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L’IMPATTO DELLA CONTRORIFORMA SUI MONASTERI FEMMINILI VENEZIAN

«La storia post-tridentina è tanto importante quanto la storia del Concilio stesso […]. C’erano degli abusi; sono stati fatti dei decreti. La Chiesa nella sua saggezza umana, non poteva pensare che i decreti una volta proclamati avrebbero fatto cessare gli abusi. La “riforma tridentina” fu un’immensa, complessa operazione d’aggiustamento d’ideale […] condotta con perseveranza, alle volte in modo brusco, ma […] realizzata con prudenza, quel rispetto dell’uomo, quel senso del tempo che dimorano nei tratti fondamentali del genio romano e cattolico»152.

2.1. Riforme pre-tridentine e resistenze delle monache

Al principio del XVI secolo la situazione all’interno dei monasteri femminili veneziani era quantomeno problematica: a fronte di monache che prendevano i voti sulla base di una reale spinta devozionale, esistevano, come abbiamo visto, giovani patrizie costrette dalle politiche matrimoniali delle loro famiglie a intraprendere la vita monastica. Monache sinceramente convinte della loro scelta e monache forzate vivevano insieme e condividevano gli stessi spazi nel convento, cosa che non cooperava al mantenimento dei buoni costumi all’interno dei monasteri.

Prima dell’avvento della Controriforma, nei conventi femminili di tutta Italia, peraltro, la frequenza ai sacramenti, la celebrazione costante della messa e il rispetto della clausura per quegli ordini che la prevedevano erano scarsi o nulli. Anche le condizioni economiche dei monasteri non erano delle migliori;

152 Alphonse Dupronte, Discours de clôture, in Il Concilio di Trento e la riforma tridentina. Atti del convegno storico internazionale, Trento 2-6 settembre 1963, Herder, Roma, 1965, II vol., p. 527.

alcuni di essi erano sotto la diretta giurisdizione della S. Sede che veniva rappresentata in loco da prelati non sempre all’altezza della propria missione; altri monasteri erano sotto la diretta dipendenza dei vescovi, molti dei quali non si attenevano all’obbligo della residenza. Inosservanza delle regole monastiche e rilassatezza di costumi erano problemi diffusi in molti conventi femminili. Ovviamente la situazione era differente fra città e città e non tutti i monasteri erano afflitti dalle medesime problematiche. Anche a Venezia la situazione era multiforme, ma la sensazione che i conventi stessero vivendo, all’inizio del XVI secolo, una fase di profonda dissolutezza era avvertita e denunciata da predicatori e cronisti in modo abbastanza chiaro: durante un’omelia presso la basilica di S. Marco il 25 dicembre 1497, Fra Thimoteo da Luca aveva tuonato contro i peccati che si commettevano a Venezia, denunciando: «[…] quando vien qualche signor in questa terra, li mostrate li monasterii di monache, non monasterii ma prostribuli e bordeli publici»153.

Anche Girolamo Priuli, come abbiamo già accennato, aveva manifestato lo stesso sdegno nei suoi Diarii; nel febbraio del 1506 aveva annotato che la badessa del monastero di Ognissanti aveva avuto rapporti carnali con un prete: «Adì 10 dicto. In el monasterio dele monache de Ogni Sancti fu discoperto come la abadessa di quello locho avea abuto carnalmente a farre cum uno prete vicario del cardinale Cornaro, venetto»154. Priuli si sofferma poi a descrivere i

monasteri delle monache conventuali, sia quelli di Venezia che delle isole, come Torcello e Mazzorbo. Non esita a definirli, più che monasteri, «publici bordelli

153 Cfr. Marino Sanuto, Diarii (a cura Federico Stefani), Venezia, 1879, t. I, col. 836. Cfr. anche Pio Paschini, I monasteri femminili in Italia nel ‘500, in AA. VV., Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento. Atti del convegno di storia della Chiesa in Italia, Bologna, 2-6 settembre 1958, Editrice Antenore, Padova, 1960, pp. 31-60 e Innocenzo Giuliani, Genesi e primo secolo di vita del Magistrato sopra monasteri (Venezia 1519-1620), in «Le Venezie Francescane», anno XXVIII, n. 1-2, gennaio-giugno 1961, pp. 42-68.

154 Girolamo Priuli, I Diarii, (Rerum Italicarum Scriptores, tomo XXIV, parte III), vol. II, a cura di Roberto Cessi, Zanichelli, Bologna, 1933, p. 403.

et publici lupanari»155 per la vita rilassata e mondana che vi si conduceva. Era di

somma vergogna, per il diarista, che «[…] le nobile fiole deli primi nobelli et parentadi dela citade, poste in li monasterij et dedicate et disponsate al culto divino, fussenno diventate publice meretrice cum tanta ignominia et vergogna dela citade predicta, che piui non se poteva considerare»156. Priuli lamentava

anche la poca severità con cui le autorità erano intervenute nel reprimere e punire le monache colpevoli di cattiva condotta, dovuta al fatto che molti di coloro i quali erano preposti a reprimere quel genere di scandali avevano figlie o parenti in quegli stessi conventi «[…] donde non se poteva fare in simel materia provixione, che fusse valida, perché, tochando ad molti et ali primi, come se dice, chadauno desiderava silentar et abscondere simel mancamenti»157. La questione era tanto intricata e tanto degenerata che «[…]

non hera altro remedio cha bruxare li monasterij predicti insieme cum le monache per salute del Stato Veneto»158.

Marin Sanuto, come Priuli del resto, nei suoi diari aveva testimoniato le periodiche attività delle autorità nel fissare leggi contro monache ribelli e monachini. Non solo: aveva riportato anche che nell’estate del 1521 una delegazione, composta da sei monache e alcuni loro parenti, guidata da Anzola Boldù, badessa del convento francescano di S. Chiara, si era presentata di fronte al neoeletto doge Antonio Grimani per protestare contro la decisione di affidare la direzione del loro convento ad un gruppo di monache provenienti dai monasteri di S. Croce e S. Maria dei Miracoli.

La decisione si inseriva in un quadro più ampio di riforme avviate nel 1519 dal patriarca Antonio Contarini, con l’appoggio delle autorità civili: punti

155 Girolamo Priuli, I Diarii, (Rerum Italicarum Scriptores, tomo XXIV, parte III), vol. IV, op. cit., p. 34 e p. 115.

156 Ivi, p. 34. 157 Ivi, p. 35. 158 Ivi, p. 115.

cardine ne erano il passaggio dal conventualismo all’osservanza159 e uno stretto

rispetto della clausura, con una rigida regolamentazione dell’accesso alle aree più critiche del monastero, come porte, finestre e parlatorio.

La riforma pensata da Contarini era tanto impopolare fra alcune monache che, ancora, nel maggio 1519, dopo aver comunicato alle monache del monastero delle Vergini la sua volontà di riformarle, il patriarca si dovette confrontare con il diniego della badessa che chiedeva venissero punite le monache colpevoli di cattiva condotta e affermava che in nessun modo le altre avrebbero abbracciato l’osservanza, in quanto esse riconoscevano solo l’autorità del papa. Qualche giorno dopo, il 24 maggio, i parenti delle monache del monastero delle Vergini si fecero portavoci del loro malcontento di fronte al doge, Leonardo Loredan, che respinse i loro argomenti160. In seguito, dopo che

il doge aveva rinunciato ai suoi diritti di giuspatronato sul convento, gli Avogadori, accompagnati da altri ufficiali e da un gruppo di muratori, si recarono presso il convento delle Vergini per operare una separazione degli spazi al fine di potervi introdurre monache osservanti provenienti da S. Giustina161. L’operazione si svolse fra le grida e la lacrime delle monache

conventuali, disperate per la traumatica perdita della loro sovranità sul convento: una volta passato il momento di sconforto, tuttavia, le monache, armate di adeguati strumenti, abbatterono i muri recentemente innalzati162.

Dopo la reprensione del patriarca, la separazione delle due comunità venne

159 Con il termine “osservanza” si indicava il movimento di riforma sorto all’interno di molti ordini religiosi tra la seconda metà del secolo XIV e le prime tre decadi del secolo XVI. Alla “osservanza” si contrappose, appunto, il “conventualismo”, che presupponeva una lettura delle regole dei vari ordini religiosi meno severa. Cfr. a tale riguardo: M. Fois, Voce «Osservanza, Congregazioni di osservanza», in Dizionario degli Istituti di Perfezione, Edizioni Paoline, Roma, 1980, vol. VI, pp. 1036-1057 e Giovanni Odoardi, Voce «Conventualesimo», in Dizionario degli Istituti di Perfezione, op. cit., vol. II, pp. 1711-1726.

160 Cfr. Marino Sanuto, Diarii (a cura di Federico Stefani – Guglielmo Berchet – Nicolò Barozzi), Venezia, 1890, t. XXVII, col. 321.

161 Cfr. ivi, col. 402. 162 Cfr. ivi, col. 407.

ristabilita. La battaglia delle monache, tuttavia, non era finita: per tutto il giorno del 27 giugno e la notte successiva esse suonarono le campane a festa «[…] perchè li era venuto uno breve dil Papa al Legato, vol che le monache siano reformate, ma non li sia posto altre monache nel loro monastero etc.»163. Il doge,

il patriarca e l’intero Consiglio dei Dieci decisero di non prestare fede a tale breve, considerando solo quello in loro possesso con il quale Leone X li incaricava di procedere con le riforme di tutti i monasteri conventuali. Alla fine della vicenda, i primi giorni di luglio entrarono nel convento delle Vergini cinque monache e due converse provenienti da S. Giustina164. L’ultimo passo

delle conventuali del monastero delle Vergini fu quello di inviare, nell’agosto del 1521, di fronte al Collegio, la badessa del convento, Madonna Clara Donato, insieme con una delegazione di monache di altri tre conventi “dissidenti” (S. Zaccaria, S. Maria della Celestia e S. Marta) ed un gruppo di parenti che le sostenevano, per protestare contro l’iniziativa patriarcale. Tuttavia, il nuovo

status quo era destinato a prevalere165.

Il patriarca Contarini non fu più fortunato con la riforma del monastero di S. Zaccaria: le monache si appellarono addirittura alla Rota per verificare che egli avesse il diritto di introdurre delle novità nel loro convento. Durante un incontro con il doge, Nicolò Michiel, un patrizio che aveva figlie e sorelle presso il monastero, prese la parola per sottolineare come le monache conventuali e i loro parenti avessero fatto investimenti di denaro consistenti per finanziare progetti edilizi al fine di costruire e trasformare alcune aree del monastero (come il refettorio) di cui di fatto, al momento, si sentivano espropriati166.

L’atteggiamento restio delle monache alle riforme convinse le autorità a

163 Ivi, col. 409.

164 Ivi, col. 450. Cfr. anche Kate Lowe, Nuns’ Chronicles and Convent Culture in Renaissance and Counter-Reformation Italy, op. cit., pp. 185-201.

165 Cfr. Kate Lowe, ivi, p. 197.

166 Cfr. Marin Sanuto, Diarii (a cura di Federico Stefani – Guglielmo Berchet – Nicolò Barozzi), Venezia, 1891, t. XXXI, coll. 162; 276-277.

procedere oltre: il patriarca lanciò la scomunica contro quanti nel futuro avessero avuto l’ardire di sostenere la causa delle conventuali e rimproverò le monache per la loro fuoriuscita dalla clausura. Anche qui, forti del breve papale che li autorizzava, le autorità civili e il patriarca procedettero a far dividere e murare il convento per introdurvi alcune osservanti di S. Servolo167.

Anche nel monastero della Celestia il patriarca dovette scontrarsi con le resistenze oppostegli dalle monache conventuali che reagivano all’introduzione nel loro monastero di alcune osservanti di S. Daniele.

Le autorità cittadine decisero di dare un impulso decisivo al riordino dei monasteri femminili della città con la nomina, avvenuta il 17 settembre del 1521, di tre nobiluomini che avrebbero costituito e dato avvio alla magistratura dei Provveditori sopra i Monasteri.

Le ragioni della difficoltà di far attecchire le riforme che le autorità laiche ed ecclesiastiche si stavano sforzando di portare a compimento risiedevano in parte, come abbiamo visto, nel fatto che molte fanciulle erano costrette alla vita monacale e che mal volentieri sopportavano di vedere ulteriormente ristretti i margini di libertà che si erano ritagliate a scapito di una rigorosa osservanza. Era, questa, una consapevolezza della autorità, anche in periodo post-conciliare: il 24 dicembre 1580 il già citato nunzio Alberto Bolognetti scriveva che in Senato era diffusa la convinzione che

Riformandosi i Monasterij di Monache e riducendosi a maggior strettezza le figliuole de’ nobili che prima anco vi entravano mal volentieri doppo la riforma non vi vorrebbono entrare in modo alcuno, et vien detto che già se ne vede l’effetto d’alcune che ricusano arditamente di monacarsi doppo il romore di questa visita [patriarcale]. Il che dicono sarebbe causa della rovina di molte famiglie per l’eccessive doti che usano dar i nobili alle figliuole che si maritano168.

167 Cfr. Marino Sanuto, Diarii (a cura di Federico Stefani – Guglielmo Berchet – Nicolò Barozzi), Venezia, 1890, t. XXVII, col. 489.

Ancora una volta venivano relazionate in un legame di causa-effetto l’inflazione delle doti matrimoniali e le monacazioni coatte di quelle fanciulle che non potevano avere accesso al mercato matrimoniale, invece, per la stretta endogamia praticata dalle proprie famiglie. In ogni modo, il discorso del nunzio era chiaro: poiché quella fanciulle prendevano i voti lungi da uno spirito devozionale sincero, non avrebbero tollerato un restringimento ulteriore delle norme della vita monastica, cosa che avrebbe indotto alcune di esse a ribellarsi alle scelte dei propri padri, con un danno notevole all’intera classe patrizia.

Si comprendeva anche che le monache entrate in convento più spontaneamente ma in un momento in cui vigeva un’osservanza non rigorosa delle regole monastiche, non potessero essere sottoposte ad una rigida disciplina troppo repentinamente. Il nunzio continuava poi nella sua missiva esponendo il proprio parere circa la necessità di coprire, lì dove possibile, gli «errori» che occorrevano in alcuni monasteri, piuttosto che propagarne l’informazione perché essi «[…] possono non solamente offender l’honore di persone nobili, ma anco causar discordia et risse fra di loro et questo rispetto s’acosta quasi alla ragion di Stato»169. Ritroveremo tale espressione, ragion di Stato, nella denuncia di suor Arcangela Tarabotti sulla vita infernale delle

monache forzate.

In ogni modo, come ha sostenuto Gabriella Zarri, l’origine della lotta fra Osservanti e Conventuali e le riforme dei conventi femminili intentate dalle autorità non si possono inquadrare solo e soltanto nel movimento di rinnovamento religioso iniziato nel XV secolo. Non vi è dubbio che l’elemento della corruzione abbia giocato un ruolo fondamentale nell’approntare le riforme quattro-cinquecentesche, ma esse non vanno lette come preludio alla più strutturale opera di riforma della Chiesa che avverrà durante il Concilio di

Trento: in primo luogo perché le riforme pre-tridentine portano la firma delle autorità cittadine prima ancora che di quelle ecclesiastiche170 e, in secondo

luogo, perché l’ordinato governo dei monasteri chiamava in causa, più che la moralità, l’onore delle famiglie patrizie della città. Le riforme elaborate prima dell’avvento del Concilio di Trento, dunque, rispondevano non tanto a una questione morale apertasi nei conventi femminili di Venezia (e di tutta Italia), quanto all’esigenza imprescindibile di mantenere e preservare l’onore delle famiglie patrizie le cui figlie popolavano i conventi della città171. «[…] il codice,

che potremmo definire laico, dell’onore nobiliare – scrive Gabriella Zarri – prevale su quello religioso»172. Nonostante la determinazione del patriarca

Contarini e delle autorità laiche, sarà soltanto con l’avvento della Controriforma, come vedremo nelle prossime pagine, che si giungerà ad un cambiamento sensibile nel governo dei monasteri femminili.

2.2. L’avvento della Riforma protestante, il Concilio di Trento e la questione della clausura delle monache

Uno dei maggiori impulsi ad estirpare gli abusi insiti nella vita monastica per la Chiesa cattolica venne dall’avvento della Riforma protestante che aveva ampiamente criticato l’utilità della vita contemplativa, ritendendola inferiore a quella matrimoniale. Per i protestanti, in effetti, monache e regolari erano inclini

170 Autorità cittadine che, a Venezia, a più riprese dal 1533, manifesteranno la volontà di sottrarre il governo delle monache alla giurisdizione dei regolari per affidarlo ai secolari. Cfr. Gabriella Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, op. cit., pp. 79-80. 171 Gabriella Zarri, ivi, pp. 70-81.

più all’ozio che alla spiritualità e costantemente tentati dalla lussuria, motivo per cui i conventi si erano trasformati in pubblici lupanari173.

La propaganda protestante criticava soprattutto il ruolo del celibato e della castità, valori supremi per il monachesimo cattolico ma che per i riformatori erano assolutamente nocivi, soprattutto per le donne perché impedivano loro di adempiere a ruoli ritenuti più “utili” per l’umanità. La castità era condannata come stato innaturale per gli esseri umani, stato che portava alla corruzione sessuale.

Lutero stesso, del resto, aveva dato prova di tale rifiuto per il monachesimo, lasciando l’abito agostiniano che indossava e sposando Caterina von Bora, anch’essa una ex monaca fuggita assieme ad altre consorelle dal convento di Nimbschen.

Uno dei primi atti dei nuovi stati protestanti fu quello di chiudere monasteri e conventi cattolici, confiscando i beni monastici: alle monache, nella maggioranza dei casi, venne restituita la dote con la quale rientrarono presso le loro famiglie di origine; in altri casi fu ad esse concesso di rimanere nei conventi dove alloggiavano impedendo loro di accettare novizie.

Nonostante la linea di azione dura dei riformatori contro monasteri e conventi, sono noti, soprattutto in area tedesca, alcuni episodi di monache che hanno tentato di ribellarsi all’introduzione della Riforma e che hanno difeso le istituzioni religiose. Tale resistenza è stata spiegata da alcuni studiosi, tra cui Silvia Evangelisti, anche alla luce della mancanza di opportunità per le donne nelle istituzioni protestanti: mentre per ex frati e monaci la dismissione dell’abito religioso cattolico poteva comunque aprire nuove opportunità

173 Sull’impatto della Riforma protestante sul monachesimo femminile cfr., fra gli altri: Steven Ozment, When Fathers Ruled. Family Life in Reformation Europe, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts), London (England), 1983, pp. 12-25; Silvia Evangelisti, Storia delle monache. 1450-1700, op. cit., pp. 39-44; Mary Laven, Monache. Vivere in convento nell’età della Controriforma, op. cit., pp. 86-87.

all’interno della fede riformata, per le donne l’unica opzione percorribile era quella di rientrare nelle proprie famiglie di origine per poi sposarsi174.

In effetti, nella propaganda protestante non vi era necessariamente un intento liberatorio per le donne: come ha scritto Mary Laven, la critica dei riformatori ai conventi e alla castità dei religiosi si inseriva in un quadro più ampio per lo stabilimento di un nuovo ordine sociale ancora fortemente patriarcale, basato su matrimonio e famiglia175. In altre parole: le monache

dovevano abbandonare il loro stato verginale per abbracciare quelli più consoni alla natura femminile di mogli e madri.

In un pamphlet del 1523 intitolato “Perché le monache devono lasciare i chiostri con la benedizione di Dio”, Lutero sottolineava come le donne fossero create non per essere vergini ma per concepire e crescere dei figli176.

Ovviamente non tutte le monache si ribellarono all’avvento della Riforma e vi furono città, come Strasburgo, dove la maggioranza di esse lasciò spontaneamente l’abito religioso. In alcuni casi, peraltro, i conventi continuarono a sopravvivere anche in territorio protestante: Lutero stesso infatti, nonostante la condanna del celibato e della vita monastica, aveva previsto che si potessero preservare enclaves in cui perpetrare alcune forme di vita collettiva per donne e uomini che avessero voluto vivere sotto una regola monastica.

Nessuna propaganda funzionò meglio da parte protestante che le testimonianze delle stesse ex monache forzate, le quali furono incoraggiate dai riformatori a scrivere racconti sulla loro vita all’interno del chiostro; uno di questi racconti fu pubblicato, ad esempio, nel 1524: una nobile monaca, Florentina di Ober Weimar raccontava come fosse stata posta in monastero

174 Cfr. Silvia Evangelisti, Storia delle monache. 1450-1700, op. cit., pp. 42-43.

175 Cfr. Mary Laven, Monache. Vivere in convento nell’età della Controriforma, op. cit., p. 86. 176 Cfr. Steven Ozment, When Fathers Ruled. Family Life in Reformation Europe, op. cit., p. 17.

all’età di sei anni e definitivamente costretta ad abbracciare la vita monastica a undici anni, quando era ancora incapace di capire sino in fondo l’impegno che le si richiedeva per diventare una monaca. Verso i quattordici anni si rese conto che non aveva sufficiente forza di volontà per sottomettersi ai tre voti di obbedienza, castità e povertà: confidò allora i suoi dubbi spirituali alla madre superiora che le intimò di non prestare fede a quei pensieri e di accettare felicemente il suo matrimonio con Cristo. Anche quando ebbe l’opportunità di lasciare il monastero, alla fine del suo noviziato, Florentina fu incapace di tradire la fiducia di quanti, fra parenti e consorelle, si aspettavano da lei l’accettazione del suo destino. Così fece la professione di fede, ma quando la Riforma protestante diventò una realtà scrisse una lettera a Lutero per chiedere assistenza e supporto. Una volta scoperta la lettera, i suoi superiori le inflissero una serie di durissime punizioni, dalla quale solo dopo tempo Florentina riuscì a liberarsi fuggendo dal monastero177.

Questo genere di racconti ovviamente, scatenò la reazione cattolica, la cui propaganda non tardò a sottolineare come molte delle monache convertitesi alla Riforma si fossero ritrovate ben più sole e povere rispetto a quando

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