• Non ci sono risultati.

Al di là dell’ottimismo e del pessimismo

LA SPERANZA DELLA FINITEZZA, LA FINITEZZA DEL MALE

1. Al di là dell’ottimismo e del pessimismo

«La filosofia, dice Nabert, ha tutto da guadagnare dall’ab- bandono di categorie quali il pessimismo e l’ottimismo, così come ha tutto da guadagnare dal rifiuto dell’alternativa che nasce dagli stessi»1. Da abbandonare sono anche una filosofia della storia che è «solidale con un ottimismo logico», il «leib- nitzianesimo che sempre rinasce» e «l’ottimismo radicalmen- te rinnovato da Bergson». Abbandono “necessario” se si vuol “comprendere” l’esistenza. Infatti, tanto sull’ottimismo quanto sul pessimismo grava «il sospetto di una valutazione dell’esi- stenza realizzata a partire dal solo punto di vista del piacere e della felicità» e «se anche fosse vero che il bilancio della vita è sempre negativo proprio in ragione della natura del piacere, il pessimismo non riceverebbe comunque da questa conclusione la benché minima verifica». Per contro, «quand’anche questo bilancio fosse positivo, l’ottimismo non potrebbe comunque cercarvi un qualche fondamento senza far venire alla luce, allo stesso tempo, la propria debolezza»2.

1 J. nabert, Saggio sul male, cit., p. 142. 2 Per i passi citati cf. ibidem.

3

E ancora, «il pessimismo e l’ottimismo sono incapaci di annettere a sé e giustificare ciò che sembra dare loro ragione piuttosto che ciò che li contraddice. L’ottimismo, infatti, non riesce a progredire fino alla comprensione dei momenti in cui la coscienza umana, nella contemplazione, nell’amicizia, nel- l’azione, sperimenta una sorta di adeguamento alla propria verità e al proprio essere, quando l’inquietudine per la giusti- ficazione è, per un istante, sospesa; il pessimismo, d’altronde, non è mai tanto profondo da giungere ad appropriarsi di certe forme dell’esperienza del male»3. Se l’ottimismo non è capace di rispondere a quel particolare adeguamento che si produce in certi momenti nei quali l’inquietudine della nostra coscienza è placata, da parte sua il pessimismo non è capace di rispondere all’esperienza del male. Né l’uno né l’altro sono capaci di spie- gare la tensione che è costitutiva dell’esistenza umana. Il nome di questa tensione è la finitezza.

Quale finitezza, tuttavia? Già la domanda sottende i mol- teplici significati nei quali “la finitezza” è stata detta nel XX secolo, significati che sono difficilmente riassumibili4. E seb- bene ciò permetterebbe, per un verso, di collocare in maniera adeguata Nabert nel quadro di questioni attuali, per altro verso correremmo il rischio di non rendere conto della complessità della questione. Distinguere, poi, “finitezza e finitudine”, come talvolta è stato fatto in riferimento ad autori di ambito francese (dove finitezza si dice finitude) è una scelta opportuna ma, for- se, troppo vincolata a questioni singole e puntuali. Né nell’uno né nell’altro caso, infine, restituiremmo la finitezza nabertiana a ciò che la compone, ossia a quella “sua” particolare forma di

3 Ibidem, p. 143.

4 La bibliografia di tale argomento sarebbe difficilmente contenibile in poche

righe. Tra i contributi che presentano i diversi significati della finitezza si veda G. Ferretti (a cura di), Ermeneutiche della finitezza, Atti del settimo colloquio

su Filosofia e Religione (Macerata 16-1 maggio 1996), Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 199, con testi di G. Ferretti, J. Greisch, M. Ruggenini, B. Forte, V. Melchiorre, V. Vitiello, C. Ciancio, J. Zovko, A. Rizzi, U. Perone, C. Sini.

39

(ri)composizione che è la speranza, la quale sta al di là dell’ot- timismo e del pessimismo.

La speranza è “al di là”, sta “oltre” perché ha a che fare con ordini che di per sé sono iperbolici5. Idea, questa, non lontana dallo spirito dell’opera di Jean Nabert. Perciò dialogheremo con lui, “usandone” passi e passaggi, seguendone le questioni. Sen- za la preoccupazione di esporre compiutamente il suo pensiero ma senza, al contempo, pretendere di “salvare” una filosofia per molti versi non attuale e annoverabile tra le correnti che tanta filosofia del XX secolo si è impegnata a superare. Nabert è un “coscienzialista” che non mette in discussione il primato del- la coscienza e del soggetto. È un fichtiano, e prima ancora, un biraniano che dà per assodato il primato dell’io e dell’effort. Inoltre, rivendica per sé la collocazione nella cosiddetta “filoso- fia riflessiva”6, parlando di un contesto che non solo, ormai, ci è estraneo ma che si presta anche ad una certa qual equivocità, poiché la riflessione, piuttosto che caratterizzare una determi- nata corrente filosofica, sembrerebbe caratterizzare la filosofia

tout court. Eppure, all’evidente estraneità e lontananza di alcune sue tesi, risponde la proposta, sicuramente originale nel conte- sto francese dell’epoca, di una nuova “figura” di finitezza come scissione interna dell’esistenza umana, scissione che la speranza (ri)compone senza annullarla.

Al di là dell’ottimismo e del pessimismo, allora, perché nulla della fragilità della finitezza è cancellato, ignorato o superato dalla speranza e nella speranza. L’humanitas intera si trova ad essere custodita dalla speranza; non ricompresa né “sintetizza- ta”, ma salvaguardata, conservata. La speranza attraversa il male e il pessimismo cui esso sembrerebbe naturalmente concludere. Non cede, però, alle lusinghe di un buon ottimismo per il quale tutto è destinato a risolversi nel migliore dei modi (o dei mondi)

5 E non perché (chiariamo subito l’equivoco) sia speranza “in un al di là”, in un

“oltre” che riscatti il pessimismo e fornisca le proprie ragioni ad un ottimismo tanto incauto quanto superficiale.

6 A tal proposito ricordiamo l’articolo La philosophie réflexive scritto per l’En-

cyclopédie française, oggi pubblicato in L’expérience intérieure de la liberté, Puf, Paris 1924, 19942, pp. 397-411.

40

possibili. Essa si lascia trafiggere da un insperato che, ferendola la ricolloca al centro di un’esistenza anch’essa ferita. È la figura di quest’insperato ciò che attraversa la finitezza nabertiana e che ne colloca la speranza oltre il pessimismo e l’ottimismo. Tema, questo della speranza, nel quale Nabert incrocia un altro filosofo francese, G. Marcel.

La speranza va al di là del pessimismo pur senza essere un ottimismo naturale che, «così come l’ottimismo teorico, non va confuso con essa»7. Non va confuso perché, tentando una defi- nizione positiva della speranza, scopriamo che essa è affectée, radicalmente toccata, modificata, affètta da una timidezza che la costringe a ritrarsi quando «deve esprimersi davanti a coloro che non vi partecipano». L’unico registro nel quale essa ha vita è il noi. Mentre colui che dispera non vede più alcuna apertura e spazio temporale, la speranza ricompone, e, perciò, «ma solo per questo», è una “memoria del futuro”. Com’è possibile, tuttavia, che vi sia memoria del futuro? L’affermazione sembra altrettan- to paradossale quanto quella di Merleau-Ponty secondo la quale «il passato originario è il passato che non è mai stato presente»9. Una memoria di ciò che non è mai stato fa eco, dunque, ad un passato destinato a restare per sempre “impresente”, destinato ad eccedere ogni possibilità di presenza. Ma non possiamo af- fermare la stessa cosa della memoria del futuro? Questa memo- ria, non è, forse, destinata ad essere l’“impresente” memoria di ciò che non è ancora? Memoria di ciò che non è, è la speranza, la quale ricompone perché ha a che fare con il “noi”. «“Spero in te per noi”: questa è forse l’espressione più adeguata ed elabo- rata dell’atto che il vero sperare traduce, sebbene in modo an- cora confuso e velato»10. Speranza nella quale ne va “dell’unità

7 G. marcel, Esquisse d’une phénoménologie et d’une métaphysique de

l’espérance, in Id., Homo viator. Prolégomènes à une métaphysique de

l’espérance, Association présence de Gabriel Marcel, Paris 199, p. 56.

 Cf. ibidem, pp. 64-65.

9 M. merleau-ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945,

p. 20. Sulla memoria si veda il libro di U. perone, Modernità e memoria, Sei,

Torino 197.

10 G. marcel, Esquisse d’une phénoménologie et d’une métaphysique de

l’espérance, cit., p. 77.

41

che lega me a me stesso” oltre a legare, naturalmente, l’uno con l’altro. Di nuovo, ciò di cui ne va nella speranza è l’humanitas: nella speranza non si dà la proiezione dell’oggetto vagheggiato ma l’“impresente” ricomposizione di sé. “Impresente”: che ac- cade ma non al modo della presenza, che è capace di mantenere la tensione senza pretendere che essa sia sanata.

Nella speranza, dunque, non ne va di un incauto ottimismo che si opporrebbe ad un pessimismo devastante (per l’umano). Essa è iperbolica perché è irrisolta, è trafitta dall’insperato; è ir- risolta perché non è placabile da alcun oggetto che la esaudisca. Tratti della speranza, questi, che tuttavia la condannerebbero ad essere un puro auspicio, se non incrociasse, per verificarsi, la finitezza, nel cui piano si inscrive. Quale finitezza, tuttavia? Del male, certamente. Ma, prima ancora, della speranza.