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LE VOCI CRITICHE DELLA CONDIZIONE MONACALE: ARCANGELA TARABOTT

Se su la porta dell’Inferno è scritto: Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate su la porta de’ monasteri ancora puossi scrivere il medesimo211.

3.1 Vita ed opere

Arcangela Tarabotti212 è stata riscoperta dalla storiografia solo in tempi

recenti nell’ambito dei Gender Studies e, forse, più per le tesi originali che non per le sue effettive abilità letterarie: ripetitività, enfasi, esagerazioni, prolissità sono, effettivamente, critiche che le si possono muovere, come sostiene Simona Bortot213. Allo stesso tempo, però, la sua prosa non risente degli eccessi tipici

dello stile barocco: «[…] le sue opere – scrive Ginevra Conti Odorisio – costituiscono un fenomeno unico nella produzione secentesca italiana perché,

211 Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, Il Poligrafo, Padova, 2007, pp. 226-227.

212 Moltissimi gli studi, più o meno recenti, sulla monaca benedettina. Si vedano fra gli altri: Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, Istituto Per la Collaborazione Culturale, Roma-Venezia, 1960; Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, op. cit.; Virginia Cox, The single Self: Feminist Thought and the Marriage Market in Early Modern Venice, in «Renaissance Quarterly», op. cit., pp. 513-581; Meredith Kennedy Ray, Letters from the Cloister: Defending the Literary Self in Arcangela Tarabotti’s “Lettere familiari e di complimento”, in «Italica», vol. 81, n. 1, Spring 2004, pp. 24-43; Elissa Weaver (a cura di), Arcangela Tarabotti. A Literary Nun in Baroque Venice, Longo Angelo, Ravenna, 2006; inoltre, tutte le prefazioni e le introduzioni alle ristampe moderne delle sue opere: Arcangela Tarabotti (a cura di S. Bortot), La semplicità ingannata, op. cit.; Arcangela Tarabotti (a cura di Lynn Lara Westwater e Meredith Kennedy Ray), Lettere familiari e di complimento, op. cit.; Arcangela Tarabotti (a cura di L. Panizza), Paternal Tyranny, University of Chicago Press, Chiacago, 2004; Arcangela Tarabotti (a cura di L. Panizza), Che le donne siano della spezie degli uomini (Women are no less rational than men), Institute of Romance Studies, London, 1994; Francesca Medioli (a cura di), L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, op. cit.; Elissa Weaver (a cura di), Francesco Buoninsegni, Suor Arcangela, Satira e Antisatira, Napoli, Salerno, 1988.

213 Simona Bortot, Introduzione. La penna all’ombra delle grate, in Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 145.

per la loro freschezza ed originalità, non rientrano nei canoni del manierismo e del barocco»214.

La sua scrittura è del tutto originale, portatrice di idee rivoluzionarie per il tempo e sempre a metà strada fra autobiografia e storia: il suo status di monaca forzata si integra e correla profondamente con l’analisi della società veneziana del Seicento che ella propone attraverso le sue opere.

Il nucleo centrale delle sue osservazioni si trova nelle denunce espresse contro i padri famiglia e i padri della Repubblica che costringono le loro figlie ad effettuare scelte di vita per le quali esse non nutrivano alcuna inclinazione.

Arcangela Tarabotti non attacca mai i princìpi della religione cattolica: anzi critica aspramente gli eretici e Lutero215. I suoi strali sono invece rivolti contro

l’uso distorto che gli uomini facevano della religione: ella filtra cioè la propria fede – come sostiene giustamente Simona Bortot – «attraverso le maglie di un rigoroso spirito critico»216.

La Venezia di inizio XVII secolo è al tempo stesso sede della più accesa misoginia e «culla del moderno femminismo europeo», come la definisce Emilio Zanette217. Quest’ultimo, uno dei primi biografi di suor Arcangela, le attribuisce

epiteti quantomeno discutibili: «Maschia Angela!»218 è uno dei tanti commenti

cui lo studioso si lascia andare; e tale non è solo il giudizio estemporaneo dello studioso: anche padre Angelico Aprosio, contemporaneo di suor Arcangela, le riconosceva un intelletto non «da femina, ben sì da maschio»219. Giuseppe

214 Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, op. cit., p. 79.

215 «Fra l’altre impertinenze ch’udirai profferire due saranno le principali: una ch’io nutrisca in me qualche sdegno particolare contro gli uomini. L’altra ch’abbia in odio […] lo stato religioso […]». Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 174.

216 Simona Bortot, Introduzione. La penna all’ombra delle grate, in Arcangela Tarabotti (a cura di

Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 21. 217 Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, op. cit., p. 212.

218 Ivi, p. 106.

219 E. Biga, Una polemica antifemminista del ‘600. La Maschera Scoperta di angelico Aprosio, Biblioteca Civica Aprosiana, Ventimiglia, 1989, p. 140, cit. in Simona Bortot, Introduzione. La penna all’ombra

Portigliotti, altro studioso della monaca benedettina, ha scritto che «Questo suo temperamento poco femminile concorse a sottrarla alle tentazioni della carne, insieme con i tanti malanni che l’afflissero»220. E ancora, più avanti: «Ma fu

specialmente il carattere, maschio nel senso più elevato della parola, che sostenne e animò quella sua ardente energia e quella sua fiera e ribelle volontà»221.

Condividiamo pienamente l’analisi di Simona Bortot riguardo i giudizi che molti suoi interlocutori e studiosi hanno dato della benedettina:

Quest’attribuzione di virilità può suonare quasi beffarda alla luce di quello che comportò alla scrittrice l’essere nata femmina e non maschio. Ma può anche essere letta come una vittoria postuma, conferma del fatto che esistono delle creature, esistono dei caratteri, esistono delle personalità e dei destini, e di fronte ad essi le etichettature sessiste e di genere si sbriciolano da sole in tutta la loro relatività, pochezza, inconsistenza222.

Eppure non furono pochi, anche in tempi recenti, i giudizi negativi sulla monaca: Gino Benzoni, in un articolo del 1961, bolla Tarabotti come «[…] un bizzarro caso letterario»223, mentre, ancora, Maria Cessi Drudi esprime un

giudizio assai severo sulla benedettina che, sostiene,

[…] non riesce ad ispirarci simpatia compassionevole, sia per la ferocia di tono delle accuse ai genitori […] sia per la presunzione, mal dissimulata in falsa modestia, della propria eccellenza, sia per l’arroganza ed esigenza per la pubblicazione delle sue opere e il riconoscimento, sia anche per la sua non

delle grate, in Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 21.

219 Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, op. cit., p. 22.

220 Giuseppe Portigliotti, Penombre claustrali. Con 42 illustrazioni, Fratelli Treves Editori, Milano, 1930, p. 264.

221 Ivi, p. 311.

222 Simona Bortot, Introduzione. La penna all’ombra delle grate, in Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 21.

222 Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, op. cit., p. 22.

223 Gino Benzoni, Emilio Zanette, «Suor Arcangela, monaca del Seicento veneziano», in «Bollettino dell’Istituto di storia della società e dello stato veneziano», III, 1961, pp. 329.

limpidissima condotta da più parti rinfacciatale, e di cui non ci meraviglieremo nel rilassamento del periodo224.

Per ricostruire la vita di Arcangela Tarabotti disponiamo anzitutto delle sue opere: soprattutto nelle Lettere familiari e di complimento, pubblicate nel 1650, la monaca fornisce infatti una serie di indizi, riferimenti e confidenze personali che hanno aiutato gli studiosi ad unire, come in un mosaico, i diversi tasselli della sua esistenza. È difficile depurare tali elementi dalle contaminazioni letterarie di cui sono inevitabilmente imbevuti: sarebbe infatti troppo ingenuo pensare che la nostra autrice abbia rinunciato a costruire, sulla base delle sue esperienze di vita, un vero e proprio personaggio letterario225.

Arcangela Tarabotti, al secolo Elena Cassandra, venne battezzata il 24 febbraio 1604 a Venezia226, città in cui viveva con la sua famiglia, a S. Giuseppe

nel sestiere di Castello, prima e presso il Rio dei Tolentini, nel sestiere di S. Croce, poi227. I suoi genitori228, Stefano Bernardino di Marc’Antonio Tarabotti e

Maria Cadena dei Tolentini, sposatisi nel 1599, diedero alla luce anche altre sei figlie229 (di cui Elena Cassandra era la maggiore) e quattro figli maschi (uno o,

224 Maria Cessi Drudi, Emilio Zanette, «Suor Arcangela, monaca del Seicento veneziano», in «Archivio veneto», V serie, LXVIII, 1961, p. 144.

225 Cfr. Simona Bortot, Introduzione. La penna all’ombra delle grate, in Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 23.

226 E dunque nata in una data imprecisata prima di quel giorno, come sostenuto da Francesca Medioli, Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione, in Atti del Convegno Donne a Venezia. Spazi di libertà e forme di potere (sec. XVI-XVIII), Venezia, 8-10 maggio 2008, http://www.storiadivenezia.net/sito/index.php?option=com_content&view=article&catid=39 %3Asaggi&id=103%3Adonne&Itemid=66, p. 3, consultato il 6 maggio 2011, diversamente dai molti studiosi che riportano erroneamente il 24 febbraio 1604 come sua data di nascita.

227 Cfr. ivi, p. 4.

228 Per la ricostruzione puntuale di alcuni importanti elementi biografici dei genitori di suor Arcangela, in particolare del padre, vedi Francesca Medioli, ivi, pp. 17-28.

229 Una di esse non raggiunse l’età adulta; due si sposarono (Camilla e Lorenzina, la quale si unì a Giacomo Pighetti che sarà punto di riferimento importante per suor Arcangela, come vedremo) e tre (Angela, Caterina ed Innocenza) rimasero nella casa paterna.

più probabilmente, due dei quali morti prematuramente)230. Nessuno di essi, ad

esclusione di Arcangela, fu destinato alla vita religiosa.

Stefano Tarabotti era un chimico-alchimista231, probabilmente zoppo,

handicap che la nostra monaca dice di aver ereditato da parte paterna. Punto molto interessante, messo in luce da Francesca Medioli, è che a quanto risulta dai reperti archivistici sul suo conto, Stefano era in stretti rapporti d’affari con ebrei e/o convertiti232. Questo indizio insieme ad altri (come ad esempio il fatto

che in alcune citazioni delle sue opere suor Arcangela attinga ad espressioni e/o episodi non ascrivibili alla tradizione del pensiero cristiano, nel caso dell’uso del termine “ebrei”, anziché “giudei” ad esempio e come nel caso dell’utilizzo del concetto di divorzio, presente nella tradizione ebraica come “get”, oppure come l’avallo della benedettina rispetto all’antiporta incisa sul suo primo libro, il Paradiso monacale, opera del pittore Francesco Ruschi, figlio di un ebreo convertito) spinge proprio Francesca Medioli a sostenere che Arcangela Tarabotti «[…] provenisse da ambiente ebraico, o cripto-ebraico, se non proprio convertito o marrano»233. È una pista su cui varrebbe la pena

indagare ancora, proprio per la rilevanza che la questione potrebbe avere rispetto alle valutazioni della formazione di suor Arcangela; questo il commento della studiosa:

Piaccia o meno a una recente storiografia cattolica molto apologetica nei confronti della storia delle donne e della funzione ‘liberatrice’ di Santa Romana Chiesa, è ormai abbastanza assodato che nella cultura ebraica, dove pure si possono

230 Il primogenito, Marc’Antonio, nato nel 1599, non si sposò mai, ma forse ebbe dei figli illegittimi, come si può evincere da una frase del testamento materno; Lorenzo invece sposò Lucietta di Tomaso Torre ed ebbe quattro o cinque figli. Cfr. Francesca Medioli, Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione, in Atti del Convegno Donne a Venezia. Spazi di libertà e forme di potere (sec. XVI-XVIII), Venezia, 8-10 maggio 2008, http://www.storiadivenezia.net/sito/index.php?option=com_content&view=article&catid=39 %3Asaggi&id=103%3Adonne&Itemid=66, pp. 3 e 12, consultato il 6 maggio 2011.

231 Veniva però definito anche mercante in un atto del 6 marzo 1599: cfr. Francesca Medioli, ivi, p. 18.

232 Ibidem. 233 Ivi, p. 27.

trovare svariati spunti misoginistici, di fatto le donne – anche all’epoca della segregazione nei ghetti che fu senz’altro, e per loro particolarmente, tremenda – rivestano un ruolo riconosciuto quali compagne e madri, mentre non si dà alcun valore aggiunto alla verginità, si riconosce il valore della sessualità all’interno del matrimonio, si lascia l’istruzione alla libera scelta delle singole, si ammette un decoroso zitellaggio in casa, si incoraggia il lavoro, si riconosce alle donne perfino una funzione religiosa nell’accendere le candele la sera del venerdì per il Sabbath. Senza contare la matrilinearità dell’appartenenza all’ebraismo. Forse è anche a quest’ambiente di formazione, o almeno a questo retroterra famigliare, che suor Arcangela si ispirò per le sue idee rivoluzionarie234.

È un’ipotesi certamente suggestiva, sulla quale però non ci sentiamo di opinare, per la mancanza di elementi certi o che vadano quantomeno al di là di “ragionevoli dubbi”.

Poco o nulla sappiamo invece della madre, che doveva possedere dei rudimenti di alfabetizzazione (conosciamo il suo testamento olografo)235: la

reticenza di Tarabotti a parlare della sua famiglia, in particolare dei suoi genitori, nell’epistolario, può essere in questo senso sentore di una certa freddezza nei loro rapporti. Della madre e di sua sorella Camilla, in effetti, ella fa menzione solo per annunciarne la morte nelle Lettere familiari e di complimento, mentre del padre non abbiamo notizie neanche in quell’occasione. Ci sembra molto interessante l’osservazione avanzata ancora da Francesca Medioli relativa al fatto che nel decennio 1640-1650 in casa Tarabotti, fra fratelli e sorelle della monaca, dovevano essere nati alcuni bambini, cui Arcangela non fa mai cenno nell’epistolario; e questo modo di sorvolare sui nascituri, tuttavia, è difficilmente ascrivibile ad un più generale disinteresse della monaca nei confronti dell’infanzia: altrove si dilunga sui bambini, appena nati o nascituri, o che le facevano visita in monastero236. Anche in questo caso, dunque, la scelta

234 Ivi, p. 28.

235 Cfr. Simona Bortot, Introduzione. La penna all’ombra delle grate, in Arcangela Tarabotti (a cura di Simona Bortot), La semplicità ingannata. Edizione critica e commentata, op. cit., p. 24.

236 Cfr. Francesca Medioli, Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione, in Atti del Convegno Donne a Venezia. Spazi di libertà e forme di potere (sec. XVI-XVIII), Venezia, 8-10 maggio 2008, http://www.storiadivenezia.net/sito/index.php?option=com_content&view= article&catid=39%3Asaggi&id=103%3Adonne&Itemid=66, p. 11, consultato il 6 maggio 2011.

può essere ricondotta a rapporti familiari sostanzialmente freddi (sottolineiamo peraltro che le ultime tre sorelle Lorenzina, Caterina e Innocenza erano nate rispettivamente nel 1613, 1615 e 1617, anno in cui suor Arcangela entra in convento, per cui, effettivamente, dovevano quasi non conoscersi).

Innocenza Tarabotti, in particolare, l’ultimogenita, si era sposata, con una dote di 3.500 ducati237, nel 1642, al medico Francesco Dario238, vedovo, con

diversi figli maschi a carico e di diciassette anni più grande di lei, venticinquenne. L’assenza di questo cognato nelle Lettere familiari e di

complimento contrasta con l’assidua presenza nelle epistole e nella vita della

benedettina di S. Anna di un altro cognato, Giacomo di Giovan Battista Pighetti, avvocato, marito di Lorenzina che aveva sposato nel 1640239. Assenza di

Francesco Dario – scrive giustamente Medioli – tanto più sospetta perché egli aveva sicuramente rapporti con il resto dei Tarabotti, essendo firmatario di tutti i loro atti di morte240.

A Lorenzina suor Arcangela non si rivolge, neanche tramite il cognato Pighetti con cui, come abbiamo detto, era in rapporti costanti, per felicitarsi della nascita di Barbara, neonata figlia della coppia venuta al mondo il 10 luglio 1646. O, quantomeno, se lo ha fatto, non ha inserito tale lettera, diversamente da altre missive di felicitazioni per lieti eventi contenute nell’epistolario, nella raccolta che ha dato poi alle stampe nel 1650.

Gli unici membri della famiglia che appaiono nell’epistolario come destinatarie di due missive scritte da suor Arcangela sono Angela e Caterina, le

237 Cfr. ivi, p. 16.

238 La coppia avrà tre figli: Dario, Stefano e Vincenzo.

239 Lorenzina, una volta rimasta vedova sposerà, nell’aprile 1650, Zacchia Maffei, a sua volta vedovo: cfr. Francesca Medioli, Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione, in Atti del Convegno Donne a Venezia. Spazi di libertà e forme di potere (sec. XVI-XVIII), Venezia, 8-10 maggio 2008, http://www.storiadivenezia.net/sito/index.php?option=com_ content&view=article&catid=39%3Asaggi&id=103%3Adonne&Itemid=66, p. 15, consultato il 6 maggio 2011.

due sorelle non sposate della benedettina. È interessante notare come, alla morte della madre, nel febbraio 1649, Angela (di quarantuno anni) e Caterina (di trentaquattro), dopo essere state per breve tempo ospiti di una parente, Marietta Bonrizzo, cui i fratelli Tarabotti pagavano dieci ducati al mese, dal 1650 presero residenza presso un monastero, prima a Vicenza e poi, almeno nel caso di Caterina, a Venezia, proprio a S. Anna quando però suor Arcangela era già morta241. La situazione delle due sorelle Tarabotti alla morte della loro

madre basta dunque ad intuire le difficoltà di scegliere una vita da nubili nelle famiglie di origine per quelle donne che, una volta diventate adulte e rimaste prive di protezione, erano difficilmente ricollocabili in società.

Arcangela Tarabotti, secondo le ricerche archivistiche di Emilio Zanette, entra come educanda nel monastero benedettino di S. Anna242 di Castello, che

ospitava ai suoi tempi un centinaio di monache243, il 1° settembre 1617, poco più

che tredicenne; ella, però, racconta in una lettera di essere entrata ad undici anni nel chiostro244: dovremmo quindi anticipare al 1615 l’ingresso presso il

convento, dato però in contrasto con gli atti del registro delle camerlenghe di S. Anna che riportano proprio la data del 1617 relativamente al primo versamento della retta di suor Arcangela. Stefano Tarabotti riesce così ad aggirare la prescrizione che vietava alle comunità monastiche di accettare donne con impedimenti fisici, versando un supplemento consistente alla dote, ottenendo per la figlia anche l’esenzione perpetua dall’eventuale suo impiego in uffici

241 Cfr. ivi, pp. 14-15.

242 Teatro, peraltro, nell’inverno 1608-1609, di uno scandalo sessuale importante che aveva coinvolto almeno una decina di monachini patrizi: cfr. Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, op. cit., pp. 41-42 e Francesca Medioli in Tarabotti fra storia e storiografia: miti, fatti e alcune questioni più generali, op. cit., pp. 10-12.

243 Francesca Medioli, ivi, p. 9, sostiene che S. Anna ospitasse, ai tempi della stessa permanenza di suor Arcangela, fra le 30 e le 40 monache professe.

244 Cfr. Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complimento (a cura di Meredith Kennedy Ray e Lynn Lara Westwater), op. cit., p. 158, lettera 99. Il dato era stato accettato da Giuseppe Portigliotti, Penombre claustrali. Con 42 illustrazioni, op. cit., p. 253.

monastici245. La sua vestizione avvenne l’8 settembre 1620, la professione il 24

settembre 1623 e la consacrazione nel 1629. Le fasi della vita religiosa di Tarabotti sono contraddistinte quindi tutte da un certo ritardo rispetto allo standard, il che può sottendere una certa resistenza della giovane Elena Cassandra a varcare la soglia del monastero246.

Morirà il 28 febbraio 1652, quattro giorni dopo aver compiuto quarantotto anni. Nei necrologi di S. Giacomo si legge: «Adì 28 febbraio […]. La molto reverenda madre Arcanzola Tarabotto, monacha professa in Sant’Anna, d’anni 46 in circa, da febre e cataro già da 15 giorni, il medico Squadon nel detto monasterio»247.

Nessuno scandalo di natura disciplinare o sessuale colpì la sua reputazione, almeno alla luce dell’evidenza documentaria, nonostante l’ipotesi avanzata da Emilio Zanette, il quale ha immaginato, diremmo quasi insinuato, che alla base della sua irrequietezza rispetto alla vita monacale vi fosse un «dramma d’amore», simile a quello da cui fu travolta Marianna de Leyva248. È vero che

Tarabotti denuncia nelle sue opere e a più riprese le insidie della carne, ma questo deve convincere maggiormente della sua onestà intellettuale: è un’operazione coraggiosa da parte di una monaca cui veniva richiesto, fra le altre cose, attitudine al silenzio. Tarabotti non sottace neanche le verità più scomode, come in questo caso, ma ciò non può permettere di attribuirle episodi niente affatto documentati: il merito della nostra autrice risiede proprio nel denunciare per conto della collettività e mai per un’ansia individualistica. Tanto che, come vedremo, la sua analisi continuamente si restringe ed allarga intorno

245 Cfr. Gabriella Zarri, Presentazione, in Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complimento (a cura di Meredith Kennedy Ray e Lynn Lara Westwater), op. cit., p. 13.

246 Cfr. Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, op. cit., p. 119.

247 Cit. in Francesca Medioli (a cura di), L’«Inferno monacale» di Arcangela Tarabotti, op. cit., p. 186. 248 Emilio Zanette, Suor Arcangela monaca del Seicento veneziano, op. cit., pp. 122-123. Dobbiamo precisare che Zanette, a p. 125, rivela poi, effettivamente, che, dopo uno spoglio delle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Venezia, suor Tarabotti non fu mai coinvolta in scandali di natura sessuale.

alla condizione delle monacate a forza, in particolare e a quella delle donne, più in generale.

Nulla sappiamo del periodo che va dalla vestizione alla pubblicazione della sua prima opera, cioè dal 1620 al 1643: la famiglia di suor Arcangela, a quanto risulta dai documenti archivistici, non partecipò finanziariamente neanche ai lavori di ristrutturazione della chiesa del monastero iniziati nel 1634249. Dovette

essere però in questo periodo che suor Arcangela strutturò la propria identità e

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