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La distruzione di Cartagine secondo Velleio Patercolo

LA CADUTA DI CARTAGINE DEL 146 a.C.

2.7. La distruzione di Cartagine secondo Velleio Patercolo

Altra fonte degna di essere presa in considerazione è lo storico latino Velleio Patercolo, vissuto a cavallo tra I secolo a.C. e I secolo d.C., autore degli Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo. Egli dedica un capitolo del libro I della sua opera storiografica alla terza guerra punica e alla distruzione di Cartagine, soffermandosi su eventi del tutto assenti in Polibio: ciò determina l’importanza di Velleio come fonte, perché le divergenze possono far pensare che egli non si sia servito di Polibio come fonte principale.

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Lo storico latino si sofferma, più che sull’aspetto evenemenziale della guerra e della distruzione di Cartagine, sulle cause che le hanno determinate.

Et sub idem tempus, magis quia volebant Romani, quidquid de Carthaginiensibus diceretur credere quam quia credenda adferebantur, statuit senatus Carthaginem exscindere. Ita eodem tempore P. Scipio Aemilianus, vir avitis P. Africani paternisque L. Pauli virtutibus simillimus, omnibus belli ac togae dotibus ingeniique ac studiorum eminentissimus saeculi sui, qui nihil in vita nisi laudandum aut fecit aut dixit ac sensit, […] aedilitatem petens consul creatus est. Bellum Carthagini iam ante biennium a prioribus consulibus inlatum maiore vi intulit.103

Contemporaneamente il Senato decise di annientare Cartagine: più perché i Romani avevano interesse a prestare orecchio a tutte le dicerie che correvano sul conto dei Cartaginesi, che per la credibilità di tali voci. Fu allora creato console, sebbene fosse solamente candidato all’edilità, Publio Scipione Emiliano, nel quale si rispecchiavano le virtù dell’avo Publio Africano e del padre Lucio Paolo, l’uomo più eminente della sua generazione per il talento militare e politico come per l’ingegno e la cultura, che in tutta la sua vita nulla fece o disse o pensò che non fosse degno di lode. Egli riprese con maggior vigore le operazioni contro Cartagine, iniziate ormai da due anni dai consoli precedenti.

In questo passo lo storico esprime la propria opinione in merito al dibattito sorto per decidere del destino di Cartagine: egli, infatti, sembra prendere le distanze dalla posizione di Catone che, come si è visto, riesce a convincere il Senato del pericolo costituito dalla città africana e della necessità di annientarlo, perché dice che i Romani avevano dato credito alle voci circolanti sulla città punica senza verificarne la veridicità. Dalle parole di Velleio sembra, quindi, che Cartagine non costituisse una vera minaccia per i Romani.

Non manca un elogio del generale romano alla guida della campagna africana: Scipione Emiliano. Questi, stando a quanto scrive Velleio, primeggia in tutti gli ambiti della vita militare e della cultura, compiendo in ogni occasione azioni degne di lode, a differenza degli uomini del suo

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tempo, ed incarna le virtù del padre Lucio Emilio Paolo. A questo proposito, lo storico latino dice cosa ha fatto il vincitore di Perseo, alla vigilia della battaglia di Pidna del 168 a.C.

Is, cum […] ante triumphi diem ordinem actorum suorum commemoraret, deos immortalis precatus est, ut, si quis eorum invideret operibus ac fortunae suae, in ipsum potius saevirent quam in rem publicam. Quae vox veluti oraculo emissa magna parte eum spoliavit sanguinis sui; nam alterum ex suis, quos in familia retinuerat, liberis ante paucos triumphi, alterum post pauciores amisit dies.104

Prima del giorno del trionfo, Paolo, nel fare la relazione del suo operato, pregò gli dei che, se qualcuno di loro guardava di mal occhio le sue imprese e i suoi successi, si accanisse contro la sua persona piuttosto che contro lo stato. Queste parole, quasi fossero uscite da un oracolo, lo privarono di gran parte della sua discendenza: dei due figli che aveva tenuto con sé l’uno morì pochi giorni prima del trionfo, l’altro pochissimi giorni dopo.

Da questo passo si evince che Emilio Paolo è rispettoso e timoroso degli dei perché si augura di avere la loro approvazione circa la campagna militare in Macedonia. Egli, inoltre, incarna le caratteristiche del vero generale romano perché prega gli dei affinché un eventuale rovescio della sorte si abbatta solo su di lui, salvando, quindi, Roma105.

Alla fine della terza guerra punica, Velleio ricorda che

eamque urbem magis invidia imperii quam ullius eius temporis noxiae invisam Romano nomini funditus sustulit fecitque suae virtutis monimentum, quod fuerat avi eius clementiae. Carthago diruta est, cum stetisset annis sexcentis septuaginta duobus, abhinc annos centum septuaginta tris Cn. Cornelio Lentulo L. Mummio consulibus.106

Egli distrusse Cartagine totalmente, città invisa a Roma più per gelosia di potenza che per colpe commesse in quel tempo e la rese così testimonianza del suo valore, come lo era stata della clemenza del suo avo. Cartagine fu distrutta, dopo seicentosettantadue anni di esistenza, sotto il consolato di Gneo Cornelio Lentulo e di Lucio Mummio, esattamente centosettantatré anni fa.

Neque se Roma iam terrarum orbi superato securam speravit fore, si nomen usquam stantis maneret Carthagini; adeo odium certaminibus

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Vell. I. 10.4-5.

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Cfr. Plut. Cam. 5.7-8: Furio Camillo aveva rivolto agli dei una preghiera simile alla vigilia della conquista di Veio del 396 a.C.

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ortum ultra metum durat et ne in victis quidem deponitur neque ante invisum esse desinit quam esse desiit.107

Roma, vittoriosa ormai su tutto il mondo, riteneva di non poter vivere tranquilla se rimanevano in qualche luogo le tracce dell’esistenza di Cartagine: tanto è persistente, anche al di là del timore, l’odio che nasce nei conflitti, e che non si dilegua neppure davanti ai nemici vinti. L’oggetto dell’odio non cessa dall’essere tale finché non cessa di esistere.

In questi passi lo storico latino ribadisce quelle che a suo dire sono le vere cause che hanno determinato la distruzione di Cartagine da parte dei Romani: alla base ci sarebbe una sorta di “invidia” per l’espansione punica nel Mediterraneo e non la paura per la minaccia cartaginese. A sostegno di ciò, basti ricordare che dopo la distruzione di Cartagine e quella di Corinto Roma non ebbe più ostacoli al dominio del Mediterraneo.

Velleio sottolinea in più punti la brutalità della distruzione della città: Cartagine, infatti, tranne i templi, viene totalmente rasa al suolo e il territorio viene consacrato agli dei Inferi in modo che nessuno avrebbe potuto abitarvi in futuro.

La ricostruzione di Velleio mette in luce momenti diversi dello stesso episodio da quelli evidenziati dagli altri storici: egli, infatti, rileva le cause della guerra, le virtù di Scipione e pone enfasi sulla distruzione totale di Cartagine; mancano, invece, riferimenti al personaggio di Asdrubale, a sua moglie e al tema della mutevolezza della sorte umana. Questa discrepanza può essere spiegata con la presenza di fonti diverse alla base della ricostruzione dello storico; secondo Velleio il 146 a.C. è una sorta di

discrimen nella storia romana perché è a partire da quest’anno che ha inizio

la degenerazione della società romana, proprio come conseguenza della fine del metus hostilis.