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La riprogrammazione cellulare

2. La clonazione terapeutica

Prima di passare ad esaminare le caratteristiche delle staminali pluripotenti indotte, quindi il metodo utilizzato da Yamanaka per riprogrammare cellule adulte, è bene tenere presente che la riprogrammazione cellulare era nota già ben prima che lo scienziato giapponese effettuasse i suoi esperimenti, anche se avveniva con una metodologia diversa. Mi riferisco alla clonazione terapeutica, quella tecnica che permette di ottenere cellule staminali pluripotenti a partire da blastocisti generate tramite il trasferimento di un nucleo somatico in oociti enucleati.

L’aggettivo “terapeutica” indica che la creazione degli embrioni è finalizzata alla ricerca scientifica e all’uso terapeutico delle sue cellule nella medicina rigenerativa, non all’impianto in utero e alla nascita di nuovi individui. In quest’ultimo caso, si fa riferimento alla clonazione riproduttiva. Dunque, quello che distingue la clonazione terapeutica dalla clonazione riproduttiva è l’uso che si intende fare degli embrioni prodotti, mentre il termine “clonazione” si limita a designare la creazione di nuovi esseri viventi attraverso una forma di riproduzione asessuata. Esistono varie tecniche per realizzare la clonazione in laboratorio, ma la più nota è sicuramente il trasferimento nucleare, cui ho accennato poco sopra: essa consiste nell’inserimento del nucleo di una cellula (generalmente somatica, ma può essere anche embrionale) in un ovulo il cui

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nucleo è stato precedentemente asportato. Ciò è sufficiente (con un’adeguata stimolazione dell’ovulo) per far sì che l’ovulo inizi il suo ciclo di divisioni cellulari, al pari di un altro che è stato fecondato da uno spermatozoo: quello che si ottiene è una copia geneticamente identica del donatore di nucleo, mentre il DNA mitocondriale sarà quello della donatrice dell’ovulo.

Nel 1996, la tecnica della clonazione nucleare ha dato un sensazionale risultato con la nascita della pecora Dolly, il primo mammifero ad essere stato clonato con successo a partire da una cellula somatica. L’esperimento condotto da Ian Wilmut ha suscitato molte polemiche, ma ha avuto un importantissimo valore scientifico, poiché “ha dimostrato che il citoplasma dell’uovo è in grado di azzerare la programmazione genetica assunta dalla cellula adulta nel corso del suo cammino di differenziazione e di procedere a una riprogrammazione grazie alla quale il nucleo diventa capace di riprendere daccapo il percorso di sviluppo55”.

Da questo traguardo scientifico è scaturita la possibilità di utilizzare il trasferimento nucleare per scopi terapeutici: basta una donatrice di ovociti e una qualsiasi cellula del paziente per ottenere una blastocisti da cui prelevare le cellule staminali utili per la terapia cellulare. Il grande vantaggio di questa metodica è che, al pari di un trapianto autologo di staminali adulte, permette di evitare fenomeni di rigetto, senza, per altro, presentare il problema della reperibilità delle cellule. Tuttavia, ci sono importanti fattori che rendono tale pratica di scarsa utilità clinica: la possibilità di originare tumori nel paziente e la scarsa disponibilità di ovociti, che, oltre a rappresentare un problema fattuale, solleva anche obiezioni di ordine morale legate ai fenomeni di commercializzazione (l’argomento sarà approfondito nel terzo capitolo).

Ai suoi esordi, il metodo del trasferimento nucleare fu accolto in Italia in modo piuttosto positivo56. Nel Rapporto Dulbecco, presentato nel dicembre del 2000 dal ministro della Sanità Veronesi, si parlò addirittura di una “via italiana” per le staminali, poiché esso sembrava in grado di eludere i problemi morali suscitati dalla sperimentazione sugli embrioni: in assenza dell’unione dell’ovulo e dello spermatozoo, ciò che si forma non è lo zigote, ma una cellula in grado di generare cellule staminali con le stesse caratteristiche genetiche del donatore di nucleo. Tuttavia, dal fronte

55 D. Neri, La bioetica in laboratorio, p. 70.

56 M. Mori, Sulla ricezione in Italia del la ripresa del trasferimento nucleare per creare cellule staminali

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cattolico non mancarono le polemiche: si affermò che l’assenza della fecondazione non rendeva un embrione clonato diverso dagli altri, quindi non titolare del diritto alla vita, solo perché concepito in modo alternativo. Il dibattito andò avanti per alcuni anni, finché l’emanazione della legge 40 sulla fecondazione assistita lo mise a tacere, vietando esplicitamente la clonazione e la ricerca su embrioni umani. È anche vero, comunque, che il metodo della clonazione nucleare incontrava all’epoca reali difficoltà, e non aveva dato i risultati sperati: nei primati, il processo vitale si arrestava alle prime divisioni cellulari. Così, quando Yamanaka propose, nel 2006, il suo metodo per la riprogrammazione di cellule adulte, lo stesso Ian Wilmut decise di abbandonare la procedura del trasferimento nucleare, più complicata e incapace di aggirare le obiezioni di carattere morale.

Dal 2013, i termini del problema in questione sono leggermente cambiati: uno studio, realizzato all’Oregon Health and Science University e pubblicato sulla rivista Cell57, ha dimostrato che il trasferimento nucleare funziona anche negli esseri umani. Grazie al trasferimento di un nucleo somatico in un ovulo enucleato, si è ottenuto un organismo che è sopravvissuto fino alla fase di blastocisti, da cui sono state derivate nuove linee cellulari geneticamente identiche al donatore di nucleo. Di fatto, però, resta il problema della reperibilità degli ovuli e la condanna della Chiesa cattolica, che con forza sostiene che, se quegli embrioni fossero posti in un utero materno, nascerebbero. In definitiva, il metodo di Yamanaka si dimostra, ancora una volta, più promettente.

Vorrei ora soffermarmi brevemente su un’altra tecnica che consente di ottenere embrioni clonati: la partenogenesi. In questo caso, non solo si fa a meno dello spermatozoo, ma anche della cellula somatica, poiché il nuovo organismo viene creato attraverso la stimolazione chimica o elettrica dell’ovulo, che una volta “attivato” inizia a dividersi e a svilupparsi come un embrione. “Rispetto alla clonazione nucleare, il vantaggio della partenogenesi sta nel fatto che essa permette sempre di creare embrioni identici al paziente a livello di DNA non solo nucleare, ma anche mitocondriale. Il suo limite, invece, sta nel fatto che può essere usata solo dalle donne in età fertile58”.

Una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 18 dicembre 201459 ha

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M. Tachibana et al., Human Embryonic Stem Cells Derived by Somatic Cell Nuclear Transfer, in Cell, 153, 6 giugno 2013, pp. 1228-1238.

58 M. Balistreri, Etica e clonazione umana, Guerini, Milano 2004, p. 40.

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affermato che i partenoti non possono essere considerati embrioni: mancando l’apporto del genoma maschile, essi non sono intrinsecamente in grado di svilupparsi come un essere umano, e possono sopravvivere solo per pochi giorni. Giusto il tempo per derivare linee di staminali embrionali. La sentenza ha aperto la strada alle richieste di brevetto della tecnica, che tuttavia continua a suscitare non poche perplessità: da un punto di vista scientifico, le staminali derivate da partenoti sono altamente tumorigeniche, cosa che rende difficile pensare ad un loro uso clinico, e inoltre richiedono una grande disponibilità di ovociti umani.