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1860: Michele Amari segretario di Stato di Garibald

di Emilio Scaramuzza

Introduzione. Il governo dittatoriale in Sicilia

Il primo ministero garibaldino si formò il 2 giugno 1860. Il suo pro- gramma politico era semplice e si può riassumere nel motto “Italia e Vittorio Emanuele”, che aveva accompagnato tutte le dichiarazioni ufficiali del Generale fin da prima della partenza dei Mille da Quarto. Da un lato esso rappresentava il principio unitario, dall’altro il quadro istituzionale nel quale l’unificazione avrebbe trovato concreta realiz- zazione.

Provenienti da esperienze politiche differenti, i membri dell’ese- cutivo rappresentavano un’élite competente nel campo amministra- tivo e militare: il più stretto collaboratore del Generale, Francesco Crispi – fin da subito coinvolto nella costruzione del nuovo apparato di governo [ASTUTO 2003, pp. 35-43, DUGGAN 2000, pp. 219- 239] – si era formato sui codici, come pure Andrea Guarneri, primo segretario della Giustizia garibaldino; Vincenzo Giordano Orsini, se- gretario della Guerra, era invece un ufficiale di carriera con all’attivo diverse esperienze internazionali [ORSINI 1906], e così via1. Molti

1 Lo stesso Garibaldi era prima di tutto un soldato – la guerra es la verdadera vida del

hombre aveva scritto nella prefazione alle sue memorie [GARIBALDI 1888, p. 4] –

e le sue capacità militari e marinaresche, testimoniate fra l’altro dalla brillante campagna di quell’anno [CEVA 1983, pp. 71-83; PIERI 1962, pp. 667-683 e pp. 700-712] erano quasi universalmente riconosciute.

beneficiavano inoltre dell’esperienza maturata in seguito agli avveni- menti del 1848-49, quando la reazione borbonica aveva trionfato sulla rivoluzione siciliana indebolita da un quadro politico estremamente frammentato.

Fin dal giugno del 1860, l’esecutivo siciliano fu costituito in base a due tipi di considerazioni: da un lato la necessità di coinvolgere nel governo uomini capaci e fidati, dall’altro l’esigenza di trovare un equi- librio tra le varie componenti della politica siciliana [RENDA 1999, pp. 151-153], per condensare dietro l’ambizioso piano garibaldino il maggior sostegno possibile, evitando così le divisioni che avevano tra le altre cose portato al fallimento dell’esperienza rivoluzionaria undici anni prima.

Obiettivo di questo contributo sarà quello di seguire il breve itine- rario di un “tecnico” in seno al governo garibaldino, per mostrare concretamente come attività amministrativa e attività politica altro non potessero fare, nel 1860, che fondersi in un tutt’uno all’interno delle istituzioni. Si cercherà perciò di spiegare, attraverso un caso di studio, come un intellettuale di spessore interpretasse il suo ruolo e la sua missione nell’ambito del progetto unitario che l’isola aveva spo- sato.

La figura scelta è quella di Michele Amari, insigne storico e “figlio devoto” della Sicilia, cui aveva del resto dedicato gran parte dei suoi studi e della sua azione politica prima di vedersi restituito, in un’Italia nuova, finalmente unificata, il credito acquisito attraverso tanti sacri- fici2. Sullo storico del Vespro molto è stato scritto, in anni più o meno

2 Della sua ampia produzione storiografica vale sicuramente citare in primis la

Guerra del Vespro Siciliano del 1843. Lo storico palermitano intravvedeva infatti, in

quel lontano evento del 1282, un antecedente della moderna storia dell’isola, lasciando tuttavia aperto nella prospettiva sicilianista uno spiraglio per la nazionalità italiana, varco che si sarebbe di fatto allargato negli anni successivi e in particolare durante il decennio di preparazione [ROMEO 1963, p. 175].

recenti3. Lungi dal voler ridiscutere tesi storiografiche ormai acclarate,

relative in particolare all’evoluzione in senso unitario del pensiero dell’Amari, in questa sede s’intende piuttosto offrire una lettura del suo significativo percorso all’interno delle istituzioni garibaldine, una vera e propria palestra politica per gran parte della classe dirigente italiana del secondo Ottocento4.

Di ritorno a Palermo

Michele Amari aveva come molti abbandonato la Sicilia al momento del crollo delle istituzioni isolane di fronte alla reazione borbonica nel 1849. Era cominciato così quello che egli stesso definì il suo “terzo esilio” [AMARI 1981, p. 89], interrotto solo all’indomani della riuscita della spedizione garibaldina nel 1860. Nella primavera di quell’anno egli era stato l’anima – «sécretaire et caissier» [AMARI 1896, p. 91] – del comitato fiorentino di sostegno alla causa rivoluzionaria siciliana. Dal capoluogo toscano, di recente annesso al regno di Sardegna, lo studioso del Vespro si teneva in contatto con le altre società filo-ga- ribaldine, tra cui quella di Genova, diretta da Agostino Bertani5. Tut-

tavia, egli bramava tornare sull’isola, come scrisse al cugino, il conte

3 L’ultimo contributo, in ordine di tempo, è quello di ASTUTO 2014. Per un profilo

biografico dell’Amari, arricchito da un’ampia bibliografia, occorre sicuramente rifarsi a ROMEO 1963, cui si può aggiungere PERI 1976. Lettura imprescindibile, più volte citata nelle pagine che seguono, è il Carteggio di Michele Amari, curato da Alessandro D’Ancona e pubblicato in due volumi nel 1896.

4 Su tutti, si pensi in particolare al ruolo che ebbero nell’Italia postunitaria uomini

politici del calibro di Francesco Crispi e Agostino Depretis. Lo stesso Michele Amari, inoltre, sarebbe stato ministro della pubblica istruzione di due differenti governi tra il 1862 e il 1864.

5 Cfr. Museo del Risorgimento di Milano (MRM), Archivio Bertani, cart. 17, pl. XVI

bis, n. 52. È significativo però notare che, a dispetto della trasversalità dei rapporti epistolari intrattenuti dall’Amari tra il maggio e il giugno 1860, le somme da lui raccolte finirono per essere convogliate, nonostante le istruzioni di Garibaldi, verso il comitato genovese presieduto da Emerico Amari, concorrente diretto del Bertani.

Michele Amari, sul finire del mese di maggio6. Il suo desiderio fu ac-

contentato alcune settimane più tardi, non molto dopo la liberazione di Palermo7.

Quali erano dunque le intenzioni di Amari una volta giunto nella nuova capitale della Dittatura? Stando alla sua corrispondenza pri- vata, egli non ambiva affatto a ruoli politici o amministrativi. Scriveva infatti, il 29 maggio 1860, al cugino, sottolineando del pari, da buon conoscitore della realtà isolana, la necessità di una concertazione con il partito garibaldino: «Non voglio andare a presentarmi come candi- dato a Ministero o Commissione. Gli attori buoni o cattivi del ’48, non debbono tornare in su la scena se non chiamati»8 [AMARI 1896,

p. 89]. Sua ferma intenzione era quindi di recarsi sull’isola come pri- vato cittadino, ovvero «en voyageur pour aller voir si ma maison est brûlée, si mes parents sont au nombre des vivants», come aveva riba- dito a Ernest Renan alcuni giorni più tardi [ivi, p. 91].

Il suo viaggio a Palermo venne infine concertato con il cugino e – malgrado Amari non intendesse presentarsi sull’isola con lo stigma dell’«agente del governo piemontese» – fu preceduto da colloqui al massimo livello con le autorità sabaude [ASTUTO 2014, p. 20; BRANCATO 1965, p. 206]. La sua linea d’azione era semplice: visi- tare Palermo, consigliare per quanto possibile il governo e ripartire di lì a poco. Così la illustrava al conte Amari, di recente divenuto inca- ricato di Garibaldi presso la corte di Torino:

Sul punto si veda in particolare MRM, Archivio Bertani, cart. 11, pl. XII, n. 29 unitamente ad AMARI 1896, p. 79. Per altro verso, va rilevato come l’Amari, fin dalla metà di maggio, alla notizia cioè della partenza e del successivo sbarco garibaldino in Sicilia, si facesse assertore convinto, al di là delle differenze ideologiche che connotavano e distinguevano i vari comitati filo-garibaldini, del sostegno alla rivoluzione siciliana: «Ad ogni costo, con ogni sacrifizio si ha a fare che il movimento siciliano trionfi» (ivi, p. 84).

6 Il 29 maggio 1860, Amari aveva scritto al cugino: «Saprai anche ch’io intendo

partire con la 3a spedizione» [AMARI 1896, p. 89]. 7 MRM, Archivio Bertani, cart. 33, pl. CXXXIV, n. 7. 8 Il passo è ripreso anche da ASTUTO 2014, p. 20.

Una volta in Sicilia dirò il parer mio, che tu sai: annessione al Piemonte; le franchigie municipali simili alla vantata autono- mia toscana, mi premono poco, ma non le respingo al tutto, perché voglio l’Italia una, ma senza amministrazione accen- trata, e così il disparere si riduce in pratica a linea sottilissima. Ricuserò qualunque parte al governo, e dopo visti i miei e fatta la mia predica, me ne andrò a Parigi [AMARI 1896, p. 95].

Nonostante questi iniziali propositi, i fatti si sarebbero svolti in ma- niera differente, nel senso di un sempre maggior coinvolgimento – di cui si darà conto nei successivi paragrafi – dello storico nelle istitu- zioni garibaldine. Qui basti sottolineare un punto in particolare, ov- vero la linea politica che ispirava lo studioso palermitano. Negli anni trascorsi dalla fine dell’esperienza rivoluzionaria del 1848-49 il pen- siero inizialmente sicilianista di Amari si era evoluto in senso unitario, sebbene di fatto non centralista [ASTUTO 2014]; nell’ottica, cioè, di un’amministrazione nazionale che garantisse alla Sicilia un posto di rilievo e un trattamento a parte, proprio in ragione della sua storia recente, all’interno della nuova compagine statale. Stante il fallimento quarantottesco, l’unica via al momento percorribile per restituire alla Sicilia quella libertà che le era stata negata fin dalla costituzione del regno delle Due Sicilie, con il predominio di Napoli sull’isola, era dunque quella unitaria. L’opzione sabauda era quella che gli esuli si- ciliani consideravano ormai da tempo con attenzione crescente [DE FRANCESCO 1995, p. 125, ROMEO 2011, p. 356]. Al pari di molti dei suoi corregionali in esilio, anche lo storico palermitano aveva spo- sato queste tesi, sebbene, come detto, con qualche distinguo.

Amari sbarcò a Palermo il 1° luglio 1860, fu subito presentato a Garibaldi e rivide Crispi, con cui ebbe un sincero scambio di vedute. In quell’occasione entrambi si dichiararono favorevoli all’unione dell’isola al regno sardo. Ciò di cui però si doveva ancora discutere era quando questa sarebbe avvenuta e secondo quali modalità. La questione dell’annessione riveste perciò un’importanza capitale se si

vuol cogliere e interpretare lo stato di perenne instabilità delle nuove istituzioni garibaldine, fortemente polarizzate al loro interno tra chi intendeva, sotto l’impulso fra gli altri del conte di Cavour [ROMEO 2012, pp. 736-743 e pp. 765-772], trarre immediato beneficio dalla spedizione di Garibaldi, e chi preferiva attendere la liberazione di Na- poli e quindi di Roma. Amari tornava in Sicilia nel bel mezzo delle

querelles, cominciate all’indomani della liberazione di Palermo, sull’op-

portunità di procedere o meno all’annessione immediata. In partico- lare, tra il 22 giugno e il 9 luglio, data dell’espulsione di Giuseppe La Farina, il più attivo fra i partigiani siciliani di Cavour, molteplici crepe si erano prodotte all’interno della compagine di governo garibaldina. Alcuni esponenti moderati si erano dimessi per obbligare Garibaldi ad uscire dall’impasse annessionista e diverse manifestazioni di piazza, abilmente orchestrate dal partito filo-cavouriano e tollerate dalla que- stura [CAVOUR 2005, p. 1134; AMARI 1896, p. 97], avevano cau- sato il momentaneo allontanamento di Crispi dall’amministrazione e il rimpasto del ministero [BENIGNO 2015, pp. 23-26]. Infine, La Farina era stato arrestato e, munito di foglio di via, cacciato dall’isola [GRANATA 2015, pp. 135-136]. Amari tuttavia s’ingannava quando affermava che «gli urti nascono piuttosto da ambizioni e ruggini per- sonali, che da dispareri su l’indirizzo politico» [AMARI 1896, p 97]. Certo, alla base di quegli eventi vi erano anche motivazioni personali: Garibaldi non riusciva a perdonare a La Farina il fatto della Cattolica di alcuni mesi prima come pure la posizione assunta dal messinese durante il dibattito sulla cessione di Nizza alla Francia [CAVOUR 2005, p. 1277]. Tuttavia, la questione principale era eminentemente politica e ineriva non tanto al se, quanto al come fare l’Italia in quell’estate del 1860. La prospettiva garibaldina divergeva in buona sostanza da quella cavouriana di cui La Farina si era fatto portatore in Sicilia, malgrado il fine ultimo di entrambi fosse grossomodo il me- desimo.

Anche sulla situazione dell’isola le rappresentazioni coeve risenti- vano degli «umori di chi parla»: da destra come da sinistra si tendeva a raccontare una storia diversa sull’andamento delle cose siciliane e sullo stato del paese. Di questo Amari si era fatto fin da subito per- suaso: «L’uno dipinge i Comuni in una mezza anarchia: che non si paghino dazj né si rispettino le persone e le proprietà; l’altro dice il contrario, e ciascuno, al solito, allega fatti al suo intento. Non oso pronunziare che la verità stia nel mezzo. Vedremo» [AMARI 1896, p. 97]. Lo studioso siciliano, abituato al rigore della disciplina storica, era portato a sospendere il giudizio in attesa di poter disporre di fonti certe per poi costruirsi un’opinione autonoma ed equilibrata. Ciò che però Amari non mancava di rilevare a distanza di alcuni giorni dal suo arrivo e subito dopo la cacciata di La Farina era la paurosa instabilità del governo. Scriveva infatti al cugino il 10 luglio 1860: «Qui siamo, nel nostro microcosmo, al terzo o quarto rimescolamento ministe- riale» [AMARI 1896, p. 99]. Considerato che la dittatura era stata fon- data da poco più di un mese, tale incertezza pareva oltremodo ecces- siva a più di un osservatore9. Nella fattispecie, egli si riferiva alle di-

missioni (e alla conseguente crisi di governo) intervenute in seguito alla «violenza fatta a La Farina». Anche in questo caso, però, il suo giudizio era equo, non potendosi del tutto negare le ingerenze del presidente della Società nazionale negli affari di Sicilia: «Il vero è, che la missione di La Farina non potea sembrare se non che uno stecco negli occhi a Garibaldi, e peggio a quei che lo circondano e assediano, e che a questo riguardo fu uno sbaglio» [AMARI 1896, p. 101]. Parere del resto condiviso da altri testimoni di quegli eventi [CAVOUR 2005, pp. 1274-1277].

9 Si veda in particolare sul punto il giudizio esplicito di Cavour come venne

riportato da Giuseppe La Masa al Segretario degli Affari esteri del governo siciliano, in Archivio Centrale dello Stato, Roma, (ACS), Archivio Depretis, s. I, b. 2, fasc. 8, sfasc. 3, n. 56, cc.102-107.

Durante il nuovo rimpasto ministeriale venne associato per la prima volta il nome di Amari a un dicastero:

Tra le altre vittime designavan me. Ricuserò, quand’anco do- vessi parere egoista, perché non veggo qual bene si possa fare o qual male impedire stando così alla cieca in un ministero di

commessi, che in parte non conosco o conosco troppo, sotto il

comando d’un Dittatore, glorioso, popolare e ignaro delle cose di questo mondo, e di Crispi ed altri che lo consigliano. Io non mi fido, né ambisco di sedurre Garibaldi, sì che s’inna- mori di me ignoto e austero, ed abbandoni Crispi che lo pre- corse e poi seguì in Sicilia, che ha meriti veri per la rivoluzione e meriti molto maggiori agli occhi di Garibaldi [AMARI 1896, p. 101].

Ciò che egli non sospettava è che sarebbe stato Garibaldi a sedurlo e quindi a coinvolgerlo in prima persona nella gestione della cosa pub- blica siciliana. Sempre il 10 luglio 1860, infatti, veniva steso il decreto di nomina di Michele Amari a segretario di Stato dell’Istruzione e dei Lavori pubblici10. Il Dittatore in persona aveva fortemente voluto lo

storico all’interno della nuova compagine ministeriale11. Tale scelta di

Garibaldi si spiega da un lato con il prestigio di cui godeva l’Amari, in Italia come all’estero, dall’altro con il fatto che egli non riuscisse inviso al partito filo-cavouriano e allo stesso statista piemontese, con

10 «Giornale Officiale di Sicilia» (GOS), 10 luglio 1860.

11 Scriveva Amari a William Cartwright il 13 giugno 1860: «Mon cher ami. Votre

lettre du 22 juin ne m’a pas trouvé précisément en prison, mais dans quelque chose de semblable: un ministère pendant une révolution. Comment se refuser à Garibaldi lorsqu’il vous appelle et il répond à vos difficultés par le reproche : Que ferai-je si les honnêtes gens m’abandonnent en ce moment-ci ? j’ai dû sacrifier, pour quelque temps, quelques semaines j’espère, ma tranquillité et mon projet d’aller fouiller les manuscrits arabes de Paris» [AMARI 1896, p. 106]. Nella medesima lettera Amari delineava in maniera precisa le ambizioni dei due maggiori partiti che si dividevano la scena politica palermitana nell’estate del 1860, quello per l’annessione immediata, filo-cavouriano, e quello garibaldino.

cui aveva avuto un colloquio prima della partenza per l’isola. Il go- verno garibaldino scontava un pesante deficit di credibilità; la scelta di Amari, come del resto la successiva e ben più rilevante nomina di Agostino Depretis a Prodittatore, andava in parte a colmarlo12.

Uno sguardo sull’istruzione siciliana e sul portato garibaldino

La designazione di Amari a segretario di Stato fu a tutti gli effetti una scelta politica, dettata dalle contingenze in cui versava la Sicilia e dall’opportunità, in un momento particolarmente delicato per il par- tito garibaldino, di poter schierare nel governo un qualificato intellet- tuale, per di più siciliano. La decisione poi di destinare lo storico pa- lermitano all’Istruzione stava a significare la volontà di sfruttare al meglio le sue conoscenze in materia.

Nell’estate del 1860, il dicastero riuniva in sé due attribuzioni (istruzione e lavori pubblici)13 particolarmente complesse, ovvero due

settori dell’amministrazione da molto sviluppare, da un lato per “edu- care alla libertà” la popolazione siciliana, dall’altro per garantire all’isola il necessario sviluppo infrastrutturale – in termini di strade e successivamente di ferrovie – fino ad allora negato dal governo bor- bonico.

12 Questa anche l’interpretazione data sul punto dalla stampa democratica. Il

corrispondente da Palermo del quotidiano filo-garibaldino di Genova, «Il movimento», già il 12 luglio 1860, si diceva convinto che il nuovo ministero, per come era stato pensato, sarebbe durato a lungo.

13 In precedenza, quando il dicastero era stato retto da un altro accademico,

monsignor Gregorio Ugdulena, l’Istruzione era stata accorpata al Culto, per venirne poi scorporata e unita ai lavori pubblici il 27 giugno 1860, con l’incarico di segretario affidato dapprima a Gaetano Daita e successivamente a Gaetano La Loggia.

Tralasciando la parte relativa ai lavori pubblici, che pure vide im- pegnato l’Amari14, qui s’intende piuttosto concentrarsi brevemente

sull’istruzione pubblica, per verificare come si ponessero concreta- mente le autorità garibaldine di fronte alla gestione di una così impor- tante branca dell’amministrazione. Per comprendere quale fosse lo stato della pubblica istruzione in Sicilia all’indomani dello sbarco di Garibaldi può essere utile rifarsi a una relazione stesa nell’ottobre del 1860 – in vista cioè del passaggio di consegne con le autorità sabaude – dall’allora segretario di Stato dell’Istruzione pubblica, monsignor Gregorio Ugdulena. Nel suo rendiconto, il religioso sottolineava in primo luogo come l’intero comparto dell’istruzione fosse stato in pas- sato «deliberatamente negletto dal Governo borbonico»15 e come

proprio in ragione della sua arretratezza esso avesse rappresentato il «primo pensiero» del Prodittatore Antonio Mordini, succeduto a De- pretis nel settembre. La Sicilia difettava di istituti scolastici e di inse- gnanti; infatti, «solo nelle città principali e nei comuni più popolati dell’isola ci aveva effettivamente scuole d’insegnamento elementare, benché male ordinate e poco rispondenti allo scopo; ne’ piccoli co- muni e ne’ villaggi o mancavano del tutto, o eran solo nominali». Ri- guardo poi all’istruzione superiore, il quadro si faceva se possibile più fosco: «Non iscuole tecniche d’alcuna maniera, né istituti di insegna- mento speciale, se sen’eccettuino pochi […] tutti di fondazione pri- vata». E qui si toccava il tasto dolente del monopolio formativo ec-

14 Per quanto riguarda la parte relativa ai lavori pubblici, Amari fu attivo soprattutto

nel controllo dell’amministrazione telegrafica (utile senz’altro alla circolazione delle informazioni sull’isola, e sovente bersaglio di episodi di danneggiamento) e, in secondo luogo, nel cercare di contenere la febbre degli investimenti nel settore ferroviario, fino ad allora fermo al palo in Sicilia e perciò oggetto di rilevanti mire speculative a partire dall’estate del 1860 (Cfr. Archivio di Stato di Palermo (ASPa),

Prefettura Archivio Generale (1860-1867), lettera di M. Amari, 24 luglio 1860 e AMARI

1896, p. 112).

clesiastico, in particolare gesuita, bersaglio pour cause di molti provve- dimenti garibaldini. Quanto alle università, in Sicilia ne esistevano tre, presso ciascuno degli antichi Capovalle dell’isola: Palermo, Catania e Messina. Esse tuttavia scontavano l’assenza di numerosi insegna- menti ritenuti indispensabili, come ad esempio quello delle scienze naturali.

Il bilancio del sistema scolastico e universitario era quindi, al mo- mento dell’arrivo di Garibaldi, decisamente negativo: «Uno stato di cose così deplorabile richiedeva provvedimenti energici e prontissimi: più che un riordinamento e un miglioramento parziale, richiedeva una

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