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L’esperienza parlamentare di Gabriele D’Annunzio (1897-1900)

di Matteo Anastasi

Introduzione

Scrittore, poeta, drammaturgo, militare, giornalista, Vate, Gabriele D’Annunzio è stato anche politico, legislatore e persino costruttore, prima di uno Stato vero e proprio, quello fiumano, poi di un ideale Stato rinascimentale durante l’esilio presso il Vittoriale degli Italiani. La carriera politica dannunziana trovò tuttavia inquadramento istitu- zionale solo nel quadriennio 1897-1900 quando, già figura di grande successo, si candidò alle elezioni, per mostrare al mondo, come avrebbe rivelato in una lettera al suo editore Emilio Treves, di essere «capace di tutto». Risultato eletto nelle fila della Destra nel collegio di Ortona a Mare, vi militò fino al marzo del 1900 per poi, contrariato dalle leggi “liberticide” varate dal governo di Luigi Pelloux contro i moti socialisti, passare sui banchi della Sinistra, non prima di aver pronunciato una frase destinata a rimanere celebre: «di là i morti, vado verso la vita». Fortemente sui generis, l’esperienza parlamentare di D’Annunzio si collocò in una fase particolarmente complessa della storia d’Italia. Nel 1897 il Paese era ancora profondamente scosso dalla disfatta di Adua, maturata l’anno precedente con la sconfitta delle truppe del generale Oreste Baratieri dinanzi alle forze etiopi dell’imperatore Menelik II. Le mire nel Corno d’Africa, che D’An- nunzio aveva a più riprese sostenuto, si arrestavano bruscamente,

coincidendo con la fine della parabola politica crispina e con l’av- vento di un nuovo governo a guida del marchese Antonio Starabba di Rudinì, con il quale la parola d’ordine in politica estera tornava a essere «raccoglimento». Internamente la situazione era ancor più in- candescente. Il Paese si trovava lacerato, oltreché da ambizioni espan- sionistiche spente sul nascere, da forti tensioni sociali che vedevano, sullo sfondo, l’avanzare del socialismo [CANDELORO 1974; SA- GRESTANI 1976; SERGIO, 2002].

In questo contesto maturò la decisione del poeta di candidarsi nella sua terra, l’Abruzzo, che aveva lasciato giovanissimo per fre- quentare il prestigioso Cicognini di Prato e di farlo alla sua maniera, non disdegnando i metodi spiccioli del politicante, soprattutto du- rante la campagna elettorale del 1897, ma condendoli con suggestioni ed estetismi tipicamente dannunziani, sancendo altresì il passaggio dalla comunicazione politico-ideologica scritta alla comunicazione politica parlata, che Ernesto Galli Della Loggia fa coincidere nella vita del Vate proprio con la candidatura del 1897 [GALLI DELLA LOG- GIA 2011, p. 96].

Obiettivo del presente saggio è, dunque, ricostruire la prima av- ventura politica concreta di D’Annunzio, evidenziando l’esistenza, alle sue spalle, di un solido pensiero, pur fortemente aristocratico e antidemocratico, di difficile collocazione nell’agone istituzionale ma di sicuro interesse per comprendere uno degli aspetti meno studiati della vita del poeta.

Il pensiero politico di Gabriele D’Annunzio

L’interesse dannunziano per la politica era vivo già almeno un decen- nio prima dell’effettiva discesa in campo ed era stato espresso per il tramite della sua scrittura. Nel 1888 erano apparsi su «La Tribuna»

una serie di articoli dedicati a «L’armata d’Italia», in cui il poeta esor- tava a un potenziamento della flotta navale di guerra, con un duplice obiettivo: allinearsi alle potenze del concerto europeo, sulla cui scena, in specie proprio in termini di armamento marittimo, irrompeva la Germania bismarkiana; lavare l’onta di Lissa, lanciandosi verso ambi- ziose mire espansionistiche che riportavano in auge il sogno egemo- nico mediterraneo di Mazzini, in quegli anni fatto proprio tanto dall’ex mazziniano Crispi quanto da Alberto de Blanc, futuro ministro degli Esteri del terzo esecutivo crispino. Quelle idee avrebbero tro- vato suggestivo seguito, in forma retorico-poetica, fra il 1892 e il 1893, nelle «Odi navali».

Nondimeno, romanzi come Il trionfo della morte e, soprattutto, Le

vergini delle rocce, entrambi datati 1894, presentavano chiari connotati

politici, esprimendo un’ideologia aristocratica, elitaria e superomistica verso la vita, ricollegabile al pensiero nietzschiano, che appariva chia- ramente nella definzione di una società nella quale i «pochi uomini superiori» erano contrapposti ai «molti», i «liberi» agli «schiavi». Si trattava peraltro di idee già delineate in un celebre articolo pubblicato su «Il Mattino» nel 1892 con l’eloquente titolo «La bestia elettiva», in cui D’Annunzio chiariva che «il suffragio universale è stato inventato con straordinaria accortezza per spogliare le plebi dei loro diritti», condannandole a restare «sempre schiave […] tanto all’ombra delle torri feudali quanto all’ombra dei feudali fumaioli nelle officine mo- derne». A suo parere, «gli uomini saranno divisi in due razze. Alla superiore, elevatasi per pura energia della sua volontà, tutto sarà per- messo, alla inferiore, nulla o ben poco […]. Mai una scheda di voto contaminerà le sue mani» [D’ANNUNZIO 1996, p. 93]. Questi con- cetti, codificati in maniera analitica soprattutto ne «Le vergini delle rocce», sancivano l’allargamento dell’interesse dannunziano, finora ri- volto negli scritti “marittimi” alla sola politica estera, alle vicende do- mestiche. Anzitutto l’estensione del principio di forza verso un capo in grado di conquistare il potere assoluto all’interno del proprio Paese

e di guidarlo ai vertici del contesto internazionale. In seconda battuta la definizione della necessità di impegnarsi concretamente in politica in difesa della Bellezza. Per tali ragioni, il 1894, è l’anno in cui accen- tuando, «fino all’esasperazione, gli spiriti animatori della politica cri- spina […] D’Annunzio ha edificato il suo manifesto politico defini- tivo, al quale, pur arricchendolo di connotazioni nuove, non recherà modifiche sostanziali e rimarrà costantemente fedele» [ZEPPI 1999, p. 120]. Si pensi, in particolar modo, a Maia (1903), il primo libro delle

Laudi, in cui il poeta confiderà nell’avvento di un nuovo mondo di

bellezza e grandezza da affidare a un uomo forte, un eroe, in grado di condurre verso tale obiettivo.

La posizione politica di D’Annunzio prima del coinvolgimento parlamentare era, dunque, già aristocratica e antidemocratica. Si può parlare, tuttavia, di un aristocraticismo perlopiù letterario ed estetico, che trovava codificazione in una società fondata sulla bellezza e sul culto di essa. Come ha fatto notare Francesco Perfetti, probabilmente D’Annunzio si sarebbe accostato «realmente alla politica soltanto du- rante la Prima guerra mondiale», che «spostò il poeta da quella […] dimensione di superomismo letterario ed estetizzante intriso di echi nietzschiani […] a una dimensione più concreta, più consapevole, più politica». La guerra avrebbe definitivamente trasformato «il vate na- zionale […] nel poeta soldato, in un eroe, cioè, pronto a osare l’ino- sabile, a lanciarsi in imprese apparentemente impossibili – la beffa di Buccari, per esempio, o il volo su Vienna – con una baldanza pari all’ardimento» [PERFETTI 2013, pp. 7-8].

La candidatura

La famiglia di D’Annunzio non era nuova all’esperienza politica, con particolare riferimento alla città di Pescara. Il padre Francesco Paolo nella seconda metà dell’Ottocento aveva più volte ricoperto la carica

di Sindaco. Il cognato del poeta, Antonino Liberi, marito della sorella Esterina, aveva anch’egli esercitato il ruolo di primo cittadino facente funzioni in due brevi mandati nel 1892. Soprattutto era stato per di- verso tempo consigliere comunale e in tale ruolo fra gli artefici dello sviluppo urbanistico di Pescara. Anche Michele Luise, con cui aveva contratto matrimonio l’altra sorella Elvira, fu Sindaco sul finire del secolo. D’Annunzio, formatosi lontano da casa, in quegli anni era rientrato sulla costa adriatica, fequentando con vivacità il “Cenacolo” che il poliedrico Francesco Paolo Michetti aveva radunato nel con- vento di Francavilla a Mare, creando un circolo di dibattito culturale fra le menti più brillanti dell’Abruzzo marittimo. Fu con tutta proba- bilità in questo contesto che D’Annunzio maturò un suo ingresso nella politica “concreta”. Già nelle elezioni del 1895 il poeta aveva espresso le sue idee schierandosi in favore di Filippo Masci, docente di filosofia, che sarebbe stato eletto nel collegio di Ortona a Mare sia nelle elezioni del 1895 sia in quelle del 1897. In una lettera del maggio 1895, indirizzata all’avvocato Pasquale Masciantonio, anima politica del Cenacolo michettiano, D’Annunzio svelava il suo favore verso Masci: «Caro Pascal, siamo nella battaglia. Ci sono entrato anch’io, facendo le mie prime armi; e ho potuto indurre gli elettori di Pescara a votare per il Prof. Masci. Spero che la vittoria sarà nostra» [DI CARLO 2001, p. 154]. Effettivamente Masci fu eletto deputato della XIX legislatura, inauguratasi il 10 giugno 1895. Il colpo di scena sa- rebbe arrivato nel giugno del 1897 quando la nuova elezione di Masci fu annullata per brogli elettorali. Risultò, infatti, che numerose schede con il nome del candidato presentavano «evidenti segni di riconosci- mento», recando «titoli e qualifiche varie e diverse, quali “accade- mico” e “filosofo”, disposti in modo artificioso e tale da non lasciare dubbio che era stato tutto preordinato, per riconoscere i votanti» [DI BIASE 2013, p. 47]. Annullata l’elezione di Masci, D’Annunzio ac- cettò di scendere in campo nelle fila della Destra, immediatamente sostenuto dagli amici del Cenacolo, con in testa, oltre a Michetti,

Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, coniugi alla guida de «Il Mattino» di Napoli. A metà luglio D’Annunzio definiva la sua posizione in una celebre missiva all’amico giornalista Luigi Lodi: «Io sono al di là della destra e della sinistra come al di là del bene e del male», specificando che «sarà stupenda la singolarità delle mie attitudini sui vecchi banchi di Montecitorio. Io farò parte di me stesso» [D’ANNUNZIO 1996, p. 1579]. Alla fine del mese annunciava a Treves che «un intrico di circostanze mi ha fatto prigioniero e schiavo, inaspettatamente. Sono candidato! E, se potrò vincere i primi disgusti che solleva in me la Bestia Elettiva, condurrò a termine l’impresa felicemente» [D’AN- NUNZIO 1999, p. 203]. Alla viglia di Ferragosto comunicava ancora all’editore il motivo intrinseco della sua candidatura: «Bisogna che il mondo si persuada che io sono capace di tutto» [ANDREOLI 2000, p. 307]. In quegli stessi giorni, era Scarfoglio a comunicare ai lettori del suo giornale, la volontà del poeta: «Vuole coltivare alcune regioni del suo cervello rimaste sinora inerti. Vuole, cioè, fare politica. E sia, il male per lui non sarà grande» [DI BIASE 2013, p. 76]. Due giorni più tardi, il 6 agosto 1897, veniva promulgato il Regio Decreto che convocava elezioni anticipate nel solo collegio di Ortona, concen- trando l’attenzione della stampa nazionale sulla prima avventura po- litica del Vate.

La campagna elettorale

Con l’ufficialità della consultazione e la data del voto, fissato per il 9 agosto, D’Annunzio si adoperò alacremente per mettere in piedi una campagna elettorale in grado di garantirgli la vittoria sull’avversario della sinistra, l’avvocato Carlo Altobelli, già storico rivale di Masci e, ironia della sorte, difensore di D’Annunzio in una causa per adulterio. La laboriosità dannunziana di quei giorni è stata così descritta da Giordano Bruno Guerri:

Il primo contatto con la «bestia elettiva» gli fece «arricciare i peli del corpo», ma D’Annunzio non si risparmiò incontri, strette di mano, comizi e cene, sopportando «l’acre odore umano» che lo disgustava. Con il sostegno dei maggiorenti e dei capivoto locali setacciò il proprio collegio elettorale con una solerzia da politico di periferia, tenendo almeno venti di- scorsi differenti a seconda del luogo, del pubblico, dell’ispira- zione […]. Dalla fine di agosto, il candidato batté ogni paese o frazione, accolto spesso dalla folla dei suoi sostenitori […] Preso com’era dalla voglia di domare la «bestia elettiva», fece tappezzare ogni luogo in cui parlava con manifesti, pagati da Treves, che riproducevano i titoli dei suoi libri, come se Il pia-

cere o L’innocente fossero la propaganda migliore. Donò anche

parecchie copie firmate dei volumi, altro omaggio dell’editore, e soprattutto sperimentò nei comizi di rito del colloquio con le «moltitudini», nel quale diventerà maestro [GUERRI 2008, p. 111].

Il poeta si impose all’attenzione nazionale il 22 agosto con quello che verrà definito il “discorso della siepe”, pronunciato a Pescara davanti a una folla esultante. In quel discorso vi era sostanzialmente il cuore del programma politico dannuziano, fondato sulla critica del sociali- smo. La siepe, «bella e protetta dai Cieli», costituiva la personifica- zione della proprietà privata. «Voi l’amate ed io l’amo, se fiorisca di bianchi fiori, se risplenda di rosse bacche», recitava D’Annunzio, re- targuendo i socialisti che «s’ingannano dunque di voi, miseramente […] professando tal dottrina» e ponendosi «tra gli spiriti che avan- zano, tra gli illuminati, tra gli audaci, tra i precursori». La vera virtù «nella storia delle stirpi umane come in quella delle specie animali […] è lo sforzo veemente dell’individuo per mantenere la sua indipen- denza e i suoi attributi». Concludeva solennemente sostenendo che «lo spirito latino non potrà riprendere la sua egemonia nel mondo se non a patto di ristabilire il culto della Volontà Una e di ritener sacro

il sentimento, che nell’antico Lazio inspirava le feste terminali» [D’ANNUNZIO 2013, p. 158]. Definito da Edmondo de Amiciis «uno dei più strani ardimenti oratorii di cui si fosse mai avuto esempio nella storia delle elezioni politiche» [ZEPPI 1999, p. 124], quel di- scorso ebbe una forte eco in tutta la Penisola. Fra gli amiratori di D’Annunzio, anche un giovane Filippo Tommaso Marinetti che si recherà in Abruzzo appositamente per sentirlo parlare, ricordando in seguito:

Ora, mi appariva da lontano, sul palco, elegantemente stretto in un abito nero, delicato, piccolo, fragile, sul vasto mare della folla. Aveva a momenti il gesto di un rematore che si abbandona un po’ ai suoi remi, e le morbide cadenze della sua voce tiravano a lui dolcemente le pesanti zattere delle anime, su un fiume di immagini scintillanti. Certo il prodigio della parola che solleva le masse parve compiersi, agli occhi del poeta, poiché dei vio- lenti «bravo» punteggiarono il suo discorso, facendo a pezzi le volute dello stile. Più tardi, vedo degli elettori frenetici aprirgli una breccia nella folla a forza di pugni e la sua carrozza se ne va al trotto, fra gli urrà [ANDREOLI 2000, p. 308].

Fra i discorsi della campagna elettorale, D’Annunzio non mancò di rivolgersi esplicitamente agli intellettuali, incitandoli a svolgere un ruolo attivo:

Gli intellettuali raccogliendo tutte le loro energie debbono so- stenere militarmente la causa dell’Intelligenza contro i Barbari, se in loro non è addormentato pur l’istinto più profondo della vita […]. Volendo vivere così debbono metter fine al dissidio che dura tra il pensiero e l’azione; essi devono conquistare at- tivamente il posto che è loro dovuto alla sommità dell’edificio sociale […]. Chi tra gli uomini preposti al governo d’Italia, fino ad oggi, ha mostrato di comprendere l’idea verso cui la nostra stirpe è condotta dal suo genio a traverso vicende secolari?

Niuno di costoro fu mai rappresentativo del genio nazionale […]. Tale è la verità, che io sono fiero e lieto di annunciare oggi al cospetto d’un popolo, pur contro la derisione dei beoti: la fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza, di cui ella è madre [ANDREOLI 2000. p. 310].

Il candidato della Bellezza, come venne immediatamente ribattezzato soprattutto in forma ironica dai suoi detrattori, nell’ultima settimana di agosto profuse un impegno assai rilevante, tenendo tanti comizi quanti erano i comuni del collegio di Ortona [DI BIASE 2013, p. 135]. Gli sforzi non risultarono vani. Pur non con esito plebiscitario, D’Annunzio trionfò su Altobelli, ottendo 1429 voti contro i 1259 del rivale. Il 1° settembre del 1897, con un manifesto indirizzato «Agli elettori del Collegio di Ortona a Mare», poteva salutare la vittoria:

Sono lieto e sicuro nel rendervi grazie, dopo la bella prova, o Amici valorosi che con così aperta lealtà e così disciplinato ar- dire aveste ragione contro l’indipendenza e l’insolenza di noti e ignoti soverchiatori e vociferatori. Questa nuova e maggior vit- toria ha dimostrato alfine come certe armi insidiose […] sieno per lungo uso divenute oramai più innocue e più ridevoli della mazza di Arlecchino. Esse non hanno oggi altro potere se non di suscitare in noi una specie di curiosità ilare, maneggiate con meravigliosa scaltrezza dai più scaltri giocolieri che abbian mai frequentato le nostre fiere paesane […] La vostra volontà ma- nifestata con una larga maggioranza di suffragi, significa che il Collegio di Ortona non sarà più un campo di fiera ove ogni specie di ciurmatori possa esercitare le vecchie e le nuove arti de la frode, ma sarà un campo onorato di lotta ove nella vicenda delle idee e delle azioni risorgano e rispendano quelle energie generose che sono la nobiltà ereditaria del nostro sangue ge- nuino. Con Voi, cari Amici, ora e sempre devoto e grato, per difendere l’opera comune a cui lavoriamo: opera fatta di bel- lezza, di forza e di libertà. Pescara, 1° settembre 1897.

Gabriele D’Annunzio

Deputato eletto nel Collegio di Ortona a Mare [MA- SCI, 1963, pp. 173-174].

Il poeta si apprestava così ad abbandonare l’«empireo della politica ideale per immergersi nell’attività politica empirica» [ZEPPI 1999, p. 124].

D’Annunzio in Parlamento

Dopo una serie di indagini su possibili irregolarità formali e, soprat- tutto, sulla condanna a cinque mesi inflittagli per adulterio nel 1893 e poi condonata con indulto dal Re, l’elezione di D’Annunzio fu con- validata nella primavera del 1898. Intanto il Vate aveva già fatto il suo ingresso a Montecitorio, in data 4 dicembre 1897, per essere procla- mato deputato. Giunto quasi al termine della seduta parlamentare, prese posto nell’ultimo scranno dell’estremo settore destro, quindi

discese […] fino al banco della Presidenza per essere presen- tato all’onorevole Chinaglia, ricevendo anche i rallegramenti del deputato questore, barone De Riseis. Tornato al suo posto, l’onorevole D’Annunzio ascoltò attentamente la lettura della formula del giuramento da parte del Presidente e poi, con voce chiara e limpida, pronunciò quella che sarebbe rimasta la sua unica parola agli atti della Camera: «Giuro». Un applauso si levò dalla tribuna della stampa e, mentre la paventata ilarità si diffondeva nell’aula, una voce gridò: «Bel discorso!» [PARI- SET 1977, p. 33].

Effettivamente il contributo del poeta ai lavori di Montecitorio, che pure prese in affitto una stanza nelle vicinanze della Camera, in via Monte d’Oro, come si può leggere anche dal sito del Senato della

Repubblica, fu «praticamente nullo»1. Il nome di D’Annunzio ap-

parve per la prima volta il 31 gennaio 1898, sorteggiato per far parte dell’Ufficio IV, uno di quegli uffici, antesignani delle odierne Com- missioni, incaricati di esaminare i provvedimenti prima del loro ap- prodo in aula. Tornò a essere presente in due circostanze a febbraio, l’11 e il 15, rispettivamente per votare l’aumento del capitolo di spesa per i servizi di pubblica beneficienza e i sussidi e per modificare la data della festa per l’Unità d’Italia. Il 9 marzo fu di nuovo sorteggiato come membro di una delegazione parlamentare incaricata di presen- ziare ai funerali del senatore Eugenio Fasciotti. Ancora tre incarichi in aprile: prima, il 14, nominato componente del IX Ufficio, poi, il 25, votante un provvedimento che riguardava i Monti di Pietà, quindi, il 27, ancora chiamato a votare nella seconda tornata, quella pomeri- diana. A maggio Montecitorio sospese i lavori per un mese e mezzo a causa delle gravi tensioni sociali scaturite dalla repressione milanese guidata dal Generale Fiorenzo Bava Beccaris.

Sullo sfondo, l’amore travolgente per Eleonora Duse e la ritrovata passione per il teatro non favorivano il coinvolgimento di D’Annun- zio nella sua veste di onorevole. La Camera riprese i lavori il 16 giu- gno 1898 quando di Rudinì presentò il suo nuovo esecutivo, dimis- sionario già il 18 a causa dell’impossibilità di trovare una solida mag- gioranza. Il 29 giugno il Generale Luigi Pelloux diede vita al suo primo gabinetto, presentato a Montecitorio il 4 luglio. In questa fase l’attenzione del deputato D’Annunzio, come ha ricostruito John Woodhouse, fu rivolta soprattutto alle raccomandazioni e alle richie- ste rivoltegli da conoscenti e amici [WOODHOUSE 1985, pp. 63- 84]. Il 17 novembre il Parlamento iniziò la seconda sessione con l’ele- zione del Presidente della Camera, alla cui votazione segreta partecipò anche D’Annunzio. Il 19 novembre venne sorteggiato per l’Ufficio I

1 Settore Orientamento e Informazioni Bibliografiche del Senato della Repubblica

ma risultò assente, mancando a importanti dibattiti e votazioni, come quella, tenutasi in quei giorni, per il ritiro italiano dall’Africa, impegno

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