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L’intersezione desiderio-bisogni come indicazione normativa

Capitolo III. Desiderio e bisogni: dall’originario al normativo

3.2. L’intersezione desiderio-bisogni come indicazione normativa

Abbiamo visto che, nella prospettiva antropologico-filosofica di Tommaso, l’intersezione desiderio-bisogni si dà sul piano originario; nondimeno, ad esso non si limita: il passo successivo consiste nel riconoscere in questa intersezione un riferimento per l’agire.

126 Scrive Fabrizio Turoldo: «La razionalità [...] permea di sé tutto il nostro essere, compreso il nostro

essere finito e corporeo, i nostri bisogni più elementari» (F.TUROLDO, Le malattie del desiderio. Storie di tossicodipendenza e anoressia, cit., p. 110).

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Ci sembra che la giusta insistenza con cui Carmelo Vigna sottolinea, all’interno dell’uomo, il primato del trascendentale sull’empirico, dell’ontologico sull’ontico, metta un po’ in ombra il fatto che l’ uomo si costituisce come intreccio – certamente, ordinato – di queste due dimensioni: «La ricerca dei moderni ha infatti dimostrato che all’uomo è propria una dimensione (il pensiero nella sua trascendentalità) rispetto alla quale anche la sua struttura ontica deve dire riferimento, e perciò restarne dominata. L’ontico è per l’ontologico, e non viceversa. Questo comporta che la realizzazione della destinazione ontologica deve essere sempre anteposta alla realizzazione della destinazione ontica (e tanto più alla realizzazione di una parte di questa). L’uomo, del resto, è stato sempre trattato come quell’ente che può mettere in gioco la propria onticità (la “vita”) se ne va del suo rapporto con l’essere (l’eroe greco, il “martire” moderno, cristiano o non cristiano che sia)» (C. VIGNA, La riflessione sulla natura umana nella tradizione speculativa, cit., p. 96). Ci sembra improprio, almeno mettendosi nella prospettiva di Tommaso, contrapporre una realizzazione della destinazione ontologica a una realizzazione della destinazione ontica: ci pare che nel pensiero dell’Aquinate – parliamo dell’Aquinate dei testi, non di quello di tanta manualistica (cfr. e.g. la lettura di Tommaso orientata in senso antropologico-dualista proposta in A. GALLI O.P., Morale della legge e morale della spontaneità secondo s. Tommaso, cit., p. 118 e p. 121) – l’ambito categoriale dei bisogni possa essere visto come luogo autentico di intercettazione delle esigenze destinali umane. A tale proposito, osserva opportunamente Fabrizio Turoldo: «Il desiderio di pranzare non è solo il bisogno finito di sedare la propria fame, ma è anche il desiderio infinito di essere riconosciuti da un’altra coscienza (anch’essa infinita), di stabilire con essa qualche forma di alleanza, di essere da essa consolati o di riceverne delle conferme importanti. [...] Qualcosa di analogo si potrebbe dire per il desiderio sessuale, che a torto Freud riduceva a semplice libido. [...] Il desiderio sessuale non è solo una vis a tergo, che ci spinge alle spalle, ma è anche finalizzato a un certo oggetto e a un certo bene. Attraverso la sessualità ci si esprime infatti anche il reciproco riconoscimento» (F.TUROLDO,Le malattie del desiderio. Storie di tossicodipendenza e anoressia, cit., pp. 106-107).

a) Ex parte categoriali

Partendo dal categoriale, l’indicazione che ci viene fornita dall’analisi dell’intreccio originario è che i bisogni umani non vanno vissuti come una dimensione chiusa in se stessa: si tratterebbe, infatti, di un misconoscimento della loro autentica realtà, che li vede innestati in una tensione oltrepassante il loro semplice termine particolare di appagamento. Si tratterà, al contrario, di vivere i bisogni nella consapevolezza di questa tensione. Fin qui il discorso può sembrare astratto, ma un’esemplificazione ci aiuterà a mostrare quanto esso, invece, sia concreto128.

Rimanendo alla considerazione del dettato tommasiano, intendiamo rifarci ad un luogo in cui il Dottore Angelico tratta della nutrizione, che – come si è visto – fa parte della sfera di bisogni legati all’autoconservazione. Scrive l’Aquinate nelle Quaestiones disputatae de malo: «Ad primum ergo dicendum quod, regula rationis haec est, ut homo sumat cibum secundum quod convenit sustentationi naturae, et bonae habitudini

hominis, et conversationi eorum cum quibus vivit, ut dicitur in III Ethicorum»129; vivere

il bisogno umano di nutrirsi in maniera umana significherà quindi non avere il cibo come orizzonte esclusivo di riferimento130: il mangiare non consisterà nella mera assunzione di alimenti, bensì in un nutrirsi in cui trovi spazio l’integralità dell’umana esistenza. A ciò si riferisce il luogo testé riportato, allorché fa intervenire nel nutrirsi veramente umano la condivisione con gli altri; condivisione che è certamente condivisione di una tavola e di buoni cibi, ma anche della propria vita e – in ultima istanza – del proprio destino.

b) Ex parte transcendentali

Se ci mettiamo nella prospettiva del trascendentale, ovverosia di quella che è legata al proprium del destino umano, l’originaria intersezione ci avvisa che non può darsi preoccupazione destinale che prescinda in toto dai bisogni: il rapporto con

128 Per una trattazione che consideri ciascun livello di bisogni, rimandiamo a P.P

AGANI, Appunti per il corso di filosofia morale, cit., Parte V, lez. 2.

129 Qq. Dd. De Malo, q. 14, a. 1, ad 1.

130 Anche se il nutrirsi specificamente umano non manca di coinvolgere pure il cibo, il quale, grazie

all’arte gastronomica, si carica di un significato simbolico che lo riscatta dall’essere un semplice mezzo di sostentamento.

l’Assoluto è tratto costitutivo dell’uomo; nondimeno è rapporto che vede in gioco pur sempre un animal rationale, non una sostanza separata. Pertanto, se si pone la questione del destino, si fa riferimento a un desiderio che è certamente adpetitus intellectivus sive rationalis, ma che – al contempo, in forza dell’unità della forma sostanziale – attraversa anche gli appetiti inferiori; ne segue che qualunque dottrina morale che divarichi desiderio e bisogni, e sacrifichi – o perlomeno non consideri – i secondi per far spazio solo al primo, venga a porsi in contraddizione con la stessa struttura dell’uomo131. Quest’esigenza di composizione ci è presentata anche dalla tradizione cristiana come cifra costitutiva della morale evangelica. A tal proposito è significativo il capitolo 25 dell’Evangelo secondo Matteo, in cui l’amore del prossimo – ovverosia il rispondere ai bisogni altrui – è mostrato come il banco di prova dell’amore per Dio:

Cum autem venerit Filius hominis in gloria sua, et omnes angeli cum eo, tunc sedebit super thronum gloriae suae. Et congregabuntur ante eum omnes gentes; et separabit eos ab invicem, sicut pastor segregat oves ab haedis, et statuet oves quidem a dextris suis, haedos autem a sinistris. Tunc dicet Rex his, qui a dextris eius erunt: “Venite, benedicti Patris mei; possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. Esurivi enim, et dedistis mihi manducare; sitivi, et dedistis mihi bibere; hospes eram, et collegistis me; nudus, et operuistis me; infirmus, et visitastis me; in carcere eram, et venistis ad me”. Tunc respondebunt ei iusti dicentes: “Domine, quando te vidimus esurientem et pavimus, aut sitientem et dedimus tibi potum? Quando autem te vidimus hospitem et collegimus, aut nudum et cooperuimus? Quando autem te vidimus infirmum aut in carcere et venimus ad te?”. Et respondens Rex dicet illis: “Amen dico vobis: Quamdiu fecistis uni de his fratribus meis minimis, mihi fecistis”. Tunc dicet et his, qui a sinistris erunt: “Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum, qui praeparatus est Diabolo et angelis eius. Esurivi enim, et non dedistis mihi manducare; sitivi, et non dedistis mihi potum; hospes eram, et non collegistis me; nudus, et non operuistis me; infirmus et in carcere, et non visitastis me”. Tunc respondebunt et ipsi dicentes: “Domine, quando te vidimus esurientem aut sitientem aut hospitem aut nudum aut infirmum vel in carcere et non ministravimus tibi?”. Tunc respondebit illis dicens: “Amen dico vobis: Quamdiu non fecistis uni de minimis his, nec mihi fecistis”. Et ibunt hi in supplicium aeternum, iusti autem in vitam aeternam”132.

La lettura che abbiamo appena proposto si presenta, ancora una volta, come un corollario di uno dei capisaldi dell’antropologia di Tommaso: l’unicità della forma

131 Si sottintende che ciò si verifica qualora si parta da un’antropologia unitaria, come quella di Tommaso.

Se le premesse antropologiche sono differenti, e questa differenza sta nel fatto che l’uomo viene presentato diviso in sé stesso – come avviene nel Kant della Metafisica dei costumi (cfr. I. KANT, Metafisica dei costumi, cit., Parte I, Suddivisione della metafisica dei costumi in generale, II) – , allora questa contrapposizione si presenta in linea con la struttura dell’uomo.

sostanziale; nondimeno, non è facile ritrovarla nel dettato di coloro che hanno voluto mettersi alla scuola dell’Aquinate, né in quello di coloro che hanno considerato il pensiero tommasiano come semplice oggetto di studio. A tal proposito, rappresenta una felice eccezione il padre Joseph De Finance, al cui sguardo attento non è sfuggito questo fondamentale sviluppo; vogliamo pertanto riassumere – e, al contempo, confortare – quanto già da noi scritto in questo sottocapitolo con le parole del gesuita francese:

Natura e apertura sono in noi [...] indissociabili. L’aprirsi è un aspetto della natura umana (o spirituale) e la natura umana è la modalità propria del nostro aprirci. Perciò possiamo essere fedeli alla nostra natura, possiamo vivere nella pienezza da uomini, solo “aprendoci” alla verità e alla generosità. Chiudersi nella menzogna e nell’egoismo è rinnegare in se stessi l’umanità. E l’aprirsi autentico è allo stesso tempo “orizzontale” e “verticale”: verso gli altri e verso l’Altro, verso i “tu” e verso Colui la cui soggettività fonda per noi la possibilità di dire “io” (je) e “tu”. Ecco perché misconoscere nell’uomo la dimensione metafisica e religiosa equivale ad appiattirlo [...]. Ma, reciprocamente, non possiamo aprirci in modo autentico, accedere alla vera totalità, essere fedeli all’Ideale della ragione se non a condizione di seguire la linea tracciata dalla nostra natura. Volere s’“infinitiser” al di fuori di essa significherebbe perdersi in un’infinità illusoria. E oggi molti si smarriscono cercando la libertà nella negazione di ciò che condiziona l’ingresso alla vera libertà. [...] Sta di fatto che la mia natura non sta lì, davanti a me, come una cosa, un oggetto, uno strumento il cui valore in definitiva nascerebbe dalla mia libera valutazione. È vero, io non coincido puramente e semplicemente con essa [...]. E tuttavia, essa non è, per me, realmente altro. Il mio valore personale la penetra: essa esige da me il

rispetto, [...] la natura umana, per effetto della sua apertura radicale sul tutto, ha

già in se stessa, anteriormente ad ogni scelta, valore di totalità133.