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L’ora del Mattarellum

1.3 La Seconda Repubblica (1993-2005)

1.3.2 L’ora del Mattarellum

Sull’onda dell’esito del referendum popolare abrogativo del 18 aprile 1993, il sistema di elezione di Camera e Senato in vigore fin dal 1946 fu dunque rimpiazzato da un sistema elettorale più marcatamente misto, in senso selettivo (c.d. “svolta maggioritaria”). Trattasi del sistema, introdotto dalle leggi 4 agosto 1993 n.276 (Senato) e 277 (Camera dei deputati), giornalisticamente denominato “Mattarellum” (traendo ispirazione dal nome del relatore dei testi, Sergio Mattarella), che ora descriveremo nei suoi tratti essenziali23.

Il sistema di elezione alla Camera

Per l’elezione della Camera dei deputati fu prevista l’applicazione di due sistemi di voto diversi, anche se tra loro funzionalmente collegati (secondo le caratteristiche dei sistemi misti ‘a combinazione’24) incorporati da “doppie

schede”, che rendevano possibile per l’elettore votare distintamente:

23 TRUCCO L., Fondamenti di diritto e legislazione elettorale, p. 113-117, Giappichellie Editore, 2010 24 Sistemi elettorali, cioè, in cui risulta una combinazione di elementi proporzionali e di elementi maggioritari. Possiamo classificare questi sistemi elettorali in base alla presenza o all’assenza di un collegamento (linkage) tra i due canali di rappresentanza. La presenza di un collegamento fa si che noi ci troviamo davanti a un sistema M.M.P (Mixed Member Proportional), l’assenza di un collegamento fa si che il sistema si presenti come un M.M.M. (Mixed Member Majoritarian). Il primo di questi sistemi prevede un’attribuzione di seggi affidata al canale proporzionale con scorporo da questi dei seggi vinti all’uninominale, con evidenti vantaggi per i partiti minori (come fu appunto per l’Italia col Mattarellum); mentre il secondo vede correre parallelamente i due canali di [prosegue]

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 per la parte proporzionale; per cui il voto era singolo categorico blindato;

 per la parte maggioritaria: per cui il voto era invece singolo categorico preferenziale

All’elettore era dunque dato modo di esprimere due voti: uno per il maggioritario, dov’erano in competizione in forma rigorosa (dovendo essere inscindibilmente associati alle rispettive liste/coalizioni di liste di appartenenza che li appoggiavano), i candidati (fino ad un massimo di cinque candidature); e uno per la parte proporzionale, dove invece concorrevano le liste di partito (assai corte: quattro candidati al massimo), per cui i nomi dei candidati, pur sempre prestampati, erano però collegati ad un unico simbolo (di partito).

Ciò comportava che gli elettori erano chiamati ad esprimere la propria scelta sulla prima scheda tracciando un segno sul nome di uno (solo) dei candidari proposti, corrispondentemente ai simboli di quella/quelle liste collegate che l’elettore medesimo avrebbe poi ritrovato sulla seconda scheda: ed infatti non era prevista la possibilità di indicare una preferenza diversa (c.d. “voto diviso”) dal nome del candidato prestampato sulla scheda (v. l’art.3 della [continua] rappresentanza e vede i seggi attribuiti ai due canali sommarsi semplicemente perpetrando

in questo modo la sproporzionalità del sistema a favore dei partiti maggiori che hanno più possibilità ovviamente di vincere un collegio uninominale (N.d.A.).

Per approfondimenti sul tema vedi, tra gli altri:

SHUGART M.S. and WATTEMBERG M.P., (eds),Mixex-Member Electoral Systems. The Best of Both

World, p.50-105, Oxford: Oxford University Press, 2001;

PIZZORUSSO A., I nuovi sistemi elettorali per la Camera dei deputati e per il Senato della repubblica, p.123-145, in Luciani M. e Volpi M.(a cura di) Riforme elettorali, Roma, Laterza, 1995; MANNEHIMER R., SIANI G., Il mercato elettorale dei partiti tra vecchio e nuovo in La rivoluzione

elettorale: l’italia tra la prima e sconda repubblica, p. 37-71, Milano Anabasi, 1994; e

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legge 277 1993). Tale sistema era portato alle estreme conseguenze dal meccanismo del voto prefigurato dalla seconda scheda, in cui gli elettori esprimevano un’opzione già all’epoca interamente partitica, dato che quest’ultima non rendeva più disponibile il voto di preferenza (previsto dalla vecchia legge proporzionale), ma soltanto quello di lista, “costringendo” gli elettori a tracciare, al più, un segno sul simbolo della lista, equindi ad aderire alla graduatoria dei candidati predisposta da ciascun partito.

Interessante è notare come, nelle elezioni politiche che si svolsero all’insegna di questo sistema di voto, una quota significativa di elettori avesse utilizzzato il proprio doppio voto (proporzionale e uninominale) come se si fosse trattato di una specie di secondo turno, o, come è stato altrimenti considerato, di una sorta di “maggioritario imperfetto” già nel voto. Così, mentre nella parte proporzionale la scelta fu operata tenendo conto della tradizionale logica del partito più vicino o affine (c.d. “voto del cuore”), nella partr maggioritaria fu piuttosto privilegiata in taluni casi la coalizione che – al di là delle preferenze personali – fu giudicata più efficace nel determinare e incidere su uno specifico scenario nazionale (c.d. “voto razionale”). E, in effetti, se si esaminano i risultati delle elezioni, si può verificare come proprio quell’elettorato che, nelle due schede a disposizione della Camera, decise di votare secondo modalità “disgiunte”, ebbe un sicuro rilievo, insieme ad altri fattori, sull’esito delle consultazioni.

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Tale sistema di voto si innestava su di un formante circoscrizionale che vedeva il territorio nazionale diviso:

 in 475 collegi uninominali: nei quali, fermo il divieto di presentarsi in più di un colleggio (divieto di candidature pluricollegiali), veniva scelto il candidato che avesse riportato la maggioranza relativa dei suffragi del collegio (in applicazione, dunque, della formula plurality25);

 in 155 collegi plurinominali: in cui i seggi venivano assegnati a livello nazionale mediante la formula del quoziente naturale (Hare26), a beneficio, però, delle sole liste che avessero saputo attingere alla soglia di sbarramento nazionale del 4%

Il sistema elettorale, classificabile come a prevalenza maggioritaria (per ¾) e

a compensazione proporzionale (per il restante quarto), prevedeva,

all’evidente fine (nella direzione dell’”inclusività”) di favorire una qualche

25 La formula plularility, secondo la logica del “first past the post”, prevede appunto che in un collegio uninominale gli elettori dispongono di un singolo voto e il candidato che ottien più voti è l’eletto. Questa è una formula adotta, per esempio, in Canada e nel Regno Unito (N.d.A.)

26 Detta anche metodo Hare o Hare-Niemeyer (o dei resti più alti), è un metodo matematico per l'attribuzione dei seggi nei sistemi elettorali che utilizzano il metodo proporzionale. Tale metodo può essere spiegato suddividendolo in due sottometodi: metodo della quota e metodo dei resti più alti: - Metodo della quota: Tramite la formula Q = (V/N) (Q = quoziente di Hare, V = voti degli elettori, N

= numero di seggi), si determina il coefficiente Q che servirà a stabilire il numero di voti necessari per ottenere un seggio. Quindi se un partito ottiene X voti, tramite la formula N = X/Q si potrà calcolare il numero di seggi da assegnare. Il risultato di N è spesso un numero non intero e la parte decimale rappresenta il numero di seggi che non vengono assegnati col metodo della quota. Per completare l'assegnazione si ricorre quindi al successivo metodo dei resti più alti.

- Metodo dei resti più alti: La parte decimale di N rappresenta i seggi rimanenti e non assegnati dal metodo della quota. Sia NI la parte intera di N. Con la formula R = X - (NI * Q) si ottengono il numero dei voti (R = il resto dei voti) che serviranno per calcolare la successiva assegnazione dei seggi. Ad ogni partito corrisponderà un numero R ordinabile in modo decrescente. Si procede quindi all'assegnazione di un seggio per partito (fra quelli rimasti non assegnati) a partire dal partito con maggior resto fino a quando non viene esurita la disponibilità dei seggi non assegnati (N.d.A.)

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compensazione dei risultati a beneficio delle formazioni politiche più deboli, che pertanto avevano scarsi risultati nella parte uninominale, il meccanismo di c.d “scorporo dei voti”. In base a tale meccanismo, dai voti ottenuti dalle liste nella parte proporzionale venivano sottratti (appunto: “scorporati”) i voti che erano serviti per conseguire seggi nella parte maggioritaria. Più precisamente, col correttivo consistente nel non sottrarre tutti questi voti, ma soltanto quelli che effettivamente erano risultati indispensabili a far eleggere i vincitori (collegati) nella oarte uninominale, ossia nella misura pari ai voti del secondo classificato più “quel solo voto” che aveva fatto la differenza. Conseguentemente, la quota di voti eccedente tale soglia non influiva sul conteggio (c.d. “scorporo parziale” dei voti).

Peraltro, proprio nell’impianto così configurato, non tardò a scoprirsi una “falla” non poco controversa. L’utilizzazione, da un lato, del “doppio voto” e, dall’altro, della predetta clasuola di sbarramento, si rivelarono, infatti, in grado di fornire gli strumenti per aggirare il correttivo dello scorporo, invogliando i candidati più “forti” a presentarsi collegati a liste prive di qualsiasi possibilità di attingere alla soglia (c.d. “liste civetta”)27, così che i voti serviti per l’acquisizione del seggio uninominale sarebbero risultati indifferenti per le liste “amiche” nella parte proporzionale.

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Il sistema d’elezione al Senato

Il sistema di elezione del Senato: invece, a differenza di quello della Camera dei deputati, non previde la “scheda disgiunta”. La legge “gemella di-zigote” n.276 1993, infatti, nel predisporre un sistema a formula mista “ a fusione” (a differenza di quello della Camera, “a combinazione” in quanto basato sullo scorporo parziale e non totale dei voti, come vedremo a rpoposito del Senato), aveva mantenuto il voto unico categorico preferenziale su di un’unica scheda nella quale, in corrispondenza di ogni simbolo, compariva un unico nome prestamapto dei candidati (sia dei collegi uninominali, sia di quelli plurinominali). Per cui l’elettore era chiamato ad esprimere il proprio voto contestualmente per il candidato e la lista preferiti, aprendosi con ciò la strada ad una particolare variante di pooling (o di “voto fuso” in senso stretto), ossia come s’è detto, di travaso di voti dalla parte maggioritaria a quella proporzionale.

Peraltro, al possibile, diverso approccio al voto rispetto alla Camera dei deputati, si accompagnava la circostanza, percepibile dagli elettori più accorti, per cui se già l’elezione della Camera poteva essere considerata una competizione non solo tra coalizioni in una scheda, ma anche tra le medesime liste “coalizzate” nella seconda, tale “interna contraddizzione” del sistema era ulteriormente accentuata al Senato, dove la presenza di un’unica scheda elettorale alimentava l’antagonismo tra le stesse liste di partiti “alleate” nell’elezione dell’altro ramo del Parlamento. Sicché, in definitiva, l’esito

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sarebbe stato influenzato dalla prevalenza, a seconda dei casi, di logiche di lista, nella valorizzazione dei meccanismi “partitici” e da un’antica identificazione con quest’ultima piuttosto che secondo una dinamica, che è parsa a un certo punto predominante, di logiche coalizionali, basate sulla considerazione del “sistema partitico nel suo complesso”, e “dall’identità di coalizione”.

Per quanto riguarda il meccanismo di assegnazione dei seggi, il sistema prevedeva:

 l’assegnazione di una prima quota di seggi, distribuiti nell’ambito di 232 collegi uninominali in base al plurality: pertanto, veniva eletto parlamentare il candidato che avesse riportato la maggioranza relativa dei suffragi nel collegio;

 l’assegnazione degli 83 seggi rimanenti (pari a circa un quarto dei seggi dell’assemblea) su base regionale, col metodo d’Hont, previa però anche qui, l’applicazione del già descritto meccanismo dello scorporo dei voti , a beneficio delle formazioni politiche più deboli, altrimenti a rischio di esclusione dal Parlamento.

Qui però, senza il correttivo applicato per la Camera dei deputati, in quanto era previsto che, dai voti ottenuti dalle singole liste nella quota proporzionale, si sarebbero dovui sottrarre tutti i voti ottenuti dai senatori nei collegi uninominali. Lo scorporo, cioè, a differenza di quanto avveniva per l’altro ramo del Parlamento, non riguardava la sola “parte vincente”, ma veniva

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calcolato sulla base di tutti i voti presi dai candidati vincenti (c.d. “scorporo totale”). A questo punto, nell’ambito di ciascuna lista, il seggio veniva assegnato ai candidati che avessero ottenuto i migliori risultati personali, calcolati su base percentuale (ossia nel rapporto tra voti riportati e totale dei voti espressi).28

1.3.3. Evoluzione del sistema

La discussione imposta dal referendum del 1993, il quale come abbiamo visto portò all’adozione delle leggi nn. 276 e 277, che introdussero in Italia un sistema misto a prevalenza maggioritario, si svolse – sebbene “sotto la dettatura del corpo elettorale” (come ebbe ad affermare il Presidente della Repubblica Scalfaro) – in base alla consapevolezza di una trasformazione profonda del sistema democratico. Per utilizzare il gergo del tempo si voleva passare da una democrazia di tipo consociativo (ritenuta non più idonea allo sviluppo della forma di governo italiana) a una democrazia “decidente” o “immediata” che avrebbe garantito – secondo gli auspici e le previsioni dei proponenti – una governabilità agognata (e poi mai trovata). Il sacrificio della proporzionalità della rappresentanza politica – che ogni scelta maggioritaria

28 Questo per quanto riguarda le modalità elettive dei due rami del Parlamento a partire dal 1993 (e fino al 2005). Per chi invece fosse interessato ad approfondire le leggi elettorali del periodo previste per gli enti locali (Comuni, Provincie, Regioni) - tema senz’altro interessante e che peraltro ha subito nel corso del tempo minori modificazioni rispetto a quelle di Camera e Senato -,rinviamo sempre a:

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implica – fu dunque espressamente voluto in ragione di una diversa concezione della democrazia (non più inclusiva, bensì escludente) e di un’esplicita volontà di modificare – non tanto la costituzione, quanto – gli equilibri definiti dal sistema costituzionale: privilegiando le ragioni di governo e della governabilità su quelle dell’organo della rappresentanza politico- parlamentare. Da allora, infatti, nessuno parlò più di centralità egemone del Parlamento e la marginalizzazione di quest’organo subì un’accellerata improvvisa. Anche se ad onor del vero, al di à degli esiti più o meno felici sia della scelta proporzionalistica del 1947 sia di quella maggioritaria del 1993 non può dirsi che non fosse presente nel dibattito sulla riforma del sistema elettorale lo sfondo problematico e la reale posta in gioco: ossia i rapporti di forza tra Parlamento ed esecutivo, ed il suo conseguente irradiarsi sull’intera struttura istituzionale di cui evidentemente costituiva/costituisce l’asse portante, l’architrave sulle cui fondamenta poggia l’intera struttura costituzionale.

Peccato però, che l’agognato raggiugimento dell’oasi della governabilità, negli anni che vanno dall’introduzione del Mattarellum alla nuova riforma elettorale, si rivelò appunto null’altro che un miraggio. Ciò per una serie di ragioni, sia di carattere sostanziale (più propriamente politico-istituzionale) che di carattere formale (più propriamente di metodo giuridico nel modo di procedere alla definizione delle riforme elettorali).

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a) Questioni politico-istituzionali. Dal primo punto di vista c’è una letteratura ricchissima in dottrina nel trarre un bilancio sostanzialmente negativo, pur non disconoscendone il sincero intento di voltare finalmente pagina dopo cinquant’anni di esasperante stagnazione politica ed economica. In particolare, semplificando, potremmo citare questi elementi negativi caratterizzanti il sistema politco dal 1993 al 2005:

 la frammentazione partitica non solo non venne superata ma addirittura il numero dei partiti è esponenzialmente cresciuto, raggiungendo livelli mai conosciuti e rendendo di fatto illusorio l’approdo al bipolarismo. Il pluripartitismo dilaga, e propizia il formarsi di coalizioni di molti partiti raccogliticce e poco coese che resero di fatto illusoria la possibilità della nascita di Goverti stabili e duraturi29;

 il rapporto di rappresentanza non muove passi in avanti rispetto alla necessità di risolvere problemi sollevati criticamente nel 1993, nel dibattito in vista del referendum. Al contrario si allenta ulteriormente.

 Agiscono vari fattori. La legge elettorale impone, per coltivare ragionevoli speranze di successo, candidature di coalizione; la sopravvivenza dei partiti, ed il loro moltiplicarsi, esige, d’altra parte, ripartizioni e compensazioni reciproche che di fatto sono riservate ai

29 Così nel 1994 con la vittoria di Forza Italia di Silvio Berlusconi nella XII legislatura che diede vita al primo Governo Berlusconi, caduto pochi mesi dopo per l’opposizone interna del partito alleato della Lega Nord; nel 1996 con la caduta dopo due anni e cinque mesi e quattro giormi del primo Governo Prodi nel corso della XII legislatura, ad opera dei compagni di colazione di Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti, cui si alternano vari Esecutivi “di servizio” sempre a guida centrosinistra; e persino nel 2001 col secondo Governo Berlusconi, che durò in carica 3 anni, 10 mesi e 12 giorni (fino al 23 aprile 2005) nonostante godesse di una maggioranza di partenza in entrambe le Camere tra le più ampie della storia repubblicana (N.d.A)

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vertici dei partiti nell’àmbito di ciascuna coalizione (pratica dei cd ‘tavoli’); ne consegue che la volontà delle organizzazioni operanti nel territorio ha poco peso in un gran numero di casi. Il doppio livello di contrattazione che ne deriva, interno ed esterno alla forma partito, nonchè ai cd movimenti ancor più di ardua reductio ad unum, esaspera la stretta verticistica delle candidature, fino a condurre ad alcuni episodi invero paradossali. Inoltre nella logica del collegio uninominale, la ricerca del consenso da parte del rappresentante fa emergere interessi localistici, e il fenomeno delle clientele, antico tarlo della democrazia rappresentativa, da endemico tende a divenire epidemico. La crisi del rapporto tra elettori ed eletti si aggrava con tutta evidenza quando si consideri non il caso del collegio uninominale, ma quello della lista dei candidati per il riparto proporzionale, pari, come si sa, al 25% degli eletti. Rivive lo spettro della lista bloccata: agli elettori è dato solo di determinare il numero dei seggi attribuiti; l’ordine della lista dei candidati di ciascun partito beneficiario del riparto spetta ai dirigenti nazionali del partito stesso, ed è l’ordine degli eletti.

 Il mutamento intervenuto nel 1993 mantiene formalmente la tipologia del governo parlamentare, ma ne altera la coerenza interna, introducendo elementi di presidenzialismo, non tuttavia inseriti in una visione organica. Tenuto conto del fatto che la riforma elettorale è a costituzione invariata, il sistema appare di incerta definizione. In alcuni casi il voto

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popolare sembra acquistare forza vincolante quanto alla definizione dell’indirizzo, della coalizione parlamentare maggioritaria, della base politica del gabinetto, ed anche quanto alla individuazione del presidente del consiglio (anche grazie alla singolare norma relativa alla indicazione sulla scheda elettorale del nominativo del candidato a tale ufficio per ciascuna coalizione elettorale). In altri casi si ha l’orientamento opposto, ispirato alla piena continuità con l’interpretazione costantemente accolta prima del 1994, fondata sulla esclusiva delle due camere nella determinazione dell’indirizzo e degli atti conseguenti. Nell’una e nell’altra versione, comunque, l’influenza dei partiti, sia i superstiti dopo la crisi del 1993-1994 sia i nuovi sopravvenuti, sembra esercitarsi intatta sulle istituzioni, salvo a incanalarsi nella duplice rete di relazioni di cui si è fatto cenno, tra i partiti, talvolta chiamati movimenti, nelle coalizioni, ed al loro interno. Ragioni e argomenti delle critiche mosse in vista ed a sostegno del referendum non ottengono soddisfazione alcuna.

 il trasformismo: completa il quadro di raffronto fin qui tracciato quanto alla forma di governo tra il prima ed il dopo a cavallo del 1993-1994, l’esame del delicato problema della mobilità politica degli eletti, sommariamente denominato trasformismo (o neotrasformismo). L’inquietante fenomeno si presenta per la prima volta nella storia costituzionale e politica della Repubblica con questa frequenza. La mobilità politica degli eletti, e dei gruppi di eletti, muta radicalmente

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natura e contenuto tra sistema rappresentativo statutario e sistema rappresentativo repubblicano, stante la diversità radicale tra i due regimi. Questo fenomeno atavico della vita repubblicana italiana fu tra le ragioni primarie dell’iniziativa referendaria, visto che l’avvento del maggioritario venne presentato come rimedio, in quanto, attribuendo al corpo elettorale la scelta della maggioranza di governo, vincola le forze politiche ad uniformarvisi per la legislatura. Viceversa, nell’undicesima e nella dodicesima legislatura, a fronte del fenomeno, si è proseguita inalterata la prassi in atto fino al 1994, se possibile ancora peggiorata rispetto al passato.

 la riforma elettorale maggioritaria sarebbe il primo, decisivo passo per abbattere un regime appesantito da difficoltà e contraddizioni, dal groviglio che “pressoché inestricabile” soffocherebbe la Prima Repubblica, caratterizzata dal trasversalismo; la riforma, nascendo da un voto popolare, costringe le istituzioni rappresentative a procedervi. Con l’ovvia considerazione che la riforma elettorale non è ancora il nuovo sistema riformato, ma a questo si sarebbe giunti subito dopo: senonchè, l’implicito rinvio alla legislatura che sarebbe nata con le prime elezioni all’insegna del maggioritario, resta sterile, perché la legislatura, la più breve, al pari di quella che la precede ed è appunto troncata subito dopo l’approvazione della riforma elettorale, tra le legislature repubblicane, sarà anche tra le più tormentate e inconcludenti. Si parla di transizione, e

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non di una semplice evoluzione (che presuppone una piena continuità dei principi), perché la natura degli effetti sistemici prodotti dalla riforma elettorale maggioritaria (fonte materialmente costituzionale) a costituzione invariata, è tale da incidere sulla continuità stessa dei