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2. Europa mediterranea: terra di confine e incontro

2.1 Diaspora e border thinking

2.1.2. Sulla soglia, sul confine

La condizione diasporica è quindi esperienza della differenza, della frontiera, del confine, e la teoria e l’analisi dei diaspora studies non può che dialogare con i border

studies.

Paul Gilroy definisce “formazioni in opposizione” le storie delle culture ribelli nel mondo postcoloniale, le loro battaglie e le loro culture trans-locali108; e promuove un nuovo scrutinio critico del rapporto tra le culture con il luogo e con le dinamiche imperiali, coloniali, postcoloniali e I meccanismi di gerarchia razziale.109

A nostro avviso gli studi sulla diaspora insegnano a leggere, ascoltare e guardare ad alcune teorie, ma anche pratiche ed estetiche come vere e proprie “formazioni di opposizione”.

107

S. Mezzadra, Confini, migrazioni, cittadinanza, pag. 108, (per la definizione “cognitiva” del confine Mezzadra mette in nota P. Zanini, Significati del confine. I limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano, 1997 e S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Il Saggiatore, Milano, 1997).

108 In particolare nel suo volume Black Atlantic (Roma, Meltemi Editore, 2003) Paul Gilroy si

riferisce alla storia dei neri dell’Atlantico che diventa un modello per individuare altre possibilità e interpretazioni di estetiche e contro-estetiche proprie delle diverse “culture ribelli” che nascono dai processi di colonizzazione, decolonizzazione, diaspora.

109 Guardando a questo suo nuovo progetto di cartografia e storiografia, Gilroy tiene d’occhio i

rischi della retorica multiculturale. “In questo progetto critico, le complesse affinità trans locali non dovranno banalizzare la solidarietà cosmo-politica” (P. Gilroy, Black Atlantic, op. cit., pag.32).

Si tratta di produzioni estetiche che attraversano, come la diaspora, tutti i continenti, dal Nord al Sud, dall’Ovest all’Est, mettondo in scena con diverse modalità e sensibilità l’irrequietezza e il nomadismo, nonché l’incontro tra modelli culturali.

La diaspora dialoga pertanto con il neo-liberismo e neo-imperialismo di stampo occidentale, con il nazionalismo, i processi di globalizzazione, le politiche culturali, i movimenti migratori, e con i concetti più o meno lontani di egemonia, Altro, etnicità, subalterno.

Avvalendosi della lezione di James Clifford sulle travelling cultures110, Gilroy nel suo volume del 1993 Black Atlantic sottolinea come è importante ricordare che la diaspora e il border crossing non sono semplici sinonimi di movimento. Anche perché il rischio che questi concetti siano assorbiti dalle teorie del nomadismo occidentale, o peggio del turismo e consumismo culturale, è sempre alto. Una certa retorica del multiculturalismo esotista edulcora la forza dei nuovi discorsi postcoloniali sulla complessità dei processi identitari contemporanei e sulla relativizzazione culturale. Anche Stuart Hall già nel 1992 sosteneva che c’è il rischio di romanticizzare la figura del viaggio, dell’ibridità e del movimento dando luogo a formazioni reazionarie e regressive: quello di cui si sta parlando è il rapporto fra il processo d’indigenization e le dinamiche della globalizzazione e localizzazione. D’altronde, la modernità e il fascino del pensiero diasporico si collocano nella nuova traiettoria tra gli studi sulla diaspora e i border

studies. Al di là di un attaccamento alle appartenenze e di una certa retorica della

ricompensa e del ritorno, la diaspora rappresenta un’alternativa alla metafisica della

110 J. Clifford, Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Harvard, Harvard University

razza, della nazione e dell’universalismo culturale. È un concetto, sempre secondo Gilroy, che disturba attivamente la meccanica storica e culturale dell'appartenenza. Lo stare sul confine, il vivere la soglia diventa la condizione per pensare diversamente ai concetti di identità, multiculturalismo e incontro con l’Altro.

Pensiamo sia importante continuare ad osservare il rapporto che i movimenti migratori contemporanei intrattengono con l’idea e la pratica del confine ed è di questo che si occupano soprattutto i border studies statunitensi e molti lavori di ricerca sulla frontiera fra Messico e Stati Uniti111.

Come ci racconta splendidamente Gloria Anzaldùa nel suo volume Borderland/La

frontera112 il confine è una ferita che brucia e continua a bruciare sul corpo di chi lo

vive e contemporaneamente diventa lo spazio per una cultura altra. La frontiera è descritta come crocevia di incontri e scontri culturali, spazio non-luogo113 dell’inbetweenness (Bhabha), location sofferta e scelta dagli scrittori liminali che scelgono il confine come punto di vista privilegiato dal quale osservare il mondo. Nella prima poesia del libro La patria, Azlán El otro México (ne seguiranno altre alternate ad una prosa a volte saggistica, altre narrativa), l’autrice in pochi versi condensa la complessità del confine:

111

Secondo Sandro Mezzadra viene sempre dai border studies latino-americani l’invito a rivisitare la teoria della frontiera ponendo l’accento sulla sua complessità e ambivalenza, sulla dialettica, nella stessa esperienza dei migranti, tra border crossing e border reinforcing (P. Vila, The Limits of

American Border Theory, in Id. (a cura di), Ethnography at the Border, University of Minnesota Press,

Minneapolis-London, 2003, pp. 306-341).

112

G. Anzaldùa, Terra di confine/La frontiera (1987), trad. ita P. Zaccaria, Bari, Palomari, 2000.

113 Usiamo l’espressione “non-luogo” non nell’accezione di Marc Augé. Intendiamo la frontiera o il

confine proprio come luoghi antropologici e culturali di relazione ma che sfuggono ad una stabilità e definizione unitaria e condivisa.

[…]Una ferita aperta lunga 1.950 miglia/Che divide un pueblo, una cultura,/scorre lungo il mio corpo,/pianta pali di recinzione nella mia carne,/mi lacera mi lacera/me raja me

raja/Questa è la mia casa/Questa sottile linea di filo spinato./Ma la pelle della terra non ha

cucitura./Il mare non può essere chiuso in un recinto,/el mar non si ferma ai confini./[…]114

E prosegue nel testo: “Il confine tra Stati Uniti e Messico es una herida abierta dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina. E prima che si formi una cicatrice, la ferita torna a sanguinare, e dal sangue di due mondi nasce un terzo paese-una cultura di confine.”115 Il testo della Anzaldùa è il racconto onesto e coinvolgente di questo stare sulla soglia, vivere l’alterità (personale, culturale, linguistica, fisica, simbolica e di

gender) in modo complesso, intimo e radicale. L’autrice scrive dalla periferia

dell’Occidente atlantico, dalla terra di confine tra Stati Uniti e Messico; la sua proposta di una coscienza mestiza diventa atto politico e culturale mirato all’idea di una nuova concezione identitaria complessa, non stabile, relativa, contingente che lavora contro ogni essenzialismo culturale, di genere, di razza attraverso la scrittura, il racconto, la rappresentazione simbolica, riscrivendola.

L’autrice descrive i miti, le storie, gli usi della sua cultura mestiza, ma l’analisi di questa realtà ibrida e ricca non è l’occasione per una forma di esotismo glorificante. È proprio la Anzaldùa che ce lo dice e tiene a comunicare il suo intento.

Sebbene difenderò la mia razza e la mia cultura ogni volta che vengono attaccate dai non-

mexicanos, conosco el molestar de mi cultura.[…] No, non compro tutti i miti della tribù

in cui sono nata.[…] Ma non glorificherò quegli aspetti della mia cultura che mi hanno ferita e lo hanno fatto dicendo che era per proteggermi.

114 Ivi, pag. 29. 115 Ibidem.

Perciò non datemi i vostri credi e le vostre leggi. Non datemi i vostri tiepidi dei. Quello che voglio è fare i conti con tutte e tra le culture – bianca, messicana, indiana. Voglio la libertà di incidere e cesellare il mio viso, di arrestare il sangue con la cenere, di modellare i miei dei personali con le mie interiora. E se tornare a casa mi è negato, devo sollevarmi e reclamare il mio spazio, costruendo una nuova cultura – una cultura mestiza – con la

mia legna, i miei mattoni e il mio mortaio le mie architetture femministe.116

Nelle riflessioni dell’autrice troviamo insieme gli studi culturali, le teorie e lotte femministe, i border studies e i subaltern studies.

Molto preziosa è tutta la parte che l’autrice dedica alla questione della lingua e a quanto sia costitutivo dell’identità mestiza l’avere una; che dia la possibilità di superare “la tradizione del silenzio”, ed inoltre l’opportunità di poter avere un volto da riconoscere allo specchio e un nome. Diventa centrale quindi la necessità di recuperare la propria storia e la cultura comune “le nostre psiche somigliano alle città di confine e sono popolate dallo stesso tipo di gente” (lotte interiori su territori esteriori).

L’autrice sta parlando quindi anche della centralità dei modi di rappresentazione (narrativi, visuali, linguistici, sociali, estetici e anche artistici) nei rapporti egemonici tra cultura, identità e potere. Il possibile avvicinamento tra diversi può avvenire solo con il “riconoscimento della differenza e della negazione del diverso” e attraverso l’ammenda pubblica delle brutalità commesse (dalla cancellazione dell’esperienza e della storia del diverso all’aver trasferito il “negativo” sul diverso). I bianchi, secondo l’autrice, devono accettare il loro doppio, il diverso “Quando recupererai la tua ombra collettiva, la frattura intraculturale si risanerà"117.

E aggiunge:

116 Ivi, pag. 51. 117 Ivi, pag. 130.

Cerco un’assoluzione, uno sguardo che passi attraverso le invenzioni della supremazia bianca, un’immagine di noi stesse come veramente siamo e non rivestite della falsa personalità razziale che ci è stata data e che ci siamo date.[…] Cerco nuove immagini di identità, nuove opinioni su noi stesse, dove la nostra umanità e il nostro valore non siano più in discussione.118

Ed è questo uno degli aspetti più interessanti che animano la nostra ricerca, che lo studio di una realtà di confine diventi lo studio di identità nuove (le “nuove etnicità” di Hall), subalterne, multiple, diasporiche, e possa essere quindi l’occasione per un’analisi che investa le teorie e le pratiche delle rappresentazioni cinematografiche dall’alterità sul confine.