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2. Europa mediterranea: terra di confine e incontro

2.1 Diaspora e border thinking

2.1.1. La condizione diasporica

Il termine “diaspora” deriva dal greco diaspeirein, un verbo che significa letteralmente “seminare qua e la”; è in origine riferito alla diffusione della cultura greca nel bacino del Mediterraneo ed è poi tradizionalmente legato all’esperienza ebraica.

Gli studi postcoloniali, soprattutto verso la fine degli anni novanta, riconoscono tale origine sottolineando la complessità del concetto e dell’esperienza diasporica come condivisa da numerosissime culture.

Nel 1997 Robin Cohen nel suo Global Diasporas102 sottolinea proprio come la condizione diasporica sia comune a tutte quelle comunità che a causa di un movimento forzato devono ricollocarsi fuori dalla propria terra originaria (reale o immaginata) e che si riconoscono in una cultura, lingua, religione, memoria condivisa (anche quando l’esperienza della memoria o della rememory ha difficoltà a realizzarsi nella sua completezza). L’esperienza dello spostamento, del viaggio è quindi coatta, dolorosa e determinata da motivi sostanzialmente esterni. Negli studi culturali il concetto viene però esteso non solo all’esperienza dolorosa del distacco dalla propria terra di origine. Gli studi postcoloniali in particolare lavorano su un concetto di diaspora più complesso che consente di rileggere la storia della schiavitù, del middle passage, del colonialismo, delle realtà postcoloniali, dell’emigrazione e globalizzazione contemporanee in modo più articolato e produttivo. La condizione diasporica gioca un ruolo strutturante e

determinante nei processi di costruzione e rappresentazione dell’identità postcoloniale (e, se vogliamo, anche postmoderna).

Guardando l’opera di Stuart Hall è interessante notare come lo studioso abbia insegnato a studiare al mondo caraibico non come semplice diaspora dell’Africa, ma anche come diaspora dell’Europa, della Cina, dell’Asia. Lo studio del concetto-condizione di diaspora diventa riflessione sulla complessità culturale e sulle nuove etnicità postcoloniali contemporanee.

Nel suo saggio Cultural Identity and Diaspora, Hall dice che l'identità del popolo caraibico non va pensata in senso “archeologico” come semplice riscoperta di radici africane, ma la condizione diasporica è intesa appunto come processo attraverso il quale il soggetto si costruisce e si modifica costantemente, attraverso il dialogo spesso conflittuale con altre culture e spostamenti continui. Quando Hall lavora sul suo concetto di “nuova etnicità”, pensa ad una nozione lontana da ogni essenzialismo neutro, è un’etnicità positiva dei margini e della periferia, nel senso che per esistere non deve marginalizzare, espropriare o dimenticare altre etnicità. A questo discorso Hall lega il concetto di diaspora e di “diasporazione” culturale come condizione storica post- coloniale traumaticamente determinata dall’imposizione e normalizzazione forzata ad un sapere dominante.

Tale prospettiva è condivisa da ogni marginalità e dialoga con forme di rappresentazione e tradizioni diverse o lontane. L’idea di diaspora diventa quindi riconoscimento di una necessaria eterogeneità e diversità (identità che convive e dialoga con la differenza, che si forma e trasforma costantemente attraverso la differenza). I “nuovi tempi”, come li chiama Hall, devono inevitabilmente rendere conto della

centralità del bisogno umano di identificazione e appartenenza, ma devono anche far giocare questa consapevolezza con una nuova politica dell’identità e rappresentazione, e quindi con nuove forme di etnicità.

In questi studi (dagli scritti di Homi Bhabha, Etienne Balibar, a quelli di Gloria Anzaldùa, di Paul Gilroy, ma anche quelli di Iain Chambers e Sandro Mezzadra più vicini alla situazione europeo-mediterranea), la condizione diasporica è vista come tensione, sospensione, dolore ma anche fluidità, assimilazione e contaminazione. Diventa dunque elemento centrale nei processi di appartenenza e costruzione identitaria e determina una rimappatura delle storie culturali necessariamente lontana da ogni essenzialismo ed universalismo.

Le riflessioni sul confine diventano per Mezzadra parte integrante e costitutiva delle sue analisi sui fenomeni migratori e sul concetto e condizione di cittadinanza. Nel suo saggio Confini, migrazioni, cittadinanza103 lo studioso, partendo dalla concezione classica del concetto di confine e di Stato, osserva come la distinzione interno/esterno determinata dalla tenuta del confine è proprio motore dei fenomeni migratori.

[…] la condizione che ha consentito il prendere forma di precisi “sistemi migratori” e di una relativamente ordinata geografia delle migrazioni internazionali. Si potrà obiettare, e legittimamente, che sotto il profilo storiografico questo presupposto ha spesso condotto a una rappresentazione pacificata e idilliaca delle migrazioni in Europa – a dimenticare quello che Saskia Sassen ha definito “il cono d’ombra della storia d’Europa”, in cui “vi sono masse di individui deportati, sradicati ed errabondi che vivono in terra straniera, in

paesi che non riconoscono loro alcuna ‘appartenenza’.104

103

104 Sandro Mezzadra, Confini, migrazioni, cittadinanza, in

www.sissco.it/fileadmin/user_upload/.../con fini/confini_mezzadra.pdf. L’autore indica che una versione precedente del brano è presente in «Scienza & Politica», n. 30, 2004, pp. 83-92.

Secondo l’autore l’architettura dell’Europa coloniale si fondava già sull’esistenza di un “meta confine”, sulla differenza tra le terre europee “occidentali” e le terre aperte alla conquista coloniale.

Rispetto a tali riflessioni è lo stesso Mezzadra che cita Etienne Balibar quando ci dice che “l’Europa è il punto da cui sono partite, sono state tracciate dappertutto nel mondo le linee di confine, perché essa è la terra natale del concetto stesso di confine”, e che dunque il problema dei confini dell’Europa è sempre coinciso con quello dell’organizzazione politica dello spazio “mondiale”105. Mezzadra scrive, riferendosi e continuando a citare testi e autori dei border studies europei e latino-americani, che il proliferare dei confini (e contemporaneamente la crisi del concetto classico di confine e quindi del rapporto Stato/territorio) si presenta come l’“altro lato della globalizzazione”. Il confine contemporaneo “si scompone prismaticamente” all’interno e all’esterno della città e dello Stato106.

Al contempo, l’univocità della definizione “geopolitica” del confine appare messa in discussione, e altre valenze del concetto – da quella culturale a quella simbolica a quella “cognitiva” – vengono in primo piano nello stesso operare politico del confine.[…] La mia convinzione è che i movimenti migratori contemporanei permettano di precisare la tesi appena presentata, mostrando al contempo l’intensità delle tensioni e dei conflitti che

105

Ivi, pag.107. L’autore indica la fonte di tale brano E. Balibar, Le crainte des masses. Politique et

philosophie avant et après Marx, Galilee, Paris, 1997, pp. 382 e 387 e ss..

106 Mezzadra cita in nota anche questi due testi italiani: P. Zanini, Significati del confine. I limiti

naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano, 1997 e S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997.

sono in gioco in questo doppio movimento di scomposizione e di ricomposizione dei confini.107