• Non ci sono risultati.

Margini interni e margini esterni hanno il loro entre-deux, il loro “tra”. Entre-deux è non-luogo conosciuto solo nell’espe- rienza che in esso si compie; ne prendiamo a prestito l’immagine dall’opera del linguista Jean-Charles Vegliante, il quale parla di una terra di mezzo tra due lingue, un luogo che non esiste se non

33

nell’esperienza che è dato farne66. Tale “terra” non esiste nella modalità dell’esser cosa definita e determinata, ma chi conosce e parla correntemente una lingua straniera che, al contrario del caso del bilingue, non sia la propria lingua materna, sa bene che, ad un certo punto dell’esperienza linguistica, ci si scopre in questo luogo di mezzo, tra la lingua propria e una lingua che non ci appartiene, ma nella quale si pensa e si parla. Un luogo in cui si dà l’esperienza del contatto tra due diversi mondi, in cui si dà l’esperienza di un’apertura dove, sebbene tante cose non sia- no conosciute e consapevolmente sapute, tante altre diventano conoscibili e altrimenti dicibili. Il nostro entre-deux è una zona nella quale quanto consegnato nei margini interni ed esterni fino ad ora detti, converge, confluisce, si mescola.

Entre-deux, “tra” margini interni ed esterni stanno le que- stioni nabertiane che è ormai arrivato il momento di affronta- re. Esperienza, estasi, mediazione saranno temi che troveremo, infatti, anche in Nabert: là dove saranno incontrati, saranno anche intesi nel senso (o nella direzione) detta nel § 3. Trove- remo l’espressione “passato immemoriale”, da intendersi come l’originaire mediato dall’esperienza e non come l’iniziale. Tro- veremo la speranza, che intenderemo come azione non agita. Tuttavia, oltre a motivare questi riferimenti a ritroso, ci interessa annunciare altre questioni che abitano questa terra di confine. Si tratta della finitezza e dell’idea di “presenza” da essa annunciata (a partire da Nabert).

L’annuncio della finitezza nabertiana è espresso da que- sto passo del Saggio sul male: «Noi non siamo (realmente o effettivamente) ciò che siamo (assolutamente)»67. In che modo l’assoluto fa il suo ingresso nell’esistenza? Assoluto sarà inteso come ciò che è altro dalla condizione storica finita. Perché tale “presenza” sia avvertita, dobbiamo poter parlare di assoluto ma non di absoluto; l’assoluto, cioè, deve essere altro dalla finitezza ma non sciolto dalla medesima. L’assoluto che cerchiamo è – va

66 Cf. J.-C. veGliante, D’écrire la traduction, Presses de la Sorbonne Nouvelle,

Paris 1996.

67 J. nabert, Essai sur le mal, cit., p. 33. Entre-deux, tra

34

da sé – “altrimenti che” la finitezza ma non “altrove” rispet- to alla stessa perché può essere colto solo nel luogo nel quale l’esperienza ne dichiara la “presenza”. È assoluto nel senso che è “altro dall’ordine” dell’effettività ma non è colto “altrove che” dall’esperienza effettiva che di esso si dà nel non-luogo (tra, en-

tre-deux) nel quale il nesso tra effettività e assoluto si dà da pen- sare. “Tra” che dà da pensare tale nesso ma che è anche rivelato dal medesimo. “Tra” che è non-luogo che nasce nell’esperienza, che non le preesiste ma è scavato, è fatto emergere da essa; non- luogo estatico in quanto altro che non preesiste né all’effettività né all’assoluto ma che è generato dal loro incrocio. In tal senso pensiamo l’estasi come “apertura verso”, come, cioè, una cra- si nell’esperienza che, accadendo, afferma una positività che la eccede. Ancora, “tra” nel quale si annuncia che, nelle questioni riguardanti l’uomo, non è possibile rinunciare alla topologia, alla localizzazione. “Tra” estatico perché irriducibile ad ogni singola determinazione localizzata, non-luogo generato e abita- to dalla forma dell’incrocio di effettività e assoluto: la speranza. “Tra” estatico nel quale, al di là del coscienzialismo, Nabert ci parla ancora.

Ma Nabert ci parla ancora in una sua altra questione: quella della “presenza”. Uno tra i motivi più dibattuti della filosofia del Novecento è certamente la crisi del concetto di presenza e, in particolare, della cosiddetta “metafisica della presenza”6. An- che Nabert ha criticato l’idea dell’essere come presenza, sebbe- ne la sua lettura sia meno nota di quella proposta da Heidegger e Derrida. L’ha criticata per dirla altrimenti, come presenza pros-

sima. Presenza prossima è, forse, l’espressione che meglio può indicare il senso della presenza dell’assoluto nell’effettività. Ciò che siamo assolutamente non resta afflato incognito perché si fa prossimo nell’incrocio del “tra” (effettività e assoluto) di cui facciamo esperienza nel desiderio. Desiderio che, per Nabert, è

originario non nel senso che esso rinvia ad un archi-inizio ma

6 Critica nella quale un ruolo non marginale è stato svolto da J. Derrida a

partire dall’opera La voix et le phénomène, Puf, Paris 1967 (tr. it. a cura di G. Dalmasso, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano 196).

35

in quanto è ciò in cui si esprime l’essere stesso della finitezza, “essere” che è solo in quanto è “essere verso”.

L’originario, per Nabert, è l’“essere” che de-finisce la fini- tezza come tensione del e nel desiderio, non l’iniziale. Origi- nario è ciò per cui l’“essere verso” della finitezza “è”; è ciò che ridesta e rinnova l’originarietà dell’esistenza e dell’esperienza; è l’altro che fa l’esistenza apertura. È l’originario che si dà da esperire nel non-luogo che la sua stessa esperienza genera e la cui attestazione inizia nell’incantamento stupito di fronte al- l’esperienza emozionale della scoperta di un ordine “altro” dal- l’effettività ma che “non è” a prescindere dall’effettività nella quale s’inscrive. Spostare l’asse dell’interrogazione dall’origine come inizio all’originario che attraversa l’esistenza permette di cogliere quest’ultimo nelle esperienze di apertura che di esso si danno, come quell’esperienza emozionale già detta. È emozio- nale un’esperienza che non è colta con un atto del sapere, ma attesta, attende la sua verifica e testimonianza. Non è emozio- nale nel senso in cui diciamo che “è affidata alle emozioni” ma lo è perché è una sagesse particolare, del tipo dell’attestazione di cui Ricoeur ha parlato in Sé come un altro69; è un sapere che appartiene all’ordine di quel credere proprio di una croyance che non è foi e neppure opinion; quel credere cui più volte, nel corso della sua opera, Nabert fa ricorso pensandolo come modo veritativo di esperienze che non sottostanno alla ragione e ai suoi canoni (come, ad esempio, l’esperienza della libertà). È an- cora Nabert a parlarci dell’“affermazione originaria” come del- l’indimostrabile corrente di positività che attraversa la singola esistenza gridando contro il male; indimostrabile ma non per questo dubitabile e, di più, verificabile nell’esperienza che, sto- ricamente, ciascuno vive. Per ciò e in questo senso diciamo che l’originario è l’anima della tensione dialettica “tra” effettività e assoluto, originario che è tale in quanto è la forma dell’identità della coscienza finita e dell’“essere verso”; forma la cui tensio- ne è la speranza.

69 Cf. P. ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990 (tr. it. di D.

Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, pp. 97 ss).

36

Speranza che è forma della tensione tra effettività e assolu- to, che è forma dell’originarietà della singola esistenza finita. Speranza che non è il non ancora di un già presente ma è la forma nella quale la tensione tra effettività e assoluto si anima, come si diceva in apertura di queste pagine. Tale tensione può ricomporsi in forza della presenza prossima di un originario che anima la coscienza finita nella sua tensione verso l’originaria positività, nell’estasi della speranza. Estasi della speranza per- ché la speranza de-localizza, genera il non-luogo che conduce l’esperienza fuori di sé verso una positività che si presenta nel “suo”desiderio, nella “sua” attesa, altro dalla finitezza ma che, pure, la incrocia per essere a sua volta compreso, esperito, sen- tito e provato. Ma, anche, che si dà da incontrare affinché la finitezza stessa sia compresa, esperita nella “sua” speranza, nel- l’entre-deux, nel “tra” che è il non-luogo che la “sua” esperienza ha aperto, per abitarvi come si abita un confine profetico del suo altro. Altro straniero, forse, ma mai estraneo.

Capitolo secondo

LA SPERANZA DELLA FINITEZZA,