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La prospettiva consequenzialista a favore della ricerca

Le controversie moral

4. La prospettiva consequenzialista a favore della ricerca

Le due posizioni evidenziate nel paragrafo precedente, la concezione sostanzialista e quella funzionalista di persona, condividono, in realtà, un presupposto importante: la tesi che sperimentare su una persona sia inaccettabile, in quanto lesivo della sua dignità e della sua libertà. Così, il dibattito morale in materia di staminali si svolge esclusivamente in relazione a una questione di principio, concentrandosi sulle ragioni che permettono di includere o escludere il pre-embrione dalla classe delle persone, in modo da definire quali azioni siano eticamente lecite nei suoi confronti. Un tale approccio chiama in causa una questione ontologica (quella dello status dell’embrione), che, al pari di tutte le grandi problematiche filosofiche, si rivela molto difficile da decidere.

Questo, tuttavia, non è l’unico modo di affrontare il problema che riguarda la liceità di distruggere o meno embrioni umani a fini di ricerca: una parte degli studiosi si pronuncia a favore o contro la sperimentazione facendo riferimento non a questioni di principio, ma alle conseguenze di lungo termine che tale pratica potrebbe comportare. Tra le conseguenze negative, ci sono il timore di ridurre la vita umana a oggetto di pratiche di commercializzazione, e la paura che consentire la ricerca sulle cellule ES faccia da apripista alla legalizzazione di pratiche ritenute più gravi. Di questo ho già parlato, mostrando come le conseguenze temute siano piuttosto improbabili e,

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comunque, possano essere contrastate in modo efficace attraverso adeguati controlli statali.

D’altro canto, se ridurre a zero il rischio è impossibile, sull’altro piatto della bilancia ci sono i grandi benefici per quelle vite umane minacciate da malattie e sofferenze, che non possiamo trascurare nell’ambito del nostro discorso morale. L’utilità clinica delle cellule staminali, e in particolare delle staminali embrionali, è universalmente riconosciuta: come ho illustrato nel capitolo 1.3, dopo un’adeguata fase di sperimentazione esse diventeranno, con tutta probabilità, il fulcro della medicina rigenerativa, con immensi giovamenti per la cura delle più disparate patologie. Questo è sufficiente per concludere che è moralmente lecito distruggere embrioni umani? Secondo una prospettiva strettamente utilitaristica, si: l’unico principio cui le azioni si devono conformare è quello che ingiunge di massimizzare l’utilità degli individui coinvolti, per cui la distruzione degli embrioni è giustificata dagli effetti positivi che le nuove cure avranno sulla collettività.

Senza dubbio, il potenziale terapeutico delle cellule staminali è un fattore fondamentale nella valutazione morale di un tipo di ricerca che comporta la distruzione di embrioni umani. Un effetto collaterale, quest’ultimo, impossibile da evitare: la comunità scientifica afferma, praticamente all’unanimità, che per far progredire il settore delle cellule staminali nel suo complesso non si possa fare a meno delle conoscenze biologiche che solo la ricerca sulle cellule dell’embrione ci può fornire. Tuttavia, penso che ridurre la moralità di un’azione al puro calcolo delle conseguenze che produce, non sia la soluzione più giusta (come, per altro, non lo è quella che prescinde totalmente da esse). La posizione che intendo sostenere è un’etica della qualità della vita che si configuri come un’etica deontologica prima facie: secondo tale prospettiva, la qualità della vita è garantita dal rispetto delle scelte autonome degli individui, posto che ciascuno sa cosa è meglio per se stesso e in cosa consiste il suo ben-essere; quando poi due diritti entrano in conflitto, è necessario che ci si affidi al calcolo costi-benefici per stabilire quali hanno la precedenza. È evidente che non siamo molto distanti dall’etica consequenzialista, poiché, escludendo la presenza di doveri assoluti da rispettare, nelle circostanze particolari prevale un comportamento di tipo utilitarista, che ingiunge di minimizzare il danno generale. Al contrario, la bioetica cattolica che si ispira al principio di sacralità della vita si presenta come un’etica

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disinteressata agli effetti dell’agire, in quanto basata sull’idea che esistano delle azioni intrinsecamente proibite, da cui deriva una serie di divieti assoluti che non ammettono eccezioni.

Nel nostro caso specifico siamo di fronte a due diversi doveri: il dovere di rispettare il pre-embrione, che viene violato nel momento in cui lo si distrugge per prelevarne le cellule; il dovere di consentire a moltissimi malati di avere delle speranze di cura, cui si contravviene qualora si decida di vietare la sperimentazione sugli embrioni. Come dimostrano i dati scientifici, al momento del concepimento e per i successivi cinque-sei giorni (quindi per tutto il tempo utile al prelievo di cellule dalla blastocisti) non siamo in presenza di nessuna persona, e tantomeno di qualcosa che possa assomigliare ad un individuo umano. Di conseguenza, ritengo completamente fuori luogo parlare di omicidio, termine cui ricorre chi è incapace di operare una riflessione razionale distaccandosi dal coinvolgimento emotivo e da antiche sopravvivenze culturali. Tuttavia, come ho specificato in precedenza, non riconoscere uno statuto personale alla blastocisti non vuol dire considerare lecita ogni attività che si compia su di essa: anche se il pre-embrione non ha piena rilevanza etica, la sua distruzione non è un qualcosa di totalmente indifferente dal punto di vista morale, dato che esso merita comunque di essere trattato con rispetto. Rispettare un’entità come la blastocisti significa, ad esempio, condannare il comportamento di chi la distrugge per il puro gusto di farlo. Tuttavia, non trattandosi di un dovere assoluto ma solo prima facie, non vale in modo incondizionato, ma deve essere soppesato con gli altri doveri che sono in gioco e contestualizzato alle circostanze. Così, il tipo di interventi che possono essere condotti sulla blastocisti deve essere valutato anche sulla base delle conseguenze che si avranno sugli esseri umani presenti e futuri, con un occhio di riguardo ai loro interessi e ai loro diritti.

La grande attenzione del mondo scientifico nei confronti di questo settore di ricerca è dettato, in primo luogo, dalla possibilità di impiegare le cellule staminali in strategie di trapianto, così da sostituire cellule perdute nel corso di una lesione o di un processo degenerativo. Il numero di pazienti che potrà beneficiare interventi di questo tipo è altissimo: uno studio molto recente, realizzato nel regno Unito e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica British Journal of Cancer118, stima che tra le persone nate

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dopo il 1960 ben una su due si ammalerà, nel corso della sua vita, di tumore. La previsione tiene conto del fatto che il cancro è soprattutto una malattia legata all’età, che avrà un’incidenza maggiore in una popolazione sempre più anziana. Questi dati rendono evidente che il dibattito riguardante la liceità di sperimentare sugli embrioni non può concentrarsi solo sulle conseguenze morali del “fare”, poiché anche il “non fare” si configura come un atto che non è eticamente neutro. Inoltre, le cellule della blastocisti rappresentano un importantissimo strumento di studio del corpo umano, di come si formano e di come si ammalano i nostri tessuti, dei meccanismi di base delle malattie genetiche, potendo anche fornire informazioni circa la potenziale tossicità dei farmaci.

Consentendo ai ricercatori di concentrare la loro attenzione su dei piccolissimi agglomerati di circa 200 cellule, che non raggiungono nemmeno un millimetro di grandezza, otterremmo un bagaglio di conoscenze fondamentale per il benessere di tutti noi, cosa che rende questo tipo di ricerca non solo legittima, ma addirittura doverosa. A maggior ragione, tenendo conto del fatto che esistono milioni di embrioni sovrannumerari, che si trovano nei congelatori di tutto il mondo, di cui non sappiamo cosa fare: ormai inutili per lo scopo in vista del quale sono stati creati, la loro fine è quella di venire, prima o poi, distrutti. Alcuni paesi, come la Gran Bretagna, hanno stabilito di conservarli al massimo per cinque anni, altri fino a dieci, ma resta il fatto che, trascorso questo lasso di tempo, verranno gettati via. Piuttosto che perire inutilmente, o restare per sempre nel gelo, sembrerebbe ragionevole utilizzarli a fini di ricerca: una conclusione cui giungerebbe chiunque fosse disposto ad elaborare una riflessione razionale, correndo il rischio di abbandonare le convinzioni di principio per valutare le conseguenze. Allora, non potremmo non dare ragione a James Thomson, il quale disse, a suo tempo, che usare questi embrioni per la ricerca “non è solo accettabile, ma che buttarli, quando si potrebbe ricavarne qualcosa di utile, quello, sì, è inaccettabile119”.

for those born from 1930 to 1960, in British Journal of Cancer, 3 febbraio 2015.

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