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La circostanza esimente originariamente prevista dalla normativa domestica

Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA (pagine 45-49)

2.3. La nascita della normativa CFC in Italia: l’articolo 127-bis del TUIR

2.3.4. La circostanza esimente originariamente prevista dalla normativa domestica

Nonostante la rigidità delle fattispecie applicative, in linea con le ragioni giustificatrici indotte dalla norma, il legislatore si è preoccupato fin da subito di garantire delle circostanze esimenti che fungessero da “salvagente” per i soggetti che, pur operando nel lecito, fossero stati attratti dalla disciplina. È proprio per tale ragione che queste esimenti risultavano essere uno dei punti

59 Cfr. R. Cordeiro Guerra, Imprese estere controllate e collegate, in F. Tesauro (a cura di), Imposta sul reddito

delle società (IRES), Bologna, 2007, pag. 978 ; A.M. Gaffuri, La tassazione dei redditi d’impresa prodotti all’estero,

Milano, 2008, 281 ; A. Ballancin, Il regime di imputazione del reddito delle imprese estere controllate, Padova, 2016, 212.

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focali dell’intera disciplina, giacché esse consentivano al soggetto residente di portarsi al di fuori della fattispecie impositiva, dopo esserne stato chiamato in causa dai presupposti soggettivi ed oggettivi. Il legislatore pertanto ha individuato sin dall’origine due possibilità di esclusione, alternative e validamente ammissibili a prescindere dalla natura del reddito prodotto dalla controllata. Si parla di elemento dirimente poiché, come avremo modo di vedere, le esimenti subiranno nel tempo degli importanti stravolgimenti e saranno l’ago della bilancia della disciplina sulle CFC, anche alla luce di una possibile incompatibilità tra normativa italiana e principi comunitari.

La prima ipotesi di esclusione, ai sensi del comma 5, prevedeva che il soggetto dovesse dimostrare “che la società o altro ente non residente svolgesse un’effettiva attività industriale

o commerciale, come sua attività principale, nello Stato nel quale ha la sede”. In sostanza, il

legislatore chiedeva al contribuente di dimostrare la bontà della società controllata, ovvero la sua effettiva operatività in termini produttivi o commerciali. Con questa disposizione è evidente il tentativo di tradurre la ratio della disciplina in termini concreti, concedendo al soggetto residente la possibilità di svincolarsi dalla norma, evitando una circostanza impositiva erga

omnes. Bisogna tuttavia constatare come la disposizione, così come formulata, avesse lasciato

sin dal principio adito a non poche perplessità interpretative60, legate prevalentemente all’ambito applicativo della fattispecie in parola. In particolar modo, il concetto di “effettiva

attività industriale” lasciava spazio ad una libertà interpretativa di eccessiva portata, diventando

terreno fertile per la nascita di contenziosi tra l’amministrazione finanziaria e i contribuenti. Parte di queste problematiche erano state risolte con il decreto ministeriale di attuazione61, il quale aveva specificato che, ai fini dello svolgimento di un’attività economica effettiva, il soggetto residente doveva dimostrare la presenza di una <<struttura organizzativa idonea allo

svolgimento dell’attività, oppure alla sua autonoma preparazione e conclusione>>.

Evidentemente, l’obiettivo del legislatore era quello di evitare che venissero penalizzati, tramite l’imposizione del regime di tassazione per trasparenza degli utili prodotti dalla controllata estera, quei soggetti che avessero deciso di delocalizzare la propria attività per ragioni prettamente economiche. A tal proposito è utile qui segnalare quanto verrà analizzato successivamente nel dettaglio, ovvero che l’assioma secondo cui “la delocalizzazione economica è un fenomeno sempre lecito”, risulta di difficile riscontro qualora le attività in oggetto non abbiano uno stampo produttivo o commerciale. L’applicazione del presente criterio

60 Si veda in tale senso Dezzani L., Gazzo M., Cfc legislation: luci ed ombre della nuova proposta legislativa., il Fisco n. 38, pag. 11528 ss., 2000; Lupi R., Principi generali in tema di CFC e radicamento territoriale delle imprese, in Rassegna Tributaria n.6, 2000.

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comporta perciò il rischio, come vedremo successivamente, di veder applicare una presunzione assoluta di elusione in capo a determinate tipologie di redditi (c.d. passive income).

La seconda esimente introdotta risultava essere, sotto certi aspetti, ancor più contraddittoria, in quanto richiedeva al contribuente di dimostrare che l’effetto della localizzazione della partecipata in Stati o territori a fiscalità privilegiata non fosse quello di giovare del regime impositivo ivi esistente. Sostanzialmente, il soggetto residente doveva dimostrare che i redditi conseguiti dalla controllata non derivassero (perlomeno, non nella loro interezza) dallo Stato in cui risultava la sede societaria, presupponendo cioè un livello di tassazione congruamente adeguato al parametro fiscale italiano. Ancora una volta, la scarsa specificità della norma venne chiarita dal già citato decreto attuativo, che individuava nella soglia del 75 per cento il limite di produzione reddituale in un paese a fiscalità non privilegiata, sopra il quale il soggetto italiano poteva far salve le proprie ragioni circa lo stabilimento della controllata62.

Tramite questa esimente il legislatore aveva voluto nuovamente focalizzare la questione sul livello di tassazione, lasciando intendere che, qualora la sede dello stabilimento della controllata (ancorché localizzata in un paradiso fiscale) non avesse consentito un concreto risparmio di imposta, la fattispecie che la normativa in punto di CFC voleva andare a contrastare non era di fatto realizzata.

Uno dei punti più controversi della disposizione, come vedremo meglio successivamente, stava nella modalità di utilizzo delle circostanze esimenti concessa al contribuente. Infatti, nel medesimo comma 5, il legislatore aveva disposto l’obbligo di presentazione dell’interpello preventivo da parte del soggetto passivo residente, per vedersi riconosciuta la disapplicazione della disciplina. La disposizione a cui faceva riferimento l’articolo 127-bis del Tuir era lo statuto dei diritti del contribuente all’epoca appena emanato (legge numero 212 del 27 luglio 2000), più precisamente, l’articolo 1163. Non poche perplessità aveva destato altresì questa

62 Il D.M. 429 del 21 novembre 2001 in particolare disponeva che la suddetta circostanza esimente potesse essere fatta valere qualora i redditi prodotti dalla controllata “fossero stati prodotti in misura non inferiore al 75 per

cento in altri stati o territori diversi da quelli di cui all’articolo 12-bis, comma 4, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, ed ivi sottoposti integralmente a tassazione ordinaria […] ovvero, sottoposti integralmente a tassazione ordinaria nello stato o territorio in cui ha sede l’impresa, la società o l’ente partecipato”.

63 Al riguardo, bisogna constatare come l’Agenzia delle Entrate, tramite la Circolare n. 18/E del 2002, abbia sottolineato come vi fosse una differenza sostanziale tra l’interpello disapplicativo previsto dall’articolo 127-bis sulle controllate CFC, e l’interpello ordinario previsto dall’articolo 11 dello Statuto dei diritti del contribuente. Sul tema si veda, A. Mastromatteo e B. Santacroce, interpelli disapplicativi a tutela differita: quale soluzione per i

contenziosi pendenti?, il Fisco, 2015, pag. 3920 e ss. ; L. Dezzani e M. Gazzo, cfc legislation: luci ed ombre della nuova proposta legislativa. prime riflessioni, il Fisco, 2000, pag. 11528 e ss. , dove gli autori affermano che <<L'aver introdotto, infatti, l'obbligo di interpello preventivo con la procedura prevista dallo Statuto del contribuente, seppure da un lato garantisce una maggiore "tranquillità" del contribuente a non subire

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previsione normativa, in quanto andava ad invertire l’onere della prova, ribaltandolo totalmente in capo al contribuente, senza un’apparente ragione che giustificasse la portata in termini di onere probatorio, ed utilizzando la forma dell’interpello ordinario in maniera quanto meno anomala64. Se da un lato è comprensibile che, in determinate circostanze, l’amministrazione finanziaria potesse rinvenire oggettive difficoltà nel reperire informazioni utili all’individuazione di effettive costruzioni elusive, dall’altra appariva eccessiva la scelta di imporre al soggetto passivo la predisposizione di idonea documentazione atta a dimostrare la sussistenza della bontà della propria localizzazione, pena l’inammissibilità di un eventuale accertamento postumo delle circostanze esimenti. In virtù di tale disposizione, la sproporzione a carico del contribuente era di tutta evidenza, poiché l’interpello risultava essere il solo strumento a disposizione per poter disapplicare la normativa in parola, caricando il soggetto passivo di un ulteriore “onere”, imposto tramite l’utilizzo di uno strumento che era nato come strumento di protezione per il contribuente.

Il rischio evidente era quello di entrare in conflitto con alcuni tra i più importanti principi sistemici del diritto tributario, primo fra tutti, il principio di proporzionalità, nonché il diritto alla difesa previsto dall’ articolo 24 della Costituzione. Per tali ragioni, la stessa Agenzia delle Entrate era intervenuta65 per dirimere parzialmente la questione, legittimando il <<carattere

non vincolante della risposta (all’interpello, ndr) quale atto avente natura di parere>>

lasciando altresì intendere che il contribuente avesse comunque la possibilità di dimostrare

<<anche successivamente la sussistenza delle condizioni che legittimano l’accesso al regime derogatorio>>. Restava ferma tuttavia l’obbligatorietà di presentazione dell’istanza.

contestazioni da parte dell'Amministrazione finanziaria, dall'altro certo non esonera il legislatore a definire in modo chiaro ed incontrovertibile l'ambito applicativo dell'esimente in esame.>>.

6464 Sul punto, si veda F. Pistolesi, Le istruzioni dell’Agenzia delle Entrate sulla impugnabilità delle risposte agli

interpelli, in Riv. Dir. Trib. N. 12, pag. 859 ss., 2009; A. Vozza, L’interpello per le controllate non residenti in paesi “black list”, di Corriere Tributario n.19, p. 1525 ss., 2010, dove gli autori chiariscono che il ruolo dell’interpello

ordinario, così come originariamente previsto dallo Statuto, fosse quello di fornire al contribuente la possibilità di conoscere preventivamente l’opinione del Fisco, in relazione ad una particolare circostanza, <<qualora vi

fossero obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione della disposizione>>.

È altresì necessario constatare come, tale anomalia nell’utilizzo dell’interpello ordinario, non fosse un caso isolato nell’ordinamento italiano, così come sottolineato da M. Beghin, Note minime a proposito dell’interpello

obbligatorio nella disciplina del c.d. “consolidato mondiale”, in Boll. Trib. N. 18,pag. 1285 ss., 2009. 65 Cfr. circolare 51/E del 2010 dell’Agenzia delle Entrate.

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Nel documento UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA (pagine 45-49)