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La comparsa dell‟anacronistica arma da fuoco

Parte II. Il lessico del combattimento

Capitolo 2. La comparsa dell‟anacronistica arma da fuoco

Nella storia della cavalleria, che si estende lungo l‟arco di tre millenni, il Medioevo può essere considerato una sorta di epoca d‟oro, in cui il cavaliere medievale costituiva non solo la componente essenziale degli eserciti, ma anche la classe dominante della società del tempo, e tali pregi dei cavalieri costituivano un ideale a cui gli uomini del tempo aspiravano.

L‟epoca dei grandi cavalieri, come pure il loro sistema di valori, entrò a poco a poco in crisi fino a giungere al termine quando, grazie alle nuove tecniche di guerra (con formazioni compatte di picchieri), nonché alle nuove armi, la fanteria acquistò un ruolo preponderante sui campi di battaglia.

A partire dalla fine del XIII secolo, ma soprattutto in quello successivo, le nuove armi vincenti erano le picche, l‟arco e la balestra, insieme ai pavesi, grandi scudi di legno che, posti nelle prime file degli schieramenti, costituivano per i cavalieri un ostacolo insuperabile. Il cavallo, che fino ad allora era stato l‟arma più importante, si trasformò in un punto debole, una sorta di impedimento. Con questo nuovo modo di combattere, il cavallo doveva soccombere ai colpi di coltello del fante, che, strisciando per terra, lo sventrava (un'azione, questa, inconcepibile per un cavaliere e per il suo codice deontologico, poiché colpire i cavalli, nel primo Quattrocento, era considerato un modo vile e malvagio di combattere, sebbene più tardi sia divenuto una pratica comune). Il cavaliere, disarcionato e circondato, non riusciva a fuggire a causa della sua pesante corazza d'acciaio, e doveva accettare la morte sotto i colpi della plebaglia, che combatteva a piedi.

Si svilupparono nuove tecniche militari sotto la spinta delle milizie di fanti che, inquadrate nel Comune, non erano più quella massa incoerente di contadini armati di forcone contro cui la carica della cavalleria aveva avuto sempre successo. Le milizie cittadine si proposero come strutture sempre meglio organizzate e coese, dotate dell'addestramento acquisito nelle gare cittadine, gare che avevano sviluppato non solo lo spirito d'emulazione ma, cosa ben più importante, lo spirito civico rendendo i cittadini combattenti consapevoli,

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decisi e, quindi, temibili. Questi uomini, che normalmente svolgevano nella vita quotidiana ben altri compiti rispetto all‟arte della guerra, nel momento del combattimento, sotto il gonfalone civico, davano sfogo a tutta la loro determinazione e il loro rancore contro l‟aristocrazia feudale. E‟ nel tardo Medioevo che le battaglie si fanno cruente e senza scampo, abbandonando i valori che erano stati una caratteristica dei combattimenti tra cavalieri.

Tutto ciò è scandaloso per i nobili e i cavalieri, cozza contro il loro mondo e i loro valori. La guerra tra Svizzera e Borgogna, nel 1476-1477, fu la chiara dimostrazione che la cavalleria non era in grado di sconfiggere solide falangi di fanti armati di picche, sostenuti da reparti di archibugieri. Il nuovo metodo fu imitato dai lanzichenecchi (da Landsknechte, „servitori della terra‟) tedeschi e dagli spagnoli e nel Cinquecento, le sorti della guerra furono nuovamente decise da scontri di fanteria. La fanteria occupò un ruolo centrale, divenendo il prototipo di soldato per quanto riguarda le guerre rinascimentali. L‟addestramento dei fanti era molto più semplice rispetto all‟educazione per divenire cavalieri, che richiedeva un lungo e duro tirocinio fin dall‟adolescenza22; l‟arruolamento dei primi avveniva nel popolo, tra i ceti più poveri. Copiando e sviluppando le tattiche dei vicini Svizzeri, basate sulla competenze degli archibugieri, nacquero le truppe mercenarie, cioè di soldati professionali pagati per combattere, reclutati tra le classi inferiori.

22 L‟educazione per divenire cavalieri richiedeva un lungo e duro tirocinio. Non era raro trovare rampolli di nobili casate (in genere maschi non primogeniti che non volevano intraprendere la carriera ecclesiastica) mandati come paggi fin da bambini, anche di sette o otto anni, nelle dimore di altri signori per imparare a stare in società e a cavalcare. Quando raggiungeva i quattordici anni, il giovane diveniva scudiero di un cavaliere già affermato. Mantenendo in esercizio il fisico in continuazione e allenandosi con le armi, apprendeva in questo modo l‟arte della guerra, nonché ad accudire il cavallo e custodire l‟equipaggiamento militare del suo signore (non a caso il compito iniziale del paggio era quello di portare lo scudo del cavaliere, da cui il nome scudiero). Accompagnava il cavaliere in battaglia, aiutandolo a indossare l‟armatura e soccorrendolo quando era in difficoltà.

Alla fine di questo tirocinio, intorno ai ventuno anni, riceveva la sospirata investitura a cavaliere che avveniva con una solenne cerimonia. La sera prima, il giovane veniva lavato e rasato. Vestito con una tunica bianca (simbolo di purezza), un manto rosso (emblema del sangue che era disposto a versare in nome di Dio) e una cotta nera (che rappresentava la Morte di cui non doveva aver timore), veniva condotto in una cappella, dove avrebbe trascorso la notte pregando. Terminata la veglia notturna, il giovane cavaliere indossava i suoi abiti migliori per recarsi nella sala centrale della dimora del signore, oppure nella principale chiesa del posto, dove lo attendevano il sacerdote, il feudatario, alcuni dignitari e i parenti. Dopo la benedizione del sacerdote, il cavaliere a cui il ragazzo aveva fatto da scudiero lo colpiva leggermente tre volte sulla spalla con il piatto della spada, pronunciando la formula di rito: “In nome di Dio, di San Michele, di San Giorgio, ti faccio cavaliere”. Spesso seguiva anche un ceffone, per sottolineare che, da quel giorno, quella sarebbe stata l‟ultima offesa che avrebbe potuto subire senza chiedere soddisfazione. La cerimonia d‟investitura proseguiva poi con il neocavaliere che, giurando sul Vangelo, prometteva di combattere le ingiustizie, di difendere la Chiesa, i deboli e rispettare le donne. La cerimonia di investitura avveniva, in genere, a Natale, oppure a Pasqua, a Pentecoste, nel giorno dell‟Ascensione o alla festa di San Giovanni (di solito, comunque, la scelta della data cadeva a Pasqua o il giorno della Pentecoste).

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Tra varie cause del tramonto della cavalleria, il colpo più duro fu l‟invenzione delle armi da fuoco, un genere di armi inadatte ai cavalieri, in quanto difficili da usare restando in sella. Man mano che il tiro delle armi da fuoco diveniva più preciso (e soprattutto più rapido) i cavalieri morivano ancora prima di poter metter mano alle armi bianche.

La trama dell‟OF è intrecciata in vari episodi che vanno a costiture molteplici fili narrativi, tutti armonicamente tessuti insieme, con al centro tre vicende principali: la guerra tra Carlo Magno e i Mori, le vicende amorose di Bradamante e Ruggero e l‟amore e la pazzia di Orlando per Angelica. Tra vari episodi, nel canto 9 l‟autore ci parla di Cimosco, re di Frisia23. In questo episodio emerge anacronisticamente un‟arma da fuoco, l‟archibugio, che Ariosto descrive come la principale causa del tramonto della cavalleria. L‟archibugio, la cui invenzione, per scelta del poeta, viene anticipata di cinque secoli, iniziò ad essere usato nella seconda metà del XV secolo, e a poco a poco fu perfezionato e si diffuse, grazie allo sviluppo tecnologico; al tempo di Ariosto era già parte integrante degli equipaggiamenti militari in uso. Ma questo sviluppo aveva aspetti più generali della semplice tecnologia bellica. Sul finire del XV e con l‟inizio del XVI secolo, ebbero luogo molti cambiamenti di ordine sociale, politico, economico e tecnologico, che determinarono un cambiamento di valori non solo per quanto concerne la cavalleria, bensì riguardo a molti aspetti della vita. Si tratta di un periodo di passaggio dal medioevo all‟età moderna.

Sarebbe stato molto difficile far rientrare un‟arma da fuoco all‟interno dei canoni tipici del poema cavalleresco, perché tale genere letterario si sposa bene con un registro linguistico allusivo, a cui i termini tecnici e precisi delle nuove scienze e tecnologie mal si adattano; i concetti stessi sono difficili da rappresentare e descrivere in versi endecasillabi. In altre parole, i neologismi della tecnologia moderna avrebbero potuto danneggiare la bellezza del poema. Anche per questo motivo, nel più generale contesto del cambiamento d‟epoca,

23 L‟OF ha tre edizioni: nel 1516 è pubblicata la prima, in 40 canti; nel 1521 appare la seconda, sempre in 40 canti, con poche aggiunte ed eliminazioni di ottave e con molte correzioni di carattere essenzialmente linguistico; l‟edizione definitiva è pubblicata pochi mesi prima della morte dell‟autore (nell‟ottobre 1532), dopo essere stata profondamente ripensata non solo sul piano della trama (che risulta ampliata), ma anche sul piano stilistico.

L‟episodio di Olimpia e Bireno in cui compare il re Cimosco è la prima grande aggiunta della terza edizione, rispetto alle edizioni precedenti. In questo episodio, Orlando si cimenta in una grandiosa nuova avventura che non esisteva nelle due edizioni precedenti. Nel presente capitolo tratterò solo di una parte di questo episodio, cioè la parte in cui compare l‟arma da fuoco di re Cimosco. Nell‟intero espisodio, il re Cimosco e la sua nuova arma offrono lo scenario sul quale si svolgeranno le vicende della storia d‟amore tra Olimpia e Bireno: questa storia sarà discussa più approfonditamente nella parte sul lessico morale (III.3.2.2.2.). Nell‟edizione definitiva, Ariosto inserisce numerose pagine per questa storia:canto 9:8-94, canto 10:1-34, canto 11:21-80 e canto 12:1-4 (cfr. Giulio Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno edizione, 2008, pagg. 124-129; Ludovico Ariosto, Orlando furioso,

secondo la princeps del 1516, edizione critica a cura di Marco Dorigatti, Ferrara, Leo S. Olschki, 2006, pag.

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anche nella storia della letteratura ha avuto luogo un cambiamento, consistito nella scomparsa del „poema‟ e nell‟avanzata del „romanzo‟. Inoltre, l‟arma da fuoco sarebbe potuta diventare una minaccia per i valori cavallereschi decantati nell‟opera, poiché era già stato appurato dalla storia che un cavaliere non avrebbe mai potuto vincere contro la forza di un‟arma da fuoco. Perché, allora, Ariosto ha deciso di raffigurare un‟arma da fuoco anacronisticamente, correndo i suddetti rischi? E in quale modo è riuscito a rappresentarla?

Prima di tutto riassumiamo la storia dell‟episodio di Cimosco, in cui appare l‟arma da fuoco. Questa storia comincia con l‟incontro di Orlando e Olimpia. Orlando, alla ricerca della fuggitiva Angelica, di cui si sono perse le tracce nel 2 canto, è salpato alla volta dell‟isola di Ebuda, ma una tempesta lo fa deviare, spingendolo fino alle foci del fiume Schelda. Qui egli incontra Olimpia, la figlia del conte di Olanda, che lo prega di scortarla nel suo viaggio in Frisia, poiché il perfido re di quella terra, Cimosco, tiene prigioniero il suo amante Bireno. Cimosco è disposto a liberare Bireno soltanto a patto che Olimpia gli si consegni prigioniera come riscatto per l‟amato. Da buon cavaliere, protettore dei deboli, delle donne e delle vittime inermi, Orlando accetta di aiutare Olimpia, cosa che nessuno aveva fatto fino ad allora, a causa del terrore suscitato dalla nuova arma in possesso di Cimosco: l‟archibugio. Orlando sfida Cimosco, lo uccide nonostante la malvagità di quest‟ultimo, e infine libera Bireno, che può finalmente sposare Olimpia. Dopo tutto ciò, Orlando riparte alla volta di Ebuda, ma non prima di aver consegnato agli abissi del mare l‟infernale archibugio. Così si chiude l‟episodio di Cimosco, cioè l‟episodio in cui compare l‟arma da fuoco.

L‟arma da fuoco di Ariosto è descritta tramite gli occhi dei personaggi del poema, che non l‟hanno mai vista e non sanno nulla riguardo a questo nuovo tipo di arma, né il principio di funzionamento, né se sia o meno efficace, e neppure il nome. Quindi il poeta non poteva riportare il nome preciso dell‟arma, nonostante egli sapesse precisamente tutto riguardo ad essa (essendo vissuto nell‟età delle armi da fuoco ed essendo stato egli stesso capitano d‟artiglieria):

[...]

porta alcun'arme che l'antica gente non vide mai, né fuor ch'a lui, la nuova:

un ferro bugio, lungo da dua braccia,

dentro a cui polve ed una palla caccia. (9:28:5-8)

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di vista al paladin; ma indugia poco, che torna con nuove armi; che s'ha fatto portare intanto il cavo ferro e il fuoco: [...]

(9:73:1-4)

Il segmento -bugio della parola archibugio è stato oggetto di varie etimologie popolari, che lo vorrebbero far derivare da bucato o bugia. Basandosi su queste etimologie, Ariosto usò la parola bugio dandole il significato di „bucato‟, come si può evincere dall‟espressione bugia

altri il ferro (11:24:5). Possiamo supporre che il poeta abbia scelto espressioni come ferro bugio e cavo ferro per spiegare la forma caratteristica dell‟archibugio, in quanto quest‟ultimo

è dotato di un cannone di forma cava. Quest‟uso, però, ha in parte anche un connotato ironico, in quanto bugio si può prestare ad un‟interpretazione negativa: l‟archibugio verrebbe ad essere quindi un „ferro inutile, imperfetto‟24.

Allo stesso modo, anche nella descrizione degli effetti dell‟arma da fuoco e del suo principio di funzionamento, l‟autore adottò un registro allusivo e metaforico. Questa scelta può essere considerata come una scelta obbligata, dettata dalla necessità di descrivere il fenomeno attraverso gli occhi dei protagonisti, ignoranti al riguardo. Ma questo non è tutto: oltre a ciò, tale scelta stilistica offrì una soluzione per il problema della lingua poetica. Con questo espediente, Ariosto ha potuto rappresentare l‟arma moderna con il linguaggio tradizionale della poesia, senza rovinare la bellezza del poema:

Col fuoco dietro ove la canna è chiusa, tocca un spiraglio che si vede a pena; a guisa che toccare il medico usa dove è bisogno d'allacciar la vena: onde vien con tal suon la palla esclusa, che si può dir che tuona e che balena; né men che soglia il fulmine ove passa, ciò che tocca, arde, abatte, apre e fracassa. (9:29)

24 La reale etimologia è da ricondurre al tedesco Hakenbüchse „moschetto (Büchse) a uncino (Haken)‟ (DELI). Il termine è stato poi accostato per etimologia popolare ad arco e all‟antico bugio „bucato‟. Inoltre, alcuni commentari all‟OF come il Papini riportano che bugio sia stato accostato a „bugia‟, in quanto cosa vana o vuota (L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di Pietro Papini, Firenze, Sansoni, 1957, p. 95, nt. 28.7.).

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Nella strofa riportata sopra, l‟autore sta descrivendo (per bocca di Olimpia) le varie fasi dell‟esplosione e l‟effetto devastante dei colpi dell‟arma da fuoco di Cimosco. Per questo Ariosto usò in una sola ottava tre metafore : vena, tuonare, balenare, fulmine.

La vena rappresenta la precisione con cui il meccanismo d'innesco dell‟archibugio tocca la parte contenente la polvere da sparo. Tuonare e balenare stanno ad indicare il rumore e la luminosità dell'esplosione dell'arma da fuoco, mentre il fulmine indica l'effetto devastante e mortale dell'esplosione. Ma di questi tre paragoni, uno è qualitativamente diverso dagli altri due: è la vena. Nel caso di tuonare, balenare e fulmine, abbiamo a che fare con due figure tipiche del linguaggio figurato letterario, soprattutto in poesia. Quindi, con questo tipo di metafora, qualunque lettore può capire cosa intendeva rappresentare l‟autore. Vena, invece, richiede al lettore delle competenze, seppur basiche, in medicina, cioè in una branca scientifica che nei tempi moderni stava subendo un grande sviluppo in senso empirico (lo stesso sviluppo di cui la tecnologia bellica è stata una parte). Questo passaggio ci fornisce una conferma dell‟ambiente ideologico rinascimentale in cui si muoveva il poeta, un‟epoca di passaggio in cui il metodo empirico (consolidatosi specialmente con l‟epistemologia di Galilei) ha trasformato molte discipline scientifiche, che vengono ad assumere la loro forma moderna. Questa trasformazione ha lasciato la sua impronta anche nel lessico della lingua italiana, che si è venuto ad arricchire di moltissimi nuovi apporti terminologici, molto precisi, che avevano lo scopo di descrivere in maniera concisa, ma esatta, le nuove nozioni acquisite. Ma tali termini non facevano parte dell‟inventario terminologico della tradizione poetica: che fare? Il poeta si trova ad un bivio: o integrare i nuovi termini nel proprio lessico poetico, oppure esprimere i nuovi concetti in maniera metaforica. Ed è proprio questa seconda possibilità che viene sviluppata da Ariosto, come è evidente nella strofa sopra citata: l‟autore sceglie di rimanere formalmente ancorato alle consuetudini del poema cavalleresco, usando pertanto un linguaggio metaforico per descrivere l‟innesco e l‟esplosione della polvere da sparo, come pure i suoi letali effetti. A. Scurati25 parla della tecnologia moderna come una sorta di “nuovo meraviglioso”, che verrebbe a sostituire le spade magiche e i grifoni alati del medioevo. Ma allora, potremmo chiederci, essendo tali tematiche moderne potenzialmente nocive per l‟integrità della tradizione poetica, era proprio necessario inserire un‟anacronistica arma da fuoco nel poema?

25 Antonio Scurati, Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale. Nuova edizione con una

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Finora abbiamo provato a riflettere sul metodo scelto da Ariosto per includere l‟arma da fuoco nel suo poema cavalleresco. Ora ci concentreremo sul messagio che il poeta voleva trasmettere al lettore attraverso la comparsa anticipata della nuova arma.

Questo nuovo ritrovato della scienza, l‟arma da fuoco, ha un effetto tanto potente da non essere paragonabile a quello delle armi bianche dei cavalieri:

Pose due volte il nostro campo in rotta con questo inganno, e i miei fratelli uccise: nel primo assalto il primo; che la botta, rotto l'usbergo, in mezzo il cor gli mise; ne l'altra zuffa a l'altro, il quale in frotta fuggìa, dal corpo l'anima divise; e lo ferì lontan dietro la spalla, e fuor del petto uscir fece la palla. (9:31)

La contessa d‟Olanda, che è venuta a sapere che il re di Frisa, Cimosco, l‟aveva chiesta in sposa per suo figlio, ha rifiutato l‟offerta di matrimonio per restare fedele all‟amato Bireno. Cimosco, arrabiato per questo, aveva dichiarato guerra all‟Olanda. Nell‟ottava qui sopra, Olimpia descrive l‟assalto del nemico Cimosco, vittorioso a causa di un‟arma sconosciuta che ha un effetto devastante e mortale, in quanto è capace di trapassare le corazze, e soprattutto colpisce, slealmente, di lontano. Alla persona che la affronta per la prima volta (è il caso di Olimpia), tale arma appare come qualcosa di ingannevole (questo inganno, 9:31:2). Con la sua potenza ingannatrice, l‟arma da fuoco minacciava la cultura cavalleresca e privavai cavalieri di tanti dei loro valori.

Nella cultura antica, come pure nella cultura cavalleresca, la morte di un guerriero era tanto importante quanto la sua vita. I cavalieri venivano valutati per il proprio valore sul campo di battaglia, e guadagnavano onore mostrando la propria destrezza nelle tecniche di combattimento, una destrezza che ottenevano tramite un lungo e duro addestramento ricevuto già dall‟adolescenza, nonché tramite una lunga e variata esperienza. Così come trovavano il significato e il valore della loro vita sul campo di battaglia, lì volevano anche accogliere la fine di tale vita. Essi pensavano che una morte incontrata combattendo coraggiosamente nel nome di una fedeltà alle gerarchie ecclesiastiche e nobiliari fosse gloriosa e perfetta, e davano estrema importanza al ricordo che avrebbero lasciato nel popolo in seguito alla loro morte

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gloriosa. Per essi, la morte era un modo valido per portare a compimento una vita valorosa, non qualcosa da evitare e temere.

Ma l‟invenzione delle armi da fuoco ha determinato la fine del glorioso ideale di morte dei cavalieri. La morte inflitta dalle armi da fuoco è istantanea e improvvisa, un fenomeno imperscrutabile per la persona, che la subisce senza nemmeno capirla.

Questo nuovo tipo di armi, cioè, nega ai cavalieri l‟opportunità di morire gloriosamente (in quanto nega loro un„effettiva occasione di combattere). Attraverso il racconto della morte del padre di Olimpia, una morte crudele proprio perché istantanea, il poeta denuncia l‟arma da fuoco (l‟archibugio di Cimosco) che ha tolto ad un valoroso re guerriero il momento dell‟agonia, momento in cui il cavaliere avrebbe potuto ripercorrere dentro di sé tutta la propria vita, capendone il senso nel momento estremo:

Difendendosi poi mio padre un giorno dentro un castel che sol gli era rimaso, che tutto il resto avea perduto intorno, lo fe' con simil colpo ire all'occaso; che mentre andava e che facea ritorno, provedendo or a questo or a quel caso, dal traditor fu in mezzo gli occhi colto, che l'avea di lontan di mira tolto. (9:31)

Ariosto, tramite il suo Orlando, aveva lanciato una sfida a Cimosco, cioè all‟arma da fuoco. Il paladino di Francia sfida il re di Frisia in singolar tenzone, secondo le regole della

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