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VI.1 L’esilio e la letteratura: un rapporto da ripensare

Come è noto, Agota Kristof appartiene alla categoria di scrittori tradizionalmente definiti deracinés o expatriés. Al pari di Kundera, Cioran e, ancor prima, Kafka, l’opera di Kristof può essere considerata come uno dei migliori risultati letterari di un fenomeno sociale ormai ampiamente riconosciuto: la migrazione di massa dall’Europa dell’Est all’Europa occidentale avvenuta nel corso del Novecento ed esauritasi negli ultimi anni del secolo a seguito della caduta della Cortina di Ferro e al crollo dell’Unione Sovietica. Semplice migrazione in alcuni casi, vero e proprio esilio politico in altri, tale dinamica sociologica ha determinato un caso particolare nel panorama letterario delle nazioni occidentali: la comparsa di un numero piuttosto alto di scrittori stranieri in lingua seconda.

In questo contesto, l’esperienza letteraria di Kristof può definirsi come un caso a sé stante. Al contrario dei forse più noti casi letterari di Kundera o Cioran, entrambi scrittori in lingua straniera per scelta più che per necessità, e a differenza di Beckett, il cui bilinguismo è, al pari di quello nabokoviano, una strategia stilistica ponderata e fondata su una profonda padronanza della lingua e della cultura di arrivo, l’adozione del francese in Kristof non risponde né una scelta linguistica d’elezione, né tantomeno a una volontà di integrazione nella cultura di arrivo. Essa descrive piuttosto un percorso di apprendistato linguistico e letterario nel quale la rielaborazione del trauma dell’esilio, che rimane peraltro perennemente irrisolto, assume una dimensione preponderante.

Basta in fondo leggere alcune dichiarazioni fatte dall’autrice alla fine di una brillante carriera letteraria, per comprendere come lo scrivere in lingua straniera non sia in fondo mai riuscito a portare a termine alcun processo di riparazione, né di integrazione culturale.

L’écriture n’est pas une thérapie. Au contraire, j’ai souffert encore plus d’écrire ce livre. L’écriture ne m’aide pas. C’est presque suicidaire. Ecrire, c’est la chose la plus difficile au monde. Et pourtant, c’est la seule chose qui m’intéresse. Et pourtant, elle me rend malade. (Savary 1995, 21)

E ancora, a un intervistatore ungherese che, in occasione del cinquantenario della rivoluzione ungherese del 1956, le domandava cosa avesse significato la fuga, rispondeva:

I regret that I ever left. From every aspect possible. As the years passed, I felt more and more drawn back to this country. […] I write in French, but I am still Hungarian. I have a Hungarian passport, too: I got one again. They recognise me and respect me highly in Switzerland. I think of myself as an outsider. (Nagy 2006)

L’opera letteraria di Kristof è stata in questo senso più volte male interpretata dalla critica, che la ha volentieri derubricata o come esempio paradigmatico di una stentata padronanza linguistica assurta a stile letterario, o come il risultato di una esperienza letteraria nata esclusivamente in virtù dell’esilio e, in fondo, ad esso confinata. La realtà dell’opera kristofiana contraddice però pienamente queste interpretazioni, poiché non solo essa si estende al periodo precedente l’esilio (numerose sono le poesie ungheresi che, peraltro, Kristof era in procinto di pubblicare in un’edizione bilingue ungherese/francese prima della sua morte, avvenuta nel 2011), ma presenta, in particolare nei numerosi inediti e negli avantesti delle opere pubblicate (cfr. trascrizione in APPENDICE C), caratteristiche stilistiche che non disdegnano il lirismo, elemento invece avulso dalla scrittura del più noto dei testi kristofiani, La Trilogie des jumeaux.

Si può insomma affermare che la scarna prosa delle ultime opere sia in realtà il risultato di un lungo processo di revisione poetico-stilistica che è rimasto finora negletto, in parte a causa della modalità piuttosto frammentaria di pubblicazione delle opere di Kristof, in parte per il numero considerevole di inediti ancora oggi conservati nel fondo degli Archives Littéraires Suisses di Berne dedicato all’autrice – a tal riguardo, basti pensare che Le Grand Cahier, primo dei tre volumi de La Trilogie des

jumeaux, è scritto circa trenta anni dopo l’arrivo in Svizzera. Se la notorietà seguita alla

pubblicazione de La Trilogie, assieme alla pubblica dichiarazione da parte dell’autrice di non avere più nulla di scrivere,1 ha avuto il merito di spingere gli editori, a partire dagli anni Duemila, alla riesumazione di inediti d’autore (le novelle raccolte in C’est

égal, L’Analphabète e il teatro sono stati pubblicati tutti dopo il 1998), essa ha anche

contribuito a creare una discreta confusione cronologica riguardo l’opera dell’autrice ungherese. Come nota Erdman 2002, in un bel saggio dedicato tema della violenza e allo straniamanto ne La Trilogie, molti critici non solo non hanno tenuto conto della scelta di una lingua straniera nell’analisi stilistica dell’opera, ma non hanno spesso considerato il fatto che lo stile minimale della prosa potesse rispondere più a un’esigenza rappresentativa legata alla tipologia del tema trattato (i traumi storici della guerra e del totalitarismo) che ai limiti culturali imposti dall’esilio.2

Questo è dunque lo scopo di questo capitolo: da un lato restituire coesione e coerenza cronologica all’opera di Kristof per mezzo dell’analisi sia delle opere edite, sia di alcune pièces teatrali inedite che mi paiono gettare nuova luce sul processo di

1 Dopo la pubblicazione di Hier (1995), l’ultimo dei suoi romanzi, Kristof affermerà di voler porre fine

alla sua carriera di scrittrice. Cfr. Armel 2005, 15: «Tout m’est égal maintenant, même l’écriture. Ça m’a beaucoup importé mais plus maintenant».

2 Erdman 2002, 92: «on a trop vite interprété la trilogie comme une façon de dépasser la situation de

l’exile propre à l’auteure. Trop hâtivement, on a parlé de sa langue littéraire «réduite au minimum» comme effet de l’aliénation de l’exil, afin d’évoquer la vitalité restreinte et la dureté de la vie au temps de la guerre. Indépendamment de la biographie de l’auteure, joindre le récit d’une situation de guerre à une réduction linguistique plutôt qu’à un style métaphorique et travaillé tombe sous le sens. Du point de vue narratologique, il est plus facile d’expliquer la «langue réduite au minimum» d’Agota Kristof par le circonstances de l’action représentée que par sa biographie».

apprendistato letterario dell’autrice;3 dall’altro mostrare come la pregnanza stilistica

dell’opera kristofiana tragga il suo valore estetico da alcune delle strategie di denegazione, sia della dimensione storica, sia di quella biografica, enunciate nei capitoli precedenti.

Partirò da una riflessione psicoanalitica sul poliglottismo, per arrivare poi all’analisi dei primi testi scritti dall’autrice durante gli anni Settanta e infine alla lettura dei testi più noti. Alla fine di questo cammino, che affianca all’analisi testuale alcune tra le principali teorie psicolinguistiche, spero di chiarire cosa si cela dietro quella che Manganelli definì, senz’altro a ragione, come «una prosa di perfetta, innaturale secchezza» (corsivi miei).

VI.2 Lingua madre e langues ennemies: dal polilogismo al diniego

Nell’ormai celebre studio La Babele dell’inconscio. Lingua madre e lingue

straniere nella dimensione psicoanalitica (1990), Amati Mahler, Argenteri e Canestri

approfondiscono e per certi versi illuminano la complessa dimensione psicologica inerente i casi di polilinguismo e di poliglottismo. Ciò che utilizzerò ai fini del mio discorso riguarda esclusivamente il secondo dei due casi, il polilglottismo, definito come il caso di acquisizione tardiva di una o più lingue straniere in seguito all’età di dodici anni, ossia nel momento in cui la personalità è formata e le costellazioni emotive individuali sono ormai indissolubilmente legate a un’unica lingua: la lingua madre, appunto. Nell’analizzare numerosi casi, patologici e non, di poliglottismo gli studiosi evidenziano un fenomeno che pare legare in modo piuttosto costante la lingua madre alla/e lingua/e acquisita/e in età adulta: il polilogismo. Mutuato da una rielaborazione todoroviana delle nota teoria di Bachtin,4 il concetto viene esteso dagli autori oltre il

3 I testi inediti sono stati da me individuate, lette e trascritte durante un periodo di ricerca presso il Fonds

Kristof degli Archivi Letterari Svizzeri di Berna finanziato da una borsa di studio della Confederazione Svizzera.

4 Cfr. Todorov 1985. Si tratta del saggio dal titolo Bilinguisme, dialogisme et schizophrénie, nato come

senso sociale, anche alla dimensione individuale intrapsichica; in tal modo esso permette loro di dare ragione del complesso rapporto gerarchico che si crea nel sistema idiomatico dell’individuo poliglotta:

le specificità idiolettali del soggetto, nelle particolarissime composizioni che queste assumono in ogni caso, la convivenza di più sistemi e più linguaggi interni allo stesso individuo, le fratture e le articolazioni tra linguaggi che conservano l’impronta temporale ed emozionale dei diversi vissuti […] offrono appoggi avidi a un pensiero non meccanico che indaghi le ragioni del polilogismo soggettivo; un pensiero che, senza misconoscere le tesi bachtiniane del polilogismo della lingua stessa, riesca ad articolarlo dinamicamente e strutturalmente nella soggettività. (357)

Ciò che appare rilevante ai fini del nostro discorso è la dimostrazione che il multilingue, oltre alla possibilità concreta, e forse ovvia, di attingere variamente ai sottoinsiemi di parole provenienti da lingue diverse in suo possesso (il polilogismo in senso proprio), ha anche la capacità, più o meno conscia, di alternare e graduare, per mezzo delle diverse lingue, difese e resistenze psichiche (Amati Mehler, Argentieri, Canestri 1990, 146). I differenti codici linguistici assurgono quindi a un doppio ruolo potenziale: essi sono sia serbatoi di ricchezza espressiva, nel momento in cui dialogano attivamente tra di loro e convergono nella «creazione di nuove vie associative e connettive tra i sistemi di rappresentazioni, attraverso combinatorie inedite che prima non erano a disposizione del soggetto» (363), sia cause di scissione, di splitting della personalità. In tal caso i codici linguistici saranno posti alla mercé dei meccanismi difensivi del singolo soggetto e potranno essere asserviti tanto alla rimozione, quanto al ritorno del rimosso (157). La storia individuale è dunque il perno dell’organizzazione del complesso rapporto tra lingua madre e lingue acquisite: essa determina le potenzialità espressive che i singoli idiomi potranno o meno acquisire.

polilogismo insito in ogni individuo (inteso come la gerarchia interna dei dialetti, dei gerghi e dei lessici familiari) alla propria esperienza personale di bilingue. Nell’esperienza di Todorov il bilinguismo si configura come elemento di scissione, dal momento che ogni differente idioma possiede, secondo l’autore, una vocazione alla globalità che impedisce l’instaurarsi di un vero dialogo tra lingue differenti.

L’esilio, così come la migrazione, è, in questo senso, un caso paradigmatico di una mancata integrazione felice tra linguaggi, poiché in questa particolare circostanza l’acquisizione della lingua seconda è indissolubilmente legata a un senso di perdita, in taluni casi a un vero e proprio trauma. Come afferma Grinberg 1990, l’emigrazione «può essere compresa nella categoria dei traumi accumulativi e da tensione, con reazioni non sempre esplosive e manifeste, ma dagli effetti profondi e duraturi» (27). La perdita della patria e del patrius sermo, la quale sottopone l’emigrato a una fase di disorganizzazione e lo costringe a una successiva e non sempre realizzabile riorganizzazione (29), viene pertanto associata in modo quasi naturale dal soggetto alla liquidazione di un passato doloroso: in questa ottica la lingua seconda può assumere sia il ruolo costruttivo di linguaggio di riparazione, di rielaborazione del trauma, favorendo il dialogo intrapsichico tra i differenti codici linguistici; sia quello alienante di schermo e porsi, dunque, come elemento di discontinuità, di scissione tra un Io passato che si esprime secondo l’idioma materno e un Io presente che invece parla la lingua acquisita.5 Come affermano gli autori de La Babele dell’inconscio, i processi di scissione atti a proteggere il nucleo autentico del sé nei casi di emigrazione possono sfruttare i diversi registri linguistici come un mezzo per organizzarsi ed esprimersi (336).

Il caso letterario di Kristof si situa di certo più sul secondo versante che sul primo, anche se è importante rilevare come la sclerotizzazione della lingua francese e l’abbandono definitivo dell’ungherese come lingua letteraria sia in realtà una risposta tutt’altro che immediata alla migrazione. Al di là di tale precisazione, resta vero il fatto che in Kristof non si instaura mai un reale polilogismo (del quale la mancata pubblicazione delle poesie in edizione bilingue avrebbe forse potuto rappresentare un primo tentativo): il dialogo tra le due lingue, che in un primo tempo, e in particolare

5 Si parla in questo caso di bilinguismo additivo e sottrattivo (Lambert 1977), per indicare il vantaggio o

lo svantaggio derivante dall’incremento di stimoli provocato dall’esistenza simultanea di due lingue. A tal proposito è interessante la precisazione di Amati-Mahler 1990, 271-2: «A determinare che questa simultaneità di due o più lingue si traduca in un beneficio o in una perdita per il soggetto, intervengono l’ambiente socioculturale e lo status delle lingue in questione […] ai fattori socioculturali si possono agevolmente associare […] i fattori psicologici: conflitti, inibizioni, scissioni, rimozioni che, nella fattispecie, possono creare fenomeni di “sottrazione”. Viceversa una buona integrazione psicologica può favorire aumenti della creatività, fenomeni additivi favoriti dalla padronanza di più lingue e culture».

nelle opere degli anni Settanta, delinea una situazione di “bilinguismo complementare” o, se si vuole, di diglossia – ad ognuna delle due lingue pertiene in modo esclusivo un campo specifico e uno specifico vissuto (Ferguson 2000) – lascia man mano il posto alla cancellazione totale dell’ungherese e, assieme a esso, della sfera emotiva.

Come nota Miletic 2008, in uno studio sulle scritture migranti nella letteratura francese del XX secolo, la lingua madre sembra infatti avere sempre un segreto vantaggio emotivo sulle lingue acquisite, anche nei casi in cui il parlante decida di non utilizzarla a favore della lingua seconda.6 In particolare nei casi di poliglottismo, la lingua madre, che contiene in sé la serie di costellazioni emotive legate all’infanzia e alle figure parentali, è portatrice di una carica simbolica del tutto particolare che si lega alle fantasie e ai conflitti più primordiali.7 La perdita di un contesto che condivide la lingua e la cultura di origine, assieme alla necessità di acquisire un nuovo codice linguistico, determina pertanto nel soggetto una situazione simile a quella definita da alcune tra le più note teorie psicoanalitiche come “trauma da perdita del contenimento” (Rank 1924; Bion 1970; Winnnicot 1971).8

È probabilmente in quest’ottica che vanno lette le dichiarazioni dell’autrice riguardo al rapporto ambivalente con la lingua francese, definita più volte come

ennemie e tuttavia scelta come mezzo espressivo privilegiato, financo esclusivo. Il

capitolo di L’Anaphabète intitolato Langue maternale et langues ennemies conferma il valore emotivo della lingua materna9 e, nello stesso momento, illumina il rapporto con

6 Miletic 2008, 22-3: «The language is probably the most routed component of any culture. As the loss of

the mother tongue belongs to the same experience of loss caused by migration, it can be easily associated with the mother figure. The relationship which exists between the mother tongue and the mother figure is mainly built through the original language acquisition».

7 Sul tema cfr. Greenson 1978, in particolare il saggio La madrelingua e la madre, uno dei più importanti

contributi psicoanalitici allo studio del ruolo della lingua primaria nei casi di multilinguismo. Qualche anno prima, anche Stengel 1939 aveva evidenziato il maggiore potere visivo ed evocativo delle parole apprese durante l’infanzia, periodo nel quale l’apprendimento del linguaggio è legato a doppio filo allo sviluppo psicoaffettivo del soggetto.

8 Per Rank 1924, si tratta del trauma della nascita, inteso come ferita primordiale dovuta all’abbandono

dello stato intrauterino, la cui incompiuta rielaborazione determinerebbe l’esistenza di nevrosi e di psicosi nell’individuo adulto. Per Bion 1970 e Winnicott 1971 è invece la perdita della madre come oggetto contenitore delle emozioni e delle angosce del bambino a determinare una mancata corretta costruzione dell’Io, e la conseguente perdita della capacità di autocontenimento nella vita adulta.

9 L’A 24: «Au début il n’y avait qu’une seule langue. Les objets, les choses, les sentiments, les couleurs,

la lingua straniera, percepita sin dall’infanzia come elemento di dominazione e di repressione (in questo caso non si tratta del francese, bensì del tedesco dei soldati nazisti, lingua che ricorda anche il lungo periodo di dominazione asburgica, e del russo dell’oppressione sovietica):

Quand j’avais neuf ans, nous avons déménagé. Nous sommes allés habiter une ville frontière ou au moins le quart de la population parlait la langue allemande. Pour nous, les Hongrois, c’était une langue ennemie, car elle rappelait la domination autrichienne, et c’était aussi la langue des militaires étrangers qui occupaient notre pays à cette époque. Un an plus tard, c’étaient d’autres militaires étrangers qui occupaient notre pays. La langue russe est devenue obligatoire dans les écoles, les autres langues étrangères interdites. Personne ne connaît la langue russe. Les professeurs […] n’ont aucune envie de l’enseigner. Et de toute façon, les élèves n’ont aucune envie de l’apprendre. […] C’est avec le même manque d’enthousiasme que sont enseignées et apprises la géographie, l’histoire et la littérature de l’Union soviétique. (L’A 23)

Da subito dunque la questione del trauma dell’apprendimento di un idioma straniero si struttura su due piani differenti e intimamente connessi: il primo, storico-sociale, relativo alla negazione della libertà e della cultura nazionali (nel caso magiaro si tratta di due lunghe oppressioni straniere, l’austriaca e la sovietica);10 il secondo, personale e

psicologico, legato all’apprendimento forzato del francese seguito all’esilio:

C’est ainsi que, à l’âge de vingt et un an, à mon arrivé en Suisse, et tout a fait par hasard dans une ville ou l’on parle français, j’affronte une langue pour moi totalement inconnue. C’est ici que commence ma lutte pour conquérir cette langue, une lutte longue et acharnée qui durera toute ma vie. Je parle le français depuis plus de trente ans, je l’écris depuis vingt ans, mais je ne le connais toujours pas. C’est pour cette raison que

10 Indicativo il capitolo de L’Analphabète dedicato alla morte di Stalin, nel quale l’autrice descrive

l’indottrinamento intellettuale attuato nell’Ungheria sovietica, fenomeno condannato come uno dei danni maggiori del regime. Cfr. L’A 27: «Ce que l’on ne pourra jamais mesurer, c’est le rôle néfaste qu’a exercé la dictature sur la philosophie, l’art et la littérature des pays de l’Est. En leur imposant son idéologie, l’Union soviétique n’a pas seulement empêché le développement économique de ces pays, mais elle a essayé aussi d’étouffer leur culture et leur identité nationales. ».

j’appelle la langue française une langue ennemie, elle aussi. Il y a encore une autre raison et c’est la plus grave: cette langue est en train de tuer ma langue maternelle. (ibid.)

Come nota Grinberg 1990, il senso di perdita dell’unica lingua ritenuta autentica è un sentimento molto frequente nel caso degli esiliati,11 nell’esperienza dei quali la dimensione storica del trauma assume un’importanza fondamentale, dal momento che sono di norma le condizioni storico-sociali del paese d’origine a imporre la partenza e a rendere impossibile il ritorno (due aspetti, questi, che segnano una differenza fondamentale nell’evoluzione del processo del migrante e dell’esiliato). In Kristof tale processo di abbandono dell’idioma materno sembra, però, piuttosto volontario e non immediato, ed è probabilmente legato a doppio filo al cambio netto di genere letterario che l’esilio impone alla scrittrice. Il più grande equivoco concernente l’opera di Kristof riguarda proprio lo statuto della scrittura dell’autrice, scrittura che non nasce affatto con l’esilio, ma che si manifesta sin dai primi anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Come scrive nell’unica opera dichiaratamente autobiografica, L’Analphabète (1994), Kristof non ha mai perduto la certezza che avrebbe scritto «n’importe où, dans n’importe quelle langue» (40); già durante gli anni del liceo, infatti, l’autrice si misura con la scrittura per la scena e pubblica poesie in ungherese.12 Al suo arrivo in Svizzera, Kristof non