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Le cadute di Cartagine e Corinto a confronto

CAPITOLO QUARTO CONSIDERAZIONI FINAL

4.1. Le cadute di Cartagine e Corinto a confronto

In base alle fonti che le hanno descritte, è possibile procedere ad un sommario confronto tra la narrazione della caduta di Cartagine e quella di Corinto. Sono molti i motivi che spingono in questo senso, innanzitutto l’anno in cui esse avvengono, il 146 a.C. Sono gli stessi storici antichi che mettono in risalto la coincidenza temporale:

Ante triennium quam Carthago deleretur, M. Cato, perpetuus diruendae eius auctor, L. Censorino M. Manilio consulibus mortem obiit. Eodem anno, quo Carthago concidit, L. Mummius Corinthum post annos nongentos quinquaginta duos, quam ab Alete Hippotis filio erat condita, funditus eruit.1

Sotto il consolato di Lucio Censorino e di Manio Manilio, tre anni prima della rovina di Cartagine, era morto Marco Catone, che ne aveva di continuo propugnato la distruzione. Nell’anno stesso della fine di quella città Lucio Mummio abbatté dalle fondamenta Corinto, che Alete figlio di Ippote aveva edificato novecentocinquantadue anni prima.

Anno ab Urbe condita DCVI, hoc est eodem anno, quo et Carthago deleta est, Cn. Cornelio Lentulo L. Mummio consulibus ruinam Carthaginis eversio Corinthi subsecuta est, duarumque potentissimarum urbium parvo unius temporis intervallo per diversas mundi partes miserabile conluxit incendium.2

Nell’anno 606 dalla fondazione di Roma, nello stesso anno cioè in cui fu distrutta Cartagine, durante il consolato di Gneo Cornelio Lentulo e Lucio Mummio, la distruzione di Cartagine fu presto seguita dall’annientamento di Corinto, e nel breve intervallo di uno stesso periodo in parti diverse della terra risplendette tragicamente l’incendio di due potentissime città.

1 Vell. I. 13.1. 2 Oros. V. 3.1. 3 Zon. IX. 31.

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Dunque quelle antiche Cartagine e Corinto ebbero insieme questa fine, ma dopo molto tempo, avendo ricevuto la colonizzazione dei Romani, fiorirono di nuovo e tornarono all’antica situazione.

Ciò che rende ancora più consonanti queste due cadute è il fatto di essere state narrate dai medesimi storici antichi; Polibio, infatti, è la fonte principale di entrambe, importante perché non solo è contemporaneo degli eventi di cui parla nelle Storie, ma vi partecipa attivamente in prima persona: accompagna Scipione Emiliano nella guerra contro Cartagine assistendo, così, alla conquista e alla distruzione della città e successivamente si trova in Acaia dopo la caduta di Corinto con funzione di mediatore, contribuendo alla riorganizzazione della Grecia dopo la sconfitta. Tuttavia il testo polibiano, per i libri che ci interessano, cioè il XXXVIII e il XXXIX, è giunto fino a noi per frammenti e quindi la ricostruzione degli eventi, così come la valutazione del debito degli storici posteriori nei confronti di Polibio, ha avuto bisogno dell’ausilio di altre fonti.

Proprio perché Polibio è contemporaneo della terza guerra punica e di quella acaica, la narrazione risente della delicata posizione da lui assunta a Roma nel corso della sua permanenza e nei confronti dell’imperialismo romano, essendo lui un cittadino greco giunto in Italia come ostaggio; è, inoltre, condizionata dal rapporto con la famiglia degli Scipioni, alla quale appartiene il distruttore di Cartagine Scipione Emiliano, e dagli obiettivi stessi della sua opera storiografica. Pertanto è stato opportuno capire la posizione assunta da Polibio in questi anni per valutare correttamente il punto di vista dello storico nei confronti della distruzione di Cartagine e Corinto.

Per quanto riguarda la terza guerra punica e la conseguente caduta di Cartagine, è bene soffermarsi su quanto Polibio dice nel libro XXXVI delle

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Storie: egli riporta alcune opinioni dei Greci sui comportamenti romani,

giusti o sbagliati che siano, che l’hanno determinata4; questo passo deriva dalle res Graeciae del 150/149 a.C. e sembra essere la discussione più dettagliata della politica romana dopo la conquista dell’ , discussione che, poiché viene collocata da Polibio nel 168 a.C., sembra doversi ricollegare ai propositi espressi nel secondo proemio5:

Alcuni infatti approvavano il comportamento dei Romani e dicevano che essi avevano preso una decisione saggia e accorta riguardo al loro dominio, perché l’aver reso sicuro il potere per la propria patria, eliminando quella paura sempre incombente e la città che era stata più volte in lotta con loro per l’egemonia e che ancora adesso era in grado di contendergliela se ne avesse avuta l’occasione, era un comportamento da uomini assennati e lungimiranti.

Poiché Cartagine era diventata una minaccia per Roma, la sua distruzione era inevitabile per la sicurezza e il dominio di quest’ultima. Ma esiste anche un’altra opinione sui medesimi fatti, che getta un ponte verso l’antichità greca istituendo un confronto non ovvio:

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Ma alcuni li contraddicevano e ripetevano che i Romani non si erano affatto procurati l’egemonia tenendo questa condotta e che a poco a poco stavano deviando verso la brama di potere degli Ateniesi e degli Spartani, 4 Cfr. Polyb. XXXVI. 9. 5 Cfr. Polyb. III. 4. 6 Polyb. XXXVI. 9.3-4. 7 Polyb. XXXVI. 9.5-8.

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che si muovevano più lentamente di questi, ma, a giudicare da quanto si incominciava a vedere, sarebbero giunti alla stessa fine. […] Infatti, sebbene questi ultimi non avessero commesso nulla di irreparabile, i Romani avevano preso su di loro una decisione dura e irreparabile, pur avendo i Cartaginesi accettato qualsiasi condizione e nonostante si fossero sottomessi a eseguire qualsiasi ordine.

L’atteggiamento di Roma verso Cartagine rappresenta, dunque, secondo quest’altro avviso, un cambiamento della politica romana, già avviato alla fine della terza guerra macedonica nel 168 a.C.; Roma, quindi, sembra seguire la strada intrapresa nel V secolo a.C. da Atene e nel IV secolo a.C. da Sparta, la stessa con la quale non solo avrebbe assunto un atteggiamento tirannico, ma anche, procurandosi l’odio dei propri alleati- sudditi, avrebbe perso il suo dominio per causa loro. Il comportamento romano nei confronti di Cartagine non è condannato solamente sul piano morale, ma anche su quello politico perché avrebbe favorito l’incremento di rivolte e defezioni.

Altri ancora dissero che in generale il popolo romano era un popolo civile e che una sua peculiare qualità, della quale i Romani si gloriavano, era quella di combattere contro i nemici in modo leale e nobile, senza ricorrere ad assalti notturni e ad agguati, perché disapprovavano ogni azione compiuta con la frode e con l’inganno e ritenevano che a loro si addicessero solo gli scontri frontali e a viso aperto. Ora, invece, tutta la questione dei Cartaginesi era stata regolata con la frode e con l’inganno, proponendo un po’ alla volta una cosa e occultandone un’altra, finché non avevano tolto ai nemici ogni speranza di ricevere aiuto dagli alleati. Questo modo di agire era proprio della condotta politica di un monarca

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più che di una città come quella dei Romani, e appariva, secondo una giusta valutazione, una forma di empietà e di violazione dei patti.

I Romani avrebbero, quindi, peccato di empietà e slealtà verso i Cartaginesi e verso l’opinione pubblica internazionale, perché dichiararono loro guerra senza che ci fosse una iusta causa. L’obiezione di questi riguarda soprattutto il modo in cui i Romani avevano combattuto, cioè subdolo e non consono alla virtus ereditata dai maiores, che impone di combattere in campo aperto; pur riconoscendo la presenza presso i Romani degli antichi nobili costumi di guerra, viene condannata la vittoria riportata con l’inganno, dilagante nella vita politica contemporanea, non solo sul piano morale ma anche su quello politico, che non garantisce un dominio sufficientemente stabile.

E poi ce n’erano alcuni che contraddicevano anche costoro. Se infatti i Romani, prima che i Cartaginesi si fossero rimessi alla loro discrezione, avessero regolato la questione in tal modo, cioè offrendo un po’ alla volta

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alcune cose e palesandone altre, a buon diritto sarebbero apparsi colpevoli di ciò di cui venivano accusati; se invece i Romani, visto che i Cartaginesi si erano rimessi alla loro discrezione facendo sì che decidessero di loro come volevano, in forza di questa autorità imponevano e ordinavano come meglio piaceva il rispetto di quanto era stato deciso, allora quel che stava succedendo non faceva più pensare ad un’empietà ed era molto lontano da una violazione dei patti. E altri dissero che non era affatto un’ingiustizia, perché, essendo tre le specie di misfatti in cui per natura rientra ogni capo d’accusa, in nessuna delle tre rientrava quello che facevano i Romani: infatti empietà è rendersi colpevoli verso gli dei, i genitori e i morti; violazione dei patti è ciò che si fa contro gli accordi giurati e sottoscritti; ingiustizia è ciò che viene compiuto contro le leggi e le consuetudini. In nessuna di queste accuse incorrevano al momento i Romani, giacché non si rendevano colpevoli né verso gli dei, né verso i genitori, né verso i morti, e neppure violavano giuramenti o patti, anzi erano loro ad accusare i Cartaginesi di averlo fatto. E nemmeno trasgredivano leggi o consuetudini, né venivano meno alla parola data: difatti, avendo ricevuto la discrezionalità di fare ciò che volessero da uomini che la concedevano spontaneamente, dal momento che costoro non obbedivano agli ordini dati, essi si erano visti costretti a muovere contro di loro.

Un’azione bellica da parte di Roma nei confronti dei Cartaginesi è pienamente giustificata dalla deditio, che i Cartaginesi avevano compiuto a Utica, e dal mancato adempimento delle richieste dei Romani dopo che i primi avevano dato loro piena autorità10.

Alla luce di questi quattro punti di vista, si è cercato di capire quale di essi coincida con l’opinione di Polibio sulla terza guerra punica.

Walbank ritiene che i passi contenuti nel libro XXXVI sopra citati siano un’ulteriore conferma del filoromanesimo dello storico e della sua approvazione della politica anticartaginese diffusasi a Roma; le due opinioni contrarie all’imperialismo romano, invece, servono per mettere in

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Cfr. F. W. WALBANK (1974:14). Si veda anche M. GELZER (1964:64), che ha proposto di distinguere coloro che negavano che il comportamento romano si sviluppasse come e da coloro che invece non lo consideravano neanche un ; secondo lo studioso questa argomentazione in realtà ne comprenderebbe due e quindi le opinioni diventerebbero cinque e non più quattro. Tuttavia, poiché Polibio stesso accomuna questi due gruppi, è più probabile che esse rimangano quattro, conformemente alla lettura più diffusa.

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maggior risalto quelle che contano veramente; egli adduce tre motivazioni a sostegno della sua tesi11:

 l’ordine in cui lo storico greco espone le quattro opinioni permette di capire quale fosse quella da lui condivisa, anche se egli non lo dice apertamente: le argomentazioni sono disposte a chiasmo, in modo che quelle favorevoli a Roma, cioè la prima e la quarta, si trovino all’esterno, quelle ostili, cioè la seconda e la terza, all’interno. Inoltre, anche lo spazio dedicato ad ognuna di esse cambia a seconda del peso e dell’importanza che Polibio vuole dare: la prima occupa 8 righe, la seconda e la terza 15, la quarta 28. È difficile, quindi, che l’ultima argomentazione, filoromana, non fosse condivisa anche da Polibio, perché altrimenti non le avrebbe attribuito una posizione di rilievo;

 il rapporto con Scipione Emiliano, così stretto che Polibio fu persino presente nelle fasi finali della terza guerra punica e durante la caduta della città, fornendo sostegno morale e supporto tattico;

 Polibio dipinge la terza guerra punica come l’evento più degno di nota del periodo; la violenza degli attacchi di Polibio ad Asdrubale12, come anche quelli rivolti agli Achei Dieo e Critolao13, per parte della critica non è decisiva: Polibio non amava questi personaggi non perché identificasse la propria posizione con quella della politica romana, ma perché li giudicava responsabili della rovina delle loro Patrie, avendo essi praticato delle politiche rovinose e sottovalutato la pericolosità dell’opposizione armata a Roma.

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Cfr. F.W.WALBANK (1974:14-16).

12

Cfr. Polyb. XXXVIII. 7-8 e Polyb. XXXVIII. 20.

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Secondo Musti, invece, la posizione di Polibio non coincide pienamente con quella di Roma, anche se la vicinanza di Scipione Emiliano deve aver avuto un ruolo fondamentale nella formazione del suo giudizio; il fatto che lo storico fosse a Cartagine insieme a Scipione non vuol dire che egli approvasse in toto le ragioni di Roma, perché di fatto non poteva negare qualcosa a Scipione, suo amico e protettore14. Lo studioso, infatti, ritiene che

non si tratta di stabilire se Polibio fosse diventato, dopo il 146 a.C., antiromano; nella sua vita sostanzialmente egli non lo fu mai; la scelta per noi si pone perciò non già tra un Polibio filoromano e un Polibio antiromano, ma tra un politico che abbia fatto definitivamente sue le ragioni dell’imperialismo romano, e uno storico che sappia ancora dare espressione e perciò conferire una certa misura di credibilità alle riserve che sulla politica romana di conquista e di dominio vengono mosse in ambito greco.15

I quattro non riguardano gli stessi ambiti. I primi due, infatti, toccano il problema politico in generale, cioè le caratteristiche dell’imperialismo romano: nello specifico, la prima argomentazione si occupa della guerra difensiva e della nozione che prevede che ogni Stato può fare guerra con uno rivale per il potere; la seconda denuncia l’avidità di dominio dei Romani e mostra la loro condotta, prima e dopo il 168 a.C., quando Roma inizia a distruggere tutti gli Stati a lei nemici per conquistare ed ampliare la propria egemonia. Le ultime due, invece, riguardano l’aspetto giuridico del comportamento di Roma verso Cartagine, cioè il modo in cui Roma le dichiarò guerra. Proprio perché siamo di fronte a due coppie di pareri opposti, si potrebbe quasi pensare che Polibio approvasse la tesi antiromana perché è questa a chiudere il dibattito sulle forme dell’imperialismo romano16. 14 Cfr. D.MUSTI (1978:54). 15 D.MUSTI (1978:55). 16 Cfr. D.MUSTI (1978:55-56).

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Per distinguere le due coppie di gnomai, Polibio utilizza il verbo per contrapporre la seconda argomentazione alla prima e la quarta alla terza; tuttavia nessuna forma di contrapposizione separa la terza dalla seconda.

Per quanto riguarda invece la caduta di Corinto, la posizione assunta da Polibio si fa più delicata perché, per perseguire il suo obiettivo, cioè presentare come inevitabile la superiorità politica e militare di Roma e la sua egemonia, avrebbe dovuto, pur essendo un cittadino greco, considerare legittima la distruzione di una città greca compiuta dai Romani. L’escamotage trovato dallo storico è presentare la guerra acaica come un conflitto determinato dalla decadenza dei costumi in atto nel mondo ellenico, ma soprattutto provocato dalla politica demagogica dei due strateghi, Dieo e Critolao, per i quali nutre una certa dose di avversione, come rilevato più volte nel libro XXXVIII delle Storie,. Tuttavia l’atteggiamento dello storico non cambia, anche se si parla dell’espansione di Roma nel mondo greco e nello specifico della caduta di Corinto.

L’adesione di Polibio alla politica imperiale di Roma è lo sbocco ultimo di una lunga abitudine alla soggezione, contratta dagli stati cittadini ellenistici nei confronti dei grandi stati territoriali; ma riflette, in particolare, l’amara consapevolezza dell’inevitabilità del dominio romano. È un’adesione non priva di riserve; e, soprattutto, l’ultima cosa che di questa adesione si può dire è che essa sia data a cuor leggero o addirittura con gioia. Polibio ha certo accettato l’impero di Roma; con una sorta di cerebrale entusiasmo, egli ha indagato e ritenuto di aver capito le ragioni di quella ascesa; ma non c’è gioia nel modo in cui egli indaga sull’uso che Roma fece della conquistata supremazia.17

Non viene meno, quindi, la collaborazione dello storico con lo Stato potente dell’epoca: infatti, dopo il conflitto che aveva posto fine alla prosperità e al potere che l’Acaia aveva in precedenza conquistato, Polibio, facendo da mediatore tra le due parti, cerca di migliorare i tragici effetti degli errori politici commessi da altri ottenendo la restituzione di alcune

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delle statue degli eroi della storia greca confiscate dai Romani, nonché migliori condizioni di pace per gli Achei prevenendo la dissoluzione della Lega18.

Oltre ad essere inseriti in uno stesso contesto storiografico, i racconti della caduta di Cartagine e di Corinto presentano anche una dinamica narrativa piuttosto simile. Polibio stesso, infatti, prima di addentrarsi nella descrizione dei fatti culminanti, nella sezione introduttiva del libro XXXVIII mette a confronto la caduta di Cartagine e di Corinto e l’entità delle due catastrofi:

Così, sebbene sembri che la più terribile delle sciagure sia stata quella toccata ai Cartaginesi, non si potrebbe giudicare meno grave, anzi, in un certo senso, addirittura più terribile ciò che accadde allora in Grecia. Infatti i Cartaginesi lasciarono ai posteri almeno un estremo margine di difesa delle loro azioni, costoro invece non offrirono neppure un pretesto ragionevole a chi volesse aiutarli giustificando gli errori commessi. I Cartaginesi, poi, completamente annientati dai disastri che li avevano colpiti, divennero per il futuro insensibili alle loro disgrazie; mentre i Greci, vedendosi innanzi le proprie sventure, ai figli dei figli lasciarono in eredità la miseria.

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Cfr. A.M.ECKSTEIN (1995:14-15). Non sono molte le informazioni sull’attività di Polibio come mediatore: non si sa, cioè, se lo storico abbia contribuito all’introduzione delle costituzioni timocratiche, primo effetto della vittoria romana, o se, invece, abbia lavorato a una restaurazione di tipo democratico di poco successiva. Cfr. D. MUSTI (1978:60-61), che ritiene che lo storico auspicasse per il mondo greco la conservazione dello schema ellenistico di rapporti interstatali, basato su un qualche livello di autonomia rispetto alla città egemone e si rallegrasse che alla Grecia fosse stata risparmiata la confisca del suolo.

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Polyb. XXXVIII. 1.4-6.

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A tal punto dobbiamo considerare più degne di compassione le disgrazie toccate allora ai Greci di quelle capitate ai Cartaginesi.

L’uso dell’espressione

lascia intuire che forse Polibio non aveva appoggiato in toto la giustezza della terza guerra punica condotta dai Romani: anzi potrebbe confermare le riserve dello storico circa la distruzione di Cartagine; questa ambiguità di fondo non deve stupire, vista la delicata posizione dello storico greco. Nonostante la disgrazia che ha colpito i Cartaginesi, quella che si è abbattuta sui Corinzi deve essere considerata ben peggiore.

In entrambi gli episodi Roma, potenza del momento, conquista e distrugge una città che non aveva accettato di sottomettersi alla sua egemonia e che non solo non accoglie le condizioni poste dai Romani, ma, attraverso i suoi comandanti, si macchia di empietà e superbia nei loro confronti, segnando così la propria rovina. Da un lato, quindi, la narrazione di entrambi gli eventi presenta i vertici delle città sconfitte come degni di biasimo perché in gran parte responsabili dell’accaduto, dall’altro non manca un elogio dei condottieri romani vincitori, che, pur nella sua atipicità, non deve stupire considerati la posizione assunta da Polibio nei confronti di Roma e del suo imperialismo e il fine ultimo delle Storie.

Il meccanismo portante di queste rappresentazioni storiche è quello della colpa-punizione, anche se non manca quello della nemesi divina, pur rimanendo sullo sfondo ed emergendo solo in modo implicito: Polibio, infatti, vivendo nel II secolo a.C. e derivando in parte il suo metodo storiografico da Tucidide, tende a presentare i fatti, soprattutto di tipo politico-militare, in modo pragmatico (secondo la loro veridicità) e a

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soffermarsi sulle cause che li hanno determinati, in modo che la loro narrazione possa essere utile ai posteri, piuttosto che indugiare sulla loro interpretazione in chiave religiosa o sul ruolo giocato dalla Fortuna.

La vicenda della caduta di Cartagine si inserisce dunque all’interno della terza guerra punica: i Romani decidono di distruggere la città perché i Punici non avevano accettato di abbandonarla e di allontanarsi di almeno dieci miglia all’interno del territorio, lontano dal mare e dalle vie commerciali.

La responsabilità dell’accaduto è in gran parte del generale Asdrubale; in diverse occasioni Polibio mette in luce la sua incapacità militare e lo paragona sia ad un personaggio da tragedia che ad un tiranno: il Cartaginese, infatti, veste sempre in modo sontuoso ed eccessivo, vive in modo agiato tra continui banchetti, mentre i sudditi muoiono di fame, e mantiene il potere attraverso violenze e condanne a morte22. Inoltre è pronto a sacrificarsi per il suo popolo a parole, ma nei fatti si comporta in modo