Le origini di ciò che sarebbe diventato l’Activity-Based Costing sono accuratamente descritte da Colwyn Jones & Dugdale (2002). L’ABC trae origine dalle pratiche attuate da un piccolo numero di aziende manifatturiere statunitensi nel 1985, come poi riportato in alcuni casi utilizzati nei corsi della Harvard Business School scritti da Robin Cooper nel 1986. Nel 1988 queste pratiche furono etichettate come "un nuovo approccio" che produceva "informazioni basate sull'attività" e fu annunciato come "un progetto per la
contabilità direzionale di livello mondiale" (Johnson, 1988). Un anno dopo questa nuova
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1.4.1 I primi case studies
Kaplan (1986), come già riportato nel precedente paragrafo, riportò i risultati di una prima serie di esperienze maturate in aziende (tra cui Hewlett-Packard, Intel, IBM e Westinghouse) leader nello sviluppo di CAM, JIT e TQM e che, a rigor di logica, avrebbero dovuto sviluppare un altrettanto innovativo sistema di contabilità direzionale. La sua indagine, però, non fece che confermare l’arretratezza di questi ultimi rispetto ai fenomeni che sulla carta avrebbero dovuto rappresentare (p. 75). Tutt’altra fortuna ebbe nello stesso periodo uno dei colleghi di Kaplan, Robin Cooper, il quale collaborò alla creazione di quello che fu probabilmente il primo prototipo di ABC, ovvero quello della Schrader Bellows (Cooper, et al., 1985). William F. Boone, Vicepresidente Pianificazione e Sviluppo dell’azienda, capì subito che, in una società diversificata, non era raro che alcuni prodotti sovvenzionassero gli altri e che i tradizionali sistemi di contabilità dei costi mascherassero sistematicamente il danno causato dalla perdita di determinate divisioni e linee di prodotti (p. 321). Già nel 1983, Boone analizzò la redditività dei prodotti del gruppo e scoprì che uno degli stabilimenti produsse oltre 2.700 prodotti finali diversi e immagazzinò fino a 20.000 parti, segno inequivocabile dell’eccessiva proliferazione dei prodotti dettata dalle strategie di differenziazione.
L'azienda disponeva di un sistema tradizionale di determinazione dei costi standard dove, per calcolare i costi indiretti da imputare ai prodotti, i costi dei reparti di supporto venivano assegnati ai reparti di produzione, creando un pool di costo separato per ogni reparto produttivo, il cui ammontare sarebbe stato poi imputato ai prodotti utilizzando come driver le ore lavorative dirette lavorate nel dipartimento (pp. 324-325). Ciò, però, non si dimostrò sufficiente e le procedure di allocazione dei costi rimasero troppo semplicistiche e non rappresentative della realtà economica aziendale. I manager decisero, quindi, di intervenire e di sviluppare una nuova metodologia per allocare gli
overhead, compresi quelli derivanti dalle attività commerciali e amministrative, per primi
intuendo come la loro nomea di costi prevalentemente fissi fosse inesatta.
Successivamente, anche Kaplan ebbe la possibilità di partecipare a un caso che contribuì notevolmente alla nascita dell’ABC. Infatti, anche la divisione componentistica della John Deere sperimentò un nuovo metodo di calcolo dei costi (March & Kaplan, 1987). Precedentemente, l’azienda disponeva di un sistema di contabilità dei costi standard che utilizzava le ore di manodopera diretta come base di allocazione degli overhead, poi
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integrato dall’utilizzo anche delle ore macchina. Nel 1985 partì il progetto che si trasformò nell’ABC, dove vennero individuate sette nuove determinanti che potevano spiegare l’utilizzo degli overhead, le quali vennero poi analizzate stimando le percentuali dei vari costi che erano generate da queste attività. Al termine del progetto l’ABC fu immediatamente adottato nei processi decisionali, impattando sulla predisposizione delle commesse, sulle decisioni di make or buy e, addirittura, sul layout dello stabilimento (p. 304). Il caso della John Deere mostra chiaramente come l’ABC venne visto come un miglioramento del tradizionale sistema di costing. Invece di due pool di costi generali ve n’erano sette e le stime dei costi erano molto più affidabili. Il sistema fu stato ovviamente visto come un mezzo per meglio allocare (seppur non ancora tracciare11) gli overhead. La genesi di ABC sembra risiedere, quindi, nei casi Schrader Bellows e John Deere. Entrambe “si concentravano sulla rideterminazione del costo di prodotto in modo da
informare meglio il management in merito alle conseguenze economiche di determinate attività e in entrambi i casi sono stati calcolati i costi del prodotto che includevano allocazioni riviste dei costi generali di produzione e, nel primo caso, anche dei costi amministrativi e commerciali” (Colwyn Jones & Dugdale, 2002) con le conseguenti azioni
manageriali che da essi trassero origine.
Ben presto si susseguirono altri casi di aziende che adottarono in modo indipendente un nuovo sistema di calcolo dei costi, dalla stessa struttura sottostante, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, oltre che in settori totalmente diversi da quello manifatturiero, come quello bancario e dei trasporti, portando a una vera e propria “esplosione” dell’Activity-Based Costing.
1.4.2 L’Ascesa dell’Activity-Based Costing
I risultati raccolti da Cooper, Kaplan e Johnson posero le basi teoriche dell’Activity-Based Costing. Sebbene il termine non sia effettivamente usato in “Relevance Lost” (Kaplan & Johnson, 1987b) è questo il libro che delinea i tratti fondamentali di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo e innovativo sistema di contabilità direzionale.
Ad esempio, si individua la necessità di disporre di centri di costo chiaramente definiti e di misure di performance, diverse dalle ore di lavoro diretto, che potessero facilitare il
11 La differenza tra i due termini è sostanziale e fa riferimento all’arbitrarietà dell’allocazione che si contrappone
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controllo operativo, come, ad esempio, le misure fisiche (chilogrammi, metriquadri ecc.), il numero dei set-up o il numero di ordini ricevuti, in modo da poter meglio identificare i fattori che determinano il consumo delle risorse da parte dei vari dipartimenti. Da ciò deriva anche l’assunto che “praticamente tutti i costi siano variabili” (p. 234) e che utilizzare i soli costi variabili nel breve termine per la determinazione dei prezzi, del mix di prodotto e per le decisioni di approvvigionamento fosse assai pericoloso in quanto tali scelte “implicano l’impegno di capacità produttiva”, la quale deve essere sempre vista e analizzata in un’ottica di medio/lungo termine tenendo, quindi, conto anche dei costi variabili nel lungo periodo. Andava perciò eliminata la prassi che considerava i costi fissi come necessari alla produzione, ma non influenzati dalle decisioni relative alla produzione stessa o ai prodotti, evidenziando, invece, quello che era il “costo della
diversità e della complessità” (p. 241). Di conseguenza, secondo gli autori un buon sistema
di costing è quello che “misura i costi a lungo termine di ciascun prodotto” (p. 234), includendo anche i "costi esterni alla fabbrica" (p. 244), in quanto “virtualmente tutte le
attività svolte all’interno di una azienda sono finalizzate alla produzione ed alla vendita di prodotti/servizi e, per questo, andrebbero considerate parte del costo di prodotto” (Kaplan
& Cooper, 1988, p. 96), Infatti, anche questo tipo di costi contribuiva al progressivo aumento della complessità che sfociava in dati di costo distorti. Solo due tipi di costi non sarebbero dovuti afferire ai prodotti, ovvero i costi di ricerca e sviluppo e soprattutto, i costi della capacità produttiva inutilizzata.
Johnson (1988) espanse ulteriormente il perimetro di interesse dell’ABC, constatando come, per poter diventare leader di mercato, le aziende avrebbero dovuto “gestire le
attività e non i costi” (p. 23). Johnson non si interessò, quindi, alla mera misurazione dei
costi, bensì si focalizzò su come le attività generatrici di questi ultimi potessero essere gestite. Ciò era anche coerente con le teorie proposte da Porter, secondo cui le attività (e il modo in cui erano svolte) risultavano essere le principali fonti del vantaggio competitivo, essendo diretta conseguenza delle strategie aziendali. Egli per primo stabilì che si sarebbero potuti eliminare gli sprechi insiti l’organizzazione tramite la definizione del flusso delle attività, l’identificazione delle fonti di valore per il cliente in ciascuna di esse, il miglioramento delle attività “a valore aggiunto” e l’eliminazione di quelle che non inficiavano il valore percepito dal cliente. Per fare questo v’era bisogno di un sistema come l’Activity-Based Costing, capace di supportare le fasi di questo processo anche attraverso l’utilizzo di misure di performance non finanziarie che ben si sarebbero integrate con i
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paradigmi JIT e TQM sviluppatisi in quello stesso periodo. Tramite questo approccio, Johnson “stabilì un’agenda ben più ampia per l’ABC che poteva, quindi, essere visto come il
cuore di un nuovo approccio manageriale, anticipante lo sviluppo di quello che sarà poi l’Activity-Based Management (ABM)” (Colwyn Jones & Dugdale, 2002, p. 138).
Una volta che l'idea dell'Activity-Based Costing si consolidò, non ci volle molto perché divenne popolare, anche grazie all’apporto di alcune riviste come la Harvard Business Review e Management Accounting che, tra il 1988 e il 1989, pubblicarono diversi articoli dove manager e contabili vennero istruiti su come “un sistema di costo non era
abbastanza” (Kaplan, 1988), che “i sistemi di calcolo dei costi tradizionale distorcevano il costo di prodotto” (Cooper & Kaplan, 1988), che “una soluzione è a portata di mano ed è l'Activity Based costing” (Johnson, 1988), che ciò avrebbe permesso ai manager “di misurare i costi correttamente e prendere le corrette decisioni” (Kaplan & Cooper, 1988),
rendendo l’ABC “la chiave per i costi futuri” (Cooper, 1989). Inoltre, anche alcune delle grandi società di consulenza strategica, come KPMG, iniziarono ad offrire l’ABC tra i loro servizi, alimentando la diffusione a livello globale.
I teorici dell’ABC offrirono, quindi, un’alternativa ai sistemi tradizionali con delle enormi potenzialità strategiche, attraverso la produzione di dati di costo più accurati non perché più precisi o più oggettivi, bensì perché molto più realistici e rappresentativi le diverse realtà aziendali. L’affidabilità di queste informazioni avrebbe permesso di focalizzarsi sui prodotti e sui processi col maggior potenziale di incremento dei profitti, migliorando le strategie e la loro esecuzione tramite processi decisionali migliori. In un contesto favorevole alla sua introduzione, l’Activity-Based Costing (assieme alle altre nuove tecniche manageriali) conquistò notevole attenzione e si sarebbe dovuto affermare come “Il modello di riferimento per la contabilità direzionale di classe mondiale” (Johnson, 1988).
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