò Drmno per raggiungere i genitori. Gli Stević furono tra i primi serbi a raggiungere il suolo vicentino, stabilendosi a Montorso Vicentino quando in Jugoslavia il governo di Tito ancora non aveva intrapreso i meccanismi separatisti avviati con la Costituzione Kardelji. Gradimir frequentò le scuole medie in Italia, poi nel 1982 fu richiamato in madrepatria per svolgere il servizio di leva

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obbligatoria: “Non ti si poteva mettere in regola se non avevi fatto il militare”, dice. Tra l'ottobre del 1982 e l'aprile del 1984 fece parte dello Jna a Kranj, in Slovenia. Terminato quel periodo rimase a Drmno, dove trovò lavoro come guardiano della miniera di carbone del paese, ma quattro anni più tardi, con la grave crisi economica in cui era precipitata la Jugoslavia, decise di rientrare in Italia. Era il 1987, si stabilì ad Arzignano e iniziò a lavorare nella concia, settore in cui ha visto i profondi sconvolgimenti all'interno dell'ambiente operaio, quando a partire dagli anni '90 molti migranti di colore, attratti dalla possibilità di una vita migliore, presero a popolare la valle del Chiampo, sottoponendosi ai lavori più duri per quanto riguarda le fasi del trattamento della pelle. “Gli “extra-continentali” sono arrivati dopo gli anni '90. I primi mori che ho visto, è stato nel '92-'93, ghanesi, lavoravamo insieme in conceria Fratelli Marini. Però quelli lì magari lavorano per pochi soldi, tengono la testa bassa sempre”, afferma Gradimir, che in occasione dell’intervista ritrovo in piazza a Montorso Vicentino. Appena scende dalla sua Peugeot alcuni passanti lo riconoscono e lo vengono a salutare: “A Montorso e a Ponte Cocco mi hanno visto crescere”, dice. “Ci sono persone con le quali ci troviamo, parliamo della famiglia, siamo cresciuti insieme; sono stato fino a 7 anni a Drmno, ma tutta la vita l'ho passata anche a Ponte Cocco”. Gradimir risiede da diversi anni ad Arzignano, ma la sua giovinezza in Italia l'ha trascorsa qui a Montorso, stringendo relazioni con i coetanei del posto e le loro rispettive famiglie, integrandosi nel tessuto sociale di questa cittadina della bassa valle del Chiampo che Gradimir definisce assieme a Tezze di Arzignano come paesi “dal cuore aperto” nei confronti degli stranieri. La sua è un'esperienza di vita che lega a doppio filo i riferimenti in ex Jugoslavia e in Italia. Nonostante questo e il fatto di “aver versato 32 anni di pensione” qui in Italia, non va sottovalutato il suo senso di appartenenza alla terra di origine. La sua cittadinanza rimane quella serba, poiché “sono nato là, morirò la, ho costruito le case là”. Dichiara, inoltre, di aver sempre fatto parte della percentuale di popolazione che si dichiarava come “serbo”, anche durante i censimenti del governo jugoslavo. La sua famiglia vive in Italia, il figlio gestisce un'officina meccanica a San Bortolo di Arzignano, la figlia convive con un italiano a Valdagno, “però io sono nato là, il mio paese, la mia

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patria. Qui non è la casa mia, è la seconda casa, però qui sono sempre straniero.. Mi manca la mia casa, le mie amicizie al mio paese, il luogo dove ho giocato come bambino, dove ho imparato a camminare”. La nostalgia per la patria lontana unitamente al principio che appare irremovibile secondo il quale “uno straniero è sempre uno straniero, te lo dico per la mia esperienza, che sono qua da tanti anni” implica di considerare l'idea del rientro a Drmno come qualcosa di irrinunciabile: “Se non torno alla mia patria due volte l'anno potrei morire”, mi disse quando lo conobbi. Pur con una parte di sé ben radicata nel tessuto sociale italiano, l'immaginario di Gradimir è contraddistinto dal futuro ritorno in madrepatria, cosa che negli anni ha comportato l'invio dei propri guadagni verso le campagne del distretto di Braničevo, dove costruire una dimora che per lungo tempo resterà vuota ma che un giorno servirà ad ospitare gli ultimi anni di vita nel villaggio originario. Recitano i primi versi della celeberrima canzone Tamo Daleko (“Là Lontano”)3: “Tamo daleko, daleko od mora, tamo je selo moje, tamo je Srbija” (“Là lontano, lontano dal mare, là c'è il mio villaggio, là c'è la Serbia”).

2.2 – Come abbiamo visto cambiare gli italiani negli ultimi trent'anni

La famiglia Jovanović nell'alto vicentino tra gli anni '80 e '90

La famiglia Jovanović risiede stabilmente nell'alto vicentino dal 1989, ma già a fine anni '70 erano giunti i primi familiari provenienti da Provo, una cittadina nei pressi di Šabac, al confine tra Serbia e Bosnia. Stevan Jovanović, il capofamiglia, aveva 17 anni quando lasciò Provo per raggiungere in Italia i genitori e il fratello più piccolo, che nel frattempo avevano trovato lavoro e alloggio presso una fabbrica di saldatura del ferro a Cogollo del Cengio. Nel paese ai piedi dell'altopiano di Asiago, grazie anche alla relazione stretta con un intraprendente professore del posto, Maurizio Marioni, Stevan riuscì con il passare degli anni ad integrarsi efficacemente nel tessuto economico e sociale del paese vicentino. Attualmente lavora come autotrasportatore presso l'Opel, casa automobilistica per la quale trasporta ogni giorno sul suo camion le nuove

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autovetture da distribuire in tutto il Triveneto. Mi riceve nella sua casa a Cogollo del Cengio, situata lungo la via principale che collega Piovene Rocchette con Arsiero. È l'ultima di una serie di abitazioni in cui la famiglia Jovanović ha risieduto da quando si è stabilita nell'alto vicentino: in precedenza avevano abitato a Seghe di Velo e a Piovene. Stevan ha 56 anni, un fisico ancora atletico, i capelli bianchi e lo sguardo sorridente, mi fa entrare nel salotto e mi presenta tutta la famiglia. È l'unico maschio in casa, poiché oltre alla moglie Dušanka ha altre tre figlie, una nata nel 1988 in Serbia e ora sposata in Italia, le altre due più giovani sono nate qui nel 1999, gemelle, vivono ancora con i genitori, ma una è già mamma di una bimba di pochi mesi. Scopro così un piacevole esempio di convivenza tra persone di diversa origine: la famiglia Jovanović ha accolto in casa un ragazzo albanese di ventun'anni, Rudi, il padre della neonata, che inizialmente avevo scambiato per un discendente diretto degli Jovanović. In casa si parla il serbo, ma durante l’intervista noto che i miei interlocutori passano comodamente dall'italiano al dialetto veneto. Una sostanziale distanza tra le generazioni si fa sentire all'interno del nucleo famigliare: il gruppo folkloristico serbo dell'alto vicentino Kruna si era interessato alle due figlie gemelle per far loro intraprendere l'attività di danza tradizionale, “ma queste hanno il cognome Jovanović e nient'altro”, dice con una vena di ironia Stevan: “Due anni fa sono andate giù (in Serbia), hanno visto gli amici, la mentalità, le feste e gli piace. Però solo finchè sono giù”. Stevan non ha la cittadinanza italiana, non ne ha mai avuto la necessità e tantomeno il desiderio, di fronte a una sljivovica mi confessa il proprio desiderio di lavorare ancora qualche anno qui in Italia e poi tornare nella sua Provo a “mangiare quel pezzo di pane, però con più tranquillità”. Tuttavia, come lui stesso afferma dopo trent'anni trascorsi in quest'angolo del vicentino: “La maggior parte delle famiglie che sono qui da anni, possono scrivere la loro storia”.

2.2.1 - La prima volta in Italia come operai irregolari

Stevan Jovanović è giunto la prima volta in Italia nell'ottobre del 1980, quando la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia appariva ancora un'entità indissolubile. Originario di Provo, nel distretto della Mačva, aveva

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terminato gli studi a Belgrado per poi sottoporsi alla visita per il servizio di leva obbligatoria. Una volta scartato dalla visita e trovatosi senza impiego, a diciassette anni scelse di seguire il padre, espatriato già nel 1979 a Cornedo Vicentino e in seguito a Cogollo del Cengio per trovare lavoro e sistemazione per sé, la moglie e il figlio Zeljko di soli tre anni all'interno di

una fabbrica di saldatura del ferro.

“Non potevi lavorare, dovevi fare qualcosa, il paesetto era piccolo, le fabbriche dove siamo noi non ci sono (a Provo), solo terra e nient'altro. Eravamo poveri, quattro fratelli, mio papà neanche lui aveva fatto le scuole, mia mamma sì, sette anni di scuole medie, mio papà neanche le elementari, e suonava la fisarmonica, quello era il suo mantenimento per la famiglia, o andava quando c'era la stagione dei campi a lavorare fuori. Da noi il matrimonio tre giorni, festa quando uno va a militare o battesimo, allora si suona e si guadagna. Era un mezzo anche per mantenere la famiglia a quei tempi. Non era un grande suonatore, però valeva”. Stevan raggiunse il resto della famiglia in Italia, mentre altri due fratelli, anch'essi minorenni, rimasero a Provo con i nonni: entrambi andavano a scuola e durante le vacanze estive aiutavano la famiglia nel lavoro dei campi, per non rimanere ad aspettare che il padre mandasse risorse dall'Italia. I titolari delle due aziende di saldatura si conoscevano e, come

afferma Stevan:

“Quello di San Rocco (Cornedo Vicentino) e quello di qua (Cogollo del Cengio) si conoscevano, l'uno ha detto all'altro: “mandami un po' di slavi da là”, e allora hanno fatto arrivare un po' di persone proprio lì dal paese. Erano anche in dieci, forse qualcosa di più a San Rocco, e allora li ha portati qui a Cogollo, in sta fabbrica. Sopra hanno fatto due stanze: su una dormivano e sull'altra hanno fatto da mangiare. Mio papà ha portato sua mamma, mio zio, la moglie, e ghe sera vari tusi giovani. Tutti lì che dormivano su una stanza, quattro letti intorno, quando sono venuto in ottobre io e Zeljko dormivamo su uno, uno mio papà e mia mamma, un altro zio dormiva lì, e un altro zio con sua moglie sull'altro letto. Il bagno era giù in fabbrica. La doccia. E non avevi altro. Il pane mia mamma lo faceva

fuori, alla vecchia maniera”.

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Carabinieri o la Polizia li avrebbero potuti fermare e rispedire in Jugoslavia, poichè erano clandestini. Andavano nei centri solo per fare la spesa, poi rientravano in casa, così questi lavoratori slavi non avevano modo di interagire con gli abitanti di Cogollo del Cengio. Per spostarsi usavano delle moto: “Caricavano il piccolo in moto e andavano a fare la spesa, non c'era altro mezzo. Avevano i cestini in alluminio, quelli di una volta, da quei cestini ha messo davanti e uno dietro sulla moto, e allora caricava le borse. Non avevano le patenti, nessuno di loro”. Da una vicina discarica situata in un campo poco lontano riuscivano a recuperare vestiti e oggetti vari per agevolare in qualche modo la dura realtà quotidiana. Fu così che un giorno del 1979 il diciannovenne Maurizio Marioni, addetto assieme al padre allo smaltimento dei rifiuti nell'area, notò qualcosa di insolito: “La discarica, come dappertutto a quei tempi, consisteva in una valle selvaggia dove si portavano i rifiuti e lì si bruciavano, dopo di che le ceneri venivano sepolte per mezzo di una ruspa. Una volta, portando i rifiuti alla discarica, io e gli altri vedemmo alcune persone. C'erano quest'uomo e questa donna, e un bambino piccolo. Sapevano poche parole, avevano una carnagione scura, cercavano in mezzo ai sacchi per trovare dei vestiti o roba che potesse andar bene a loro, a quel tempo non c'era la raccolta differenziata. Io e mio papà decidemmo allora di avvisare in paese se qualcuno aveva qualcosa di buono da dar via, facemmo uno scatolone con la roba raccolta e lo portammo a quelle persone bisognose, ci ringraziarono4”.

Fu proprio la discarica lo scenario in cui avvenne l'incontro tra Stevan e Maurizio, quasi coetanei, che inizialmente furono costretti a comunicare a gesti: “Ti trovavi il piatto e gli dicevi “questo” e allora capivano che ti serve, a casa.. Mi ricordo che abbiamo trovato anche soldi; la gente in quei sacchi buttava via tutto. Ti vestivi da lì, roba nuova, stirata, impacchettata”. Di lì in poi si sviluppò un solido legame tra la famiglia Marioni e gli Jovanović, che in quel periodo rappresentavano l'unico nucleo straniero nella zona di Cogollo del Cengio, destando più curiosità che diffidenza tra i paesani e azionando quel meccanismo di solidarietà che ancora oggi la famiglia originaria di Provo ricorda con nostalgia:

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“Conoscendo Maurizio, che aveva la nipotina Jenny, figlia di sua sorella, abbiamo mandato all'asilo anche mio fratello che aveva tre anni. Poco alla volta ci siamo adeguati, c'era quello che ci portava la stufa, la bombola del gas, la roba da vestire, chi ci spiegava dove ci sono le botteghe. Alla gente gli dicevano che ci sono delle famiglie slave in quella zona, che ci abitano. Poi certi ci vedevano camminare per di lì, avevano orti, ti vedevano, ti davano una borsetta di pomodori, ma non capivi niente di quello che ti dicevano”. Il figlio più piccolo, che portava a casa dall'asilo i disegni con annessa la terminologia, come ad esempio “mamma” o “papà”, forniva a proprio modo un contributo alla conoscenza linguistica della famiglia. Tuttavia i problemi di comunicazione sommati alla mancanza di inserimento nel lavoro in Italia fecero scegliere a Stevan di rientrare in Jugoslavia prima della fine del 1980: “Ho dovuto andar via perchè non ce la facevo più così. Lavoravo, non lavoravo, ti facevi del male.. E così sono andato via e ho lasciato a lui (Maurizio Marioni) e a Marino il mio indirizzo”.

2.2.2 - Ospiti inattesi a Provo: italiani in Jugoslavia

In madrepatria Stevan trovò lavoro presso un'azienda di Belgrado, la Geo-Sonda, incaricata di ispezionare i terreni destinati alle future costruzioni di grandi opere. Dopo un mese di attività a Senta, cittadina al confine con l'Ungheria, fu indirizzato nei dintorni di casa: a Šabac, dove urgeva la costruzione della nuova stazione delle corriere. Era l'estate del 1981; una sera, terminato il lavoro, Stevan prese il solito autobus che lo riportava a Provo. Giunto a casa, trovò una situazione alquanto inaspettata: la nonna materna stava intrattenendo due forestieri che non sapevano una parola di serbo-croato ma che si spacciavano per “amici”; si trattava di Maurizio e Marino, che avevano conservato l'indirizzo lasciato loro da Stevan e che l'estate successiva, approffittando delle ferie, erano saliti su una Fiat 127 ed erano partiti alla volta della Jugoslavia. Muniti solamente di una cartina e comunicando a gesti con le persone incontrate lungo il viaggio, erano riusciti a raggiungere la casa degli Jovanović a Provo. La visita inattesa implicò per Stevan la questione di dover scegliere che cosa fare in quei giorni, tra l’andare al lavoro oppure prendersi cura dei due amici giunti dall'Italia. Optò per la seconda alternativa, tanto più che Maurizio e Marino

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avevano bisogno di qualcuno che facesse loro da guida, sia per quanto riguarda la comunicazione con i paesani del posto, sia per le pratiche quotidiane. Come rivelerà lo stesso Maurizio Marioni: “Siamo arrivati là e abbiamo trovato un altro mondo, culture diverse, come essere tornati indietro di trent’anni”. Le case dei contadini in quell'angolo di Serbia al confine con la Bosnia non erano attrezzate come in Italia, mancava l'acqua corrente e i bagni erano fuori, all'aperto. Ciò comportò alcune situazioni imbarazzanti come quando i due italiani, con l'ausilio di una tanica colma d'acqua issata sui rami di un albero al centro del cortile, tentarono di improvvisare una doccia: la gente del posto, alla vista dei due uomini in mutande, gridò allo scandalo. Fu al pozzo che riforniva di acqua il villaggio che Maurizio incontrò Svetlana, cugina di Stevan, una bella ragazza mora proveniente da una famiglia di musicisti. Il giovane professore di Cogollo del Cengio ne fu subito attratto e per tutti i restanti giorni a Provo cercò di attingere alla propria capacità comunicativa derivata dal suo recente ruolo di docente per interagire con Svetlana, creando non pochi disguidi all'interno

del gruppo di amici. Spiega Stevan:

“Non si dormiva perchè c'era Marino che era incazzato nero. E allora Maurizio voleva sapere come si dice, cosa, da insegnargli a comunicare. Lui voleva andare da Svetlana e parlare con lei, Marino voleva andare al fiume perchè c'erano le altre ragazze, e io ero il “boss” del gruppo dei ragazzi in quel periodo, ero io il più vecchio dei miei compagni”. Da quel viaggio emersero nuovi importanti risvolti: Maurizio era incontrovertibilmente innamorato di Svetlana, mentre a rientrare in Italia furono in tre, poiché i due italiani convinsero Stevan a tornare a Cogollo del Cengio e cercare un nuovo lavoro.

2.2.3 - Fine estate 1981: il ritorno di Stevan

Dopo aver cercato un primo impiego in un mattatoio di polli a Chiuppano, Stevan trovò lavoro presso la lavanderia Casara di Piovene Rocchette, gestita dal padre di Diego, un amico di Maurizio: “Non sapevo neancora, mi chiedeva: “Vai a prendere il badile”, tornai con la scopa. “Diego, questo badile?”. Perchè suo papà diventava cattivo il pomeriggio, perchè beveva, sempre il pomeriggio era cattivo; diceva: “tu vai a lavorare da Pertini!” ”.

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La famiglia Marioni continuò a svolgere un ruolo determinante nell'integrazione del nucleo slavo all'interno del tessuto sociale della Val d'Astico: “Ci portavano qualche volta alla sagra, a conoscere altre persone, eravamo l'unica famiglia slava o straniera di quella zona. Andavamo a fare la spesa a Malo, nel centro commerciale”. Stevan ebbe così modo di stringere relazioni con i propri coetanei italiani, nell'arco delle diverse uscite

e attività sportive svolte in compagnia:

“Maurizio è sempre stato il tramite, mi ha collegato con delle altre persone. Con sua sorella e altre amiche andavo a Zanè a giocare a pallavolo. Era appena fatta la nuova palestra. Per correre andavamo per i campi. Andavamo a correre per la strada di Costo vecchio, fin su ad Asiago, tutto correndo.. Le amiche che mi portavano a Zanè a giocare a pallavolo, scherzavano, facevano le battute: “cos'hai fatto oggi tutto il giorno?”. E

io:“scopare tutto il giorno!” ”.

Il giovane professore nel frattempo aveva coltivato la relazione a distanza con Svetlana, nonostante le difficoltà comunicative dell'epoca; racconta a tal proposito:

“Andavo in Jugoslavia nei periodi in cui non avevo la scuola, dunque in estate e nelle vacanze pasquali e invernali. Stavamo anche per mesi senza riuscire a vederci. Loro non avevano il telefono, per parlare lei doveva uscire dal suo paese, prendere una corriera, fare venti chilometri fino a raggiungere un posto dove tentare di prendere la linea. Io invece, siccome ero innamorato, alla sera anziché andare in giro andavo dai suoi zii a farmi spiegare il serbo. Ci scrivevamo per lettera, sapevo quel poco che lei poteva capire, mi aiutava suo cugino, avevo il vocabolario sempre in mano”. Questa storia ebbe un lieto fine, poiché a fine 1982 i genitori di Svetlana, una volta realizzato che le intenzioni dei due giovani erano serie, diedero il loro assenso affinchè la figlia raggiungesse Maurizio in Italia. L'anno seguente, era l'agosto del 1983, i due si sposarono. Ironia della sorte, fu proprio in occasione del matrimonio di Maurizio e Svetlana che Stevan ritrovò Dušanka, una ragazza conosciuta qualche anno prima a Belgrado, ma proveniente anch'essa da una famiglia originaria dei dintorni di Šabac, che in seguito divenne sua moglie.

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32 2.2.4 - La naja in Macedonia nel 1983-1984

Nel 1982 Stevan dovette sottoporsi nuovamente alla visita medica per il servizio militare jugoslavo: fu giudicato abile. In quell'occasione si mosse pure il sindaco di Cogollo, che cercò di trattenere il serbo in Italia facendogli svolgere il periodo di leva all'interno dei nostri confini nazionali, ma mancò l'autorizzazione di Belgrado. Stevan avrebbe potuto ugualmente fare la naja in Italia, ma per il governo jugoslavo ciò avrebbe significato lo status di “disertore”, impedendogli il futuro rientro in patria. Inoltre, “in tutta la Jugoslavia, era un onore e un orgoglio che un tuo figlio o un tuo nipote andasse a militare.. Diciamo che era un passaggio di maturità”. Perciò partì per andare a fare il militare nel paese socialista. Dal settembre 1983 fu impiegato per alcuni mesi a Bitola, in Macedonia, lungo il confine con la Grecia. Dalle sue testimonianze si evince come lo spirito di fratellanza jugoslava fosse ancora ben radicato all’interno dell’esercito nella

prima metà degli anni:

“La caserma diventava una famiglia, dividevi tutto quello che avevi, il mangiare che ti mandavano da casa, ogni tanto ti mandavano un pacchetto, te lo dividevi insieme con gli amici che avevi dentro, era un orgoglio.. È la prima volta che esci da casa, non puoi contare su padre e madre, non puoi contare su nessuno, lì conti sullo spirito di squadra. Eri fiero anche di essere comunista, a quei tempi. Io per dirti a diciassette anni avevo la tessera dei comunisti, ti sentivi privilegiato ad averla.. Ogni militare aveva il suo stemma, io avevo questo, era il nostro della frontiera (mi mostra lo scudo con la spada e il fucile tatuato sulla spalla destra, sopra i caratteri “JNA”). Tanti a quei tempi lì facevano qua (sul petto) la testa di Tito. Era normale”.

Sotto le armi, Stevan ebbe modo di mostrare le sue spiccate doti atletiche: “Con il borsone sulla spalla, il fucile, gli scarponi, casco in testa e corri. E anzi, ti facevano fare le gare, per vedere chi arrivava primo di ciascun gruppo militare. Abbiamo fatto la corsa a Skopje, c'era Miloš Šestić5 che ha fatto la corsa con noi. L'abbiamo fatta nell'ippodromo di Skopje, facevano la gara di tutti i corpi militari in Macedonia”.

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Nel marzo 1984 Stevan fu spostato a Debar, sempre in Macedonia, ma al confine con l'Albania. In quel periodo i principali problemi interni della Jugoslavia erano rappresentati dalle manifestazioni degli albanesi kosovari,

per lo più pacifiche:

“Ci hanno mandato due volte a Pristina, durante la notte ci caricavano nei camion, avevi il fucile sì, ma non avevi le pallottole. Per presenza, perchè il militare era come la presenza di Tito.. Erano manifestazioni pacifiste, non scontri. Però, di quello che mi ricordo, mettevano davanti bambini, donne, studenti, non potevi affrontare i bambini. Sui giornali sentivi che c'erano stati degli scontri, qualche militare morto, ma io non li ho visti”. Con alcuni commilitoni sorsero dei diverbi, come con i militari di frontiera kosovari a Debar: “Quando gli chiedevi qualcosa non sapevano parlare, non volevano parlare. Ed erano obbligati dai comandanti che dovevano parlare”, oppure con alcuni croati che “avevano già nella testa questa “Grande Croazia”, si sentivano già la razza superiore ai serbi.. Già lo sentivi, solo che ancora in quegli anni sono riusciti a tenere uniti, ma non è durato per tanto”. Questo “tenere uniti”, che all'epoca ancora resisteva ma che di lì a pochi anni si sarebbe sgretolato portando al dramma delle guerre interetniche, nella vita quotidiana dei reparti militari si traduceva nella pratica dello scambio di cibo tra i commilitoni di diversa religione: “Loro (i musulmani jugoslavi) non mangiavano il lardo di maiale, e ci davano anche il dolce di marmellata: sotto la naja avevi un pezzo di pane, sta marmellata e il lardo. Sto lardo, lo cucinavi e lo mangiavi. Loro il lardo non lo mangiavano, e allora facevi scambio”.

2.2.5 - L'insediamento definitivo nell'alto vicentino dal 1989: un

meccanismo di solidarietà rurale

Stevan terminò il servizio militare a fine '84 e l'anno successivo rientrò in Italia. Dopo soli due anni fece ritorno in Jugoslavia per raggiungere la moglie Dušanka e nel 1988 nacque la loro prima figlia. Nel paese del socialismo, tuttavia, da alcuni anni era in corso una gravissima crisi economica dovuta alla svalutazione del Dinaro, la moneta ufficiale della federazione:

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tornato a casa nel 1987 e già lo sentivi, molto di più, la svalutazione del Dinaro era alle stelle, oggi compravi un pacchetto di sigarette, domani una caramella, con uno stipendio. Hanno svalutato il Dinaro, che non valeva più niente.. Dicevano che era già in preparazione della guerra, la crisi

totale dello Stato, delle fabbriche”.

Il baratro economico-sociale in cui stava precipitando il paese balcanico fece prendere la decisione a Stevan di trasferirsi nuovamente in Italia. Tornò nell'alto vicentino che già ben conosceva e qualche mese dopo si fece

seguire dalla moglie e dalla figlia.

“Nell' '89 sono venuto qui in gennaio, poi ho trovato sistemazione per Dušanka e la figlia maggiore e sono venute in giugno. Io (in Jugoslavia) prendevo uno stipendio e altrettanto come premio, con lo stipendio di lei (Dušanka) non riuscivo neanche a pagare l'affitto, non riuscivo più neanch'io a stare a quel ritmo, e forse anche perchè ho vissuto qui, e vedevi la differenza del costo della vita. Si, lavoravi di più, ma i soldi valevano molto di più di quello che avevi giù in Serbia.. E (in Italia) lavoravo da solo, pagavo l'affitto e riuscivamo a mantenerci. Facevamo la spesa con

centomila lire al mese”.

Dušanka e la figlia di 13 mesi giunsero in Italia il 16 Giugno 1989. La donna ricorda i particolari dell'arrivo nell'abitazione a Seghe di Velo, dove in precedenza aveva alloggiato la sorella: “Il 16 Giugno 1989 siamo arrivati con il treno, mi son rimasta stupita di qua. Sono arrivata con due cambi, in casa a Seghe mia sorella mi aveva lasciato tutto. C'erano i piatti, le posate, l'unica cosa che mancava erano le lenzuola e asciugamani. Il titolare (della casa) mi passava sempre zucchine, robe dell'orto, tutto quello che aveva in più me lo passava. Mi sentivo a casa, mi mancava solo di imparare la lingua.. La prima moka di caffè l'ho assaggiata una sera da una vicina, lì a Seghe, mi ha fatto il segno del

“caffè”, i gesti con le mani”.

In quell'Italia di fine anni '80, il meccanismo di solidarietà sorse quasi spontaneo dall'incontro tra due diverse componenti rurali dell'Europa del sud. Tuttavia, se queste prime famiglie straniere attraevano la curiosità dei valligiani vicentini, nel contempo vi era pur sempre un'inevitabile diffidenza da affrontare, che talvolta poteva causare degli inconvenienti:

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“Curiosità, diffidenza, ci fidiamo, non ci fidiamo.. Dopo dipende dalle persone. Noi siamo stati veramente fortunati. Dopo quando abbiamo traslocato a Piovene, la prima sera che abbiamo traslocato i ne ga taià tutte le gomme sui motorini. La mattina alle cinque si alza Stevan per andare a

lavorare con suo cugino, gomme tagliate!”.

A fare quel dispetto erano state due anziane sorelle, tali Maria e Lucia, che si erano improvvisamente trovate a condividere il cortile con un'intera famiglia di stranieri. Gli Jovanović, infatti, si erano trasferiti nella vicina Piovene Rocchette per raggiungere alcuni familiari: il papà di Stevan, lo zio di Dušanka e un cugino, che vivevano con le rispettive mogli e figli, tutti all'interno della medesima abitazione. Fuoristante stavano parcheggiati cinque motorini e due biciclette che i serbi adoperavano per gli spostamenti, sui quali le due anziane signore si accanirono per azionare un sistema di intimidazione preventiva di fronte all'improvviso sovraffollamento della contrada da parte slava. Quest'iniziale ostilità fu interrotta dall'interazione tra italiani e serbi, che nel tempo si fece sempre più spiccata, come

testimonia Dušanka:

“La vicina che avevamo, le mie figlie la chiamavano“nonna”, anche al giorno d'oggi, quando ci troviamo. Suo marito, quando erano piccole, veniva fuori dalla porta per sentire se dormono le piccole, per tagliare la legna, per non fare casino, erano tanto tanto premurosi come vicini. Piovene me la sentivo più a casa mia che stare qua a Cogollo”. Premura che era costantemente ricambiata dai serbi nello svolgimento delle pratiche quotidiane: “Abbiamo sempre rispettato gli orari, non abbiamo mai fatto casino, ad esempio quando abitavamo in corte, chi rientrava dopo le dieci spegneva sempre la moto e portava dentro a mano il motorino”. 2.2.6 - Gli anni '90 in Italia durante la guerra di Jugoslavia

La famiglia Jovanović aveva fatto appena in tempo a stabilirsi in Italia, per poter evitare il drammatico destino al quale stavano andando incontro le diverse popolazioni della Jugoslavia. Nel 1991 infatti iniziò il sanguinoso conflitto che coinvolse in un primo momento le regioni al confine tra Serbia e Croazia, per poi estendersi l'anno successivo alla Bosnia Erzegovina e

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