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L’immagine addomesticata attraverso l’elogio

L’ipertrofismo verbale: un atto iconoclasta

2. L’immagine addomesticata attraverso l’elogio

personaggio che l’ha mosso, questa stessa grandezza ritornerà, addirittura sproporzionata rispetto alle dimensioni della Cappella, nell’incisione, raffigurante Giusti di fronte al ritratto, a commento del carme nell’edizione delle Poesie del 1881.

2. L’immagine addomesticata attraverso l’elogio

La scoperta del ritratto dell’Alighieri accresce la fortuna del tema dantesco che viene scelto, ad esempio, come soggetto del gran premio di pittura a Brera nel 1845. Ad aggiudicarsi la vittoria, grazie alla vasta tela intitolata Dante e Frate Ilario, è l’appena diciannovenne Bertini, che si guadagna il ruolo di ideale erede di Hayez al quale, infatti, succederà nel 1860 alla cattedra di pittura all’Accademia. Prima della promozione Bertini si misura ancora con il soggetto che lo ha lanciato eseguendo un’ampia vetrata, Il trionfo di Dante (Tav. n. XXXIII), presentata con caloroso successo all’Esposizione Universale londinese del 1851. Sulla spinta di una pubblica raccolta di firme l’opera sarà successivamente acquistata per trovare collocazione alla Pinacoteca Ambrosiana mentre una replica, in scala minore, è ammirabile nella splendida cornice del ‘Gabinetto bisentino’ del Museo Poldi Pezzoli. Uno dei commenti più completi e in grado di delineare la valenza di un manufatto eccelso sotto il punto di vista tecnico e formale è quello di Ignazio Cantù.

Il giovine Bertini, migliorando sempre più l’arte paterna e avita, succhiato a Roma l’amore e il gusto del bello, segnava quest’epoca artistica con un gran lavoro: Dante e varie scene della sua divina commedia. È l’opera più bella, più commovente che sia stata commessa alla lucida superficie del vetro. Traeva la moltitudine milanese a veder questa affettuosa rappresentazione del più gran poema e del più gran cantore italiano, e ammiravano come un giovane poco oltre i vent’anni avesse saputo interpretarlo così potentemente. Anche a Londra il lavoro del giovine milanese

arrestava la comune ammirazione, e Blanqui con semplice, ma entusiastico aggettivo lo chiama vetro stupendo! Così l’Italia aveva mandato a gareggiar nobilmente un saggio dell’arte italiana rinata coi saggi che vi mandò la fabbrica di Parigi o quella ancor più meravigliosa di Monaco.289

Il tono fiero di Cantù non solo esprime l’orgoglio italiano di essere all’altezza del resto dell’Europa in uno degli ambiti più esigenti della produzione artistica, ma evidenzia anche il fondamentale balzo creativo di Bertini che abbandona la procedura integrativa del padre Giovanni e del fratello Pompeo a favore di una modalità creativa in senso stretto. L’accenno conclusivo di Cantù a Monaco è tutt’altro che casuale dato che una delle influenze convergenti nella vetrata dantesca è proprio quel purismo monacense che Bertini ha conosciuto grazie all’amico Maffei, da anni convinto promulgatore di un più diretto contatto artistico fra i due paesi. Nel

Trionfo di Dante, tuttavia, si scorgono anche le orme dei percorsi artistici di Hayez e

di Vela. Il naturalismo purista che ha partorito le figure allegoriche della Malinconia, della Meditazione e della Desolazione, protagoniste del decennio appena trascorso, si incarna in Matelda e Beatrice, raffigurate ai due lati dell’Alighieri290. Sono soprattutto le due donne, più che la Vergine o i vari episodi della Commedia, a catalizzare l’attenzione emotiva di Maffei durante la stesura del sonetto A Giuseppe

Bertini quando recava alla Esposizione di Londra l’apoteosi di Dante da lui smaltata sul vetro. Sulla scia della lettura nazionalistica offerta da Cantù, la carica

spirituale di Beatrice e Matelda si trasfonde nella linfa patriottica di un’Italia indomita.

E nel mezzo raggiar quella severa Fronte che l’universo in sé comprese. Miracolo dell’arte! Or va! Lo addita Al superbo Britanno, e digli: Esangue È la mia patria per crudel ferita, Ma non estinta291

289 I. CANTÙ, Gli artisti italiani all’Esposizione di Londra, «Album. Esposizione di Belle Arti in

Milano», cit., a. XIII, pp. 108-109.

290

L’imponente struttura allegorica sarà sciolta, qualche anno più tardi, dall’esegesi di Camillo Boito. Si veda C. BOITO, Gli artisti italiani contemporanei. G. Bertini pittor milanese, Estratto de «il Politecnico parte letteraria», Milano, 1866, pp. 4-5.

Maffei, oltre ad elogiare la maestria della vetrata, della quale sa discernere con cognizione di causa le varie influenze artistiche che egli stesso ha contribuito a diffondere o a difendere, concentra l’intera presenza dantesca nella fronte, un particolare anatomico che aveva colpito anche Giusti (“fronte austera”292). L’impeto nazionalistico affida all’oggetto artistico un compito ben preciso, quello di dimostrare all’Europa, attraverso l’altissimo nucleo morale della figurazione dantesca, che il popolo della penisola, per quanto straziato dall’occupazione e dalle lotte, non ha intenzione di arrendersi e, anzi, proprio nella rilettura dell’ancora attualissimo messaggio libertario dantesco, trova nuova linfa. Il sonetto maffeiano è il più adatto gradino di passaggio tra le precedenti coppie ecfrastiche esaminate che utilizzavano uno solo dei tre approcci descrittivi (‘reazione emotiva’, ‘traduzione’ o ‘narrazione’) e quelle che seguono, definite ‘miste’ perché combinano due o tre degli stessi. Prima, però, di analizzare i casi ‘misti’, è necessario riflettere su un sottoinsieme della ‘reazione emotiva pura’ che, per comodità, ho chiamato ‘reazione emotiva finta o di maniera’. L’appellativo non vuole essere dispregiativo ma intende mettere in luce le discrepanze rispetto alla ‘reazione emotiva pura’. Mentre in quest’ultima, infatti, l’attenzione del poeta è tutta concentrata sulle emozioni provocategli dalla visione dell’immagine, in quella ‘finta o di maniera’, l’opera è quasi ignorata, diventando pretesto per la lode all’artefice che assurge a reale fulcro del testo ecfrastico. Il sonetto maffeiano si pone a metà tra i due tipi di ‘reazione emotiva’, non tanto per il fugace riferimento alla vetrata, quanto per la genuinità dell’afflato poetico.

Qualche pagina addietro, trattando la moda orientalista, si sono citate le figure bibliche dipinte da Hayez, fra le quali si annovera anche Rebecca. Quest’ultima appartiene a quella serie di opere prodotte fra gli anni trenta e quaranta dove i tratti caratteristici hayeziani, quali la ricerca del bello e l’esercizio stilistico, si fondono con l’influenza del purismo monacense che agisce nella direzione di una più asciutta essenzialità formale. Tuttavia il pittore veneziano non rinuncia mai al modello fisico di partenza e proprio in questo intransigente attaccamento alla realtà risiede l’autenticità psicologica che vivifica le figure ritratte. A testimonianza del lavoro stilistico di questi anni ci sono le due versioni della Rebecca, la prima, su

commissione di Gaetano Taccioli, esposta a Brera nel 1847 e oggi dispersa, e la seconda, Rebecca al pozzo, datata 1848. Le due prove, benché ispirate al medesimo modello iconografico, si distinguono per molte varianti: il paesaggio, l’inclinazione della testa, la posizione del braccio destro, appoggiato sul seno per tenere su la veste nella prima, disteso con la mano che impugna la fune nella seconda, il panneggio più pesante nella seconda prova, nella quale anche il velo che cinge il capo è più stretto, per non parlare dell’espressione del volto nella quale è compendiata l’accresciuta maturità stilistica della seconda Rebecca. Sull’Album dell’Esposizione del 1847, l’incisione della prima Rebecca (Tav. n. XXXIV), unica testimonianza rimasta del dipinto, è accompagnata da un lungo carme in ottave di settenari, ottonari ed endecasillabi di Giovanni Gallia. Due ottave sono dedicate alla vicenda biblica della protagonista, colta proprio al bivio che muta per sempre la sua vita cioè quando, mentre è intenta ad attingere l’acqua al pozzo, viene avvicinata da Arram, il servo a cui Abramo ha affidato il compito di cercare una moglie per il figlio Isacco. Dopo aver presentato Arram alla sua famiglia, Rebecca sceglie di seguirlo. Alla fine di un lungo periodo durante il quale fatica a rimanere incinta, Rebecca, seppur in seguito a una gravidanza difficile, partorisce due gemelli: Esaù e Giacobbe. I rapporti tra i due fratelli, discordi già nel grembo materno, raggiungono il momento di massima tensione quando Rebecca aiuta il prediletto Giacobbe ad usurpare la benedizione paterna che sarebbe dovuta spettare ad Esaù, il quale, tuttavia, la vende in cambio di una zuppa. Rebecca è considerata la progenitrice sia del popolo ebreo, attraverso Giacobbe, sia di quello romano, mediante Esaù e i diverbi che costellano la vita dei due fratelli prefigurano gli scontri fra i due popoli. Due ottave su quindici, tuttavia, non sono molte, le restanti sono un eccellente compendio dei topoi propri della categoria della ‘reazione emotiva di maniera’: il primo è quello riguardante la creazione artistica, prodotto del trasmigramento dell’immagine dalla mente dell’artista alla tela. L’elogio dell’artefice insiste sull’ispirazione superiore che ha guidato anche i dipinti precedenti e quindi Gallia cita I profughi di Parga, Moriamur

pro rege nostro Maria Theresia, Cristo Morto e La sete dei crociati. Suddetto

elenco ha una funzione amplificatrice della lode al pittore e si sposa con la professione di modestia del poeta (“La mia parola è muta”293). Fin qui il testo, fatta

293 G. GALLIA, Rebecca, quadro di Francesco Hayez, in «Album. Esposizione di Belle Arti in

eccezione per l’enumerazione dei lavori dell’artista, in un crescendo dal tono pubblicitario, non ha fornito elementi particolarmente originali, senonché l’ultima ottava si riscatta ampiamente.

E tu di eterni lampi

Vesti mille fantasmi e mille forme, Spirto possente, e stampi

Di vita ovunque e affetto immortali orme; Con magistero ignoto

Pensier dipingi e moto,

Vivi già mille vite, e puoi te stesso Mirare in mille simulacri espresso.294

Non solo la sfera spirituale-ispiratrice, ma anche quella terrena-creatrice ha caratteristiche divine, infatti il potere dell’artista di produrre la vita e renderla eterna lo rende un semidio classico o, vista l’ambientazione del dipinto, un angelo. Come sostiene Mario Specchio, “la ‘figura’ è la modalità entro la quale l’effimero si sposa al duraturo, il movimento alla stasi, la vita alla morte” e ancora che il lavoro dell’artista “sottrae al divenire la ‘cosa’ trasformandola in KunstDing, cosa dell’arte”295. Gallia prosegue e verbalizza un concetto fin qui inedito, l’artista, non solo crea la vita ma la interpreta anche, per dipingere o scolpire l’artefice deve immedesimarsi nei personaggi, proprio come fanno gli attori. Il nucleo teatrale e moltiplicatorio dell’opera d’arte non è solo un’opportunità per l’artista ma anche una necessità affinché il prodotto sia il più possibile autentico e vivo. Il manufatto artistico, dunque, rimane come testimonianza dell’esercizio di spossessamento del sé e di appropriazione di un altro sé operato dall’artista. La tela si pone come il fantasma di un lavoro psicologico compiuto da Hayez nella solitudine del suo atelier, come i bagliori di un’interpretazione teatrale di matrice tutta privata che, allo stesso modo di una stella estinta il cui splendore continua ad essere visibile ad anni luce di distanza, si propaga nell’infinito del tempo e dello spazio. Il riconoscimento della differenza e l’avvicinamento a mezzi propri di un’altra forma artistica, basi dell’ecfrasi, coinvolgono quindi ancor prima l’arte figurativa stessa che, per dare

294 Ibidem.

l’illusione della realtà, deve guardare a ciò che più di ogni altra cosa pare somigliarle, ovvero il teatro. Tale riflessione non potrebbe trovare un interprete più preciso di quell’Hayez famoso per l’attenzione filologica e l’accurata documentazione bibliografica che fa precedere alle esecuzioni dei suoi dipinti.

Immagini, pensieri Discesi a te dal ciel Son Bice, l’Alighieri, Giotto, Caino, Abel.296

Se non fosse che Hayez non ha mai dipinto alcuno dei personaggi sopra menzionati si potrebbero attribuire ancora questi versi a Gallia, essi appartengono invece a Borghi, il cui Inno correda l’incisione dell’Innocenza (Tav. n. XXXV) di Giovanni Duprè sulle Gemme del 1848. Duprè esordisce sei anni prima all’esposizione accademica fiorentina con l’Abele morente che sconvolge gli addetti ai lavori, increduli di fronte al raggiungimento di vette così alte di espressione formale da parte di un esordiente autodidatta297. L’Abele riapre il dibattito tra gli ‘idealisti’ e Bartolini, il quale, non solo ha elargito preziosi consigli durante la composizione dell’opera, suggerendo di aprire le dita della mano sinistra, originariamente chiuse in un pugno, ma la difende anche perché creata “da un giovane che non sapeva nulla né di Fidia, né di Alcamene, né di altri, che non aveva respirato l’aria afosa dell’Accademia, e che affidatosi alla bella natura l’aveva copiata con fedeltà e amore”298. La polemica monta fino a concretizzarsi nell’accusa che l’Abele sia, in realtà, un calco e, per provarla viene convocato il modello di Duprè. Nonostante la testimonianza del ragazzo, accusato di essersi venduto per un fiasco di vino, i detrattori si ricredono solo al momento delle misurazioni quando, data la discrepanza fra le proporzioni originali e quelle della statua, appare evidente che Duprè ha ingentilito il reale, affusolando le membra, in accordo con il diktat del maestro del ‘bello naturale’.

296

G. BORGHI, L’Innocenza, in Gemme d’arti italiane, cit., a. IV, 1848, p. 38.

297 E. SPALLETTI, Giovanni Duprè, Milano, Electa, 2002.

Come doveva succedere a chi era inspirato dall’esempio dell’originalissimo Bartolini, egli fu tra’ primi a far venire in gran voga il culto dello schietto vero, ma fu anche tra i pochissimi che, guidati da ciò che si direbbe istinto estetico, sanno cogliere la bellezza decorosa del vero, senza tener conto delle sue grette minutezze, che sono incompatibili coll’arte.299

L’Abele morente è presentato all’Esposizione parigina del 1855 dove è elogiato da un discorso così appassionato di Luigi Calamatta da condurre l’opera alla medaglia d’oro della prima classe. Il fatto sorprende il Duprè stesso perché, è vero che l’incisore Calamatta è il rappresentante degli scultori italiani nella giuria internazionale ma visitando lo studio di Duprè qualche anno addietro, lo aveva giudicato scarso e presuntuoso. Calamatta mette da parte il gusto personale e, in forza dell’orgoglio patriottico in terra straniera, esalta le doti di Duprè e, soprattutto, l’influenza di Bartolini. Quest’ultimo, infatti, è stimato in terra francese sia perché ha frequentato l’atelier parigino di David sia per il rispetto degli schemi neoclassici ancora importanti oltralpe e frequentati da Ingres, amico di Bartolini.

L’ascendenza dell’autore della Preghiera del mattino si nota anche nell’Innocenza, terminata in creta già nel 1846, commissionata in marmo dal principe Costantino di Russia alla fine dello stesso anno e inviata a S. Pietroburgo nel 1852. Le forme virginali della ragazza sono avvicinabili a quelle del coevo gesso bartoliniano del

Voto dell’Innocenza ma, soprattutto nel modello in gesso dell’Innocenza, si nota un

tentativo di andare oltre le istanze del maestro. Mentre, infatti, nella copia in marmo le forme sono severe e compassate, in quella in gesso la naturalezza prende il sopravvento concentrandosi nel busto, nei glutei e soprattutto nel particolare, sconveniente in ottica purista, della veste increspata sul ventre. L’Innocenza rispecchia a pieno titolo il tratto tipico delle sculture presentate in questa prima fase delle Gemme, ovvero la valenza allegorica. Nell’Inno di Borghi, tuttavia, non v’è traccia della fragilità espressa dalla statua, ignorata dal poeta, il quale nelle ottave dallo stile classicheggiante, prima tenta senza troppa convinzione un dispiegamento narrativo della figura simbolica per poi concentrarsi sulla lode alla scultura.

Restando in tema di ‘innocenza’ e di testi scarsamente originali si cita ora l’epigrafe composta da Maffei per la statua intitolata Preghiera dell’Innocenza (Tav. n. XXXVI) scolpita da Emilio Santarelli nel 1861. L’opera raffigura una giovinetta inginocchiata in atto di pregare e anche per questo Maffei la paragona a “un’angioletta”300. L’ottava di endecasillabi include il topos dell’immagine divina che, però, vira negli ultimi due versi nel motivo del riscatto nazionale. Quest’ultimo è comprensibile dato l’anno di composizione dell’opera e, tuttavia, come capita spesso, il poeta legge nell’immagine significati quantomeno discutibili.

A differenza della prima, nella seconda fase delle Gemme le opere di scultura presentate offrono una più calda seppur modesta sensualità, come ad esempio La

sposa dei sacri cantici (Tav. n. XXXVII) di Gaetano Motelli.

Non era senza pregio la Sposa dei sacri cantici del fu Gaetano Motelli. Coloro che l’accagionavano d’espressione troppo lasciva, mentre la dovrebbe avere il puro sentimento di una mistica rappresentanza che aborre da ogni sensualità, ne incolpino piuttosto il vecchio Ebreo che, assuefatto a trastullarsi con un migliaio di figliuole d’Eva, fra regine e concubine, volendo, come affermano i commentatori della Bibbia, celebrare gli amori dell’anima con Dio, o della Chiesa con Cristo, usò tale linguaggio da digradarne, non dico le affettate dolcezze erotiche del Metastasio, ma rasentare qualche poeta cinquecentista di oscena memoria. Per altro il Motelli, che certo non avrà scolpita la sua statua con la compunzione del Beato Angelico, nel suo peccato di materialità ha complice il Bernini, il quale non meno carnale nell’esprimere l’estasi di santa Teresa che non pertanto si giudica il suo capolavoro. Il male della statua dello scultore lombardo non istà nell’espressione, ma nella poca intelligenza della forma, senza la quale non v’è buona scultura.301

Le numerose critiche ricevute dalla statua devono aver motivato l’arringa difensiva di Palma sulle Gemme. L’articolista ribatte all’accusa mossa all’artista della scelta di un tema abusato dato che “se ha cuore e fantasia, saprà egli come trarsi d’imbarazzo e darti non già una copia sbiadita, una seconda edizione, per dir così, del tema tolto a riprodurre ma un vero lavoro originale”302. Dopo aver elogiato le infinite possibilità

300

A. MAFFEI, Liriche, cit., p. 350.

301

Esposizione italiana tenuta in Firenze nel 1861, vol. III, Relazioni dei giurati classi XIII a XXIV, cit., p. 310.

ricreatrici dello sguardo artistico, Palma dimostra a livello pratico come la prova di Motelli sia molto diversa dal precedente illustre di Cincinnato Baruzzi, il quale “volle darci l’immagine dell’estasi tranquilla d’una donna che basisce d’amore”303. Motelli, al contrario, “si studiò di rendere lo stato d’esaltamento e di ardore voluttuoso”304 disinteressandosi del sottotesto mistico e allegorico, per attenersi al significato letterale delle parole dell’autore del Cantico dei cantici. In realtà, benché l’intento di Palma sia di difendere l’autore, finisce quasi per denigrarlo, soprattutto quando adduce il motivo della sopramenzionata scelta esecutiva ai “mezzi limitati [della] scultura”305. L’articolista mostra, comunque, di aver colto sia l’originalità della Sposa, racchiusa nell’espressione beata e sognante, nelle braccia intrecciate a metà tra il pudico imbarazzo e il desiderio di simulare l’abbraccio dell’amante, sia la fedeltà alla versione biblica dato che la ragazza è posta a sedere all’ombra di un melograno, di cui si scorgono i frutti per terra, come vuole la tradizione. Di questo e dell’elogio del nudo e del panneggio non v’è traccia nel sonetto di Francesco Scalfi sull’Album dell’Esposizione milanese del 1854. Data l’assenza dell’incisione, e di un contributo in prosa sarebbe lecito aspettarsi dalla poesia una riflessione di spessore. L’aspettativa è, però, disattesa perché il carme è una scialba lode a Motelli, preceduta dal dovuto riferimento al referente veterotestamentario e da due versi, calzanti ma esigui nell’economia del sonetto, nei quali si concentra lo spirito della scultura.

Tocca nell’alma da divino affetto, Languente in atto pel desío del core306

Un altro sonetto, composto da un’allieva di Maffei, Francesca De Lutti, è dedicato a una delle molteplici raffigurazioni della Madonna Addolorata (Tav. n. XXXVIII) create dall’artista bolognese Guido Reni, vissuto fra il 1575 e il 1642307. L’amicizia

fra la famiglia De Lutti e Maffei si approfondisce soprattutto dal 1851 quando, in seguito alla separazione dalla moglie Clara, il poeta e traduttore trentino si stabilisce 303 Ivi, p. 28. 304 Ibidem. 305 Ibidem. 306

F. SCALFI, La sposa de’ sacri cantici, in Album. Esposizione di Belle Arti in Milano, Milano, 1854, p. 121.

a Riva del Garda. Il trasloco, “cosa noiosissima”308, si rivela particolarmente