Alcuni importanti mutamenti sono avvenuti a partire dalla fine degli anni Ottanta, contribuendo a modificare il volto dell’economia e della finanzia a livello mondiale. La liberalizzazione dei commerci a cui si è assistito nell’ultimo quindicennio del secolo, infatti, ha condotto contestualmente ad una sorta di inversione di tendenza ultra-secolare, portando allo sviluppo di aree fino a quel momento assolutamente periferiche nel sistema economiche mondiale. Come il Giappone negli anni del dopo-guerra, furono i paesi dell’Asia orientale, le tigri asiatiche, poi la Cina e l’India a sperimentare un aumento della produzione e delle esportazioni, iniziando un
percorso di convergenza con le economie più sviluppate che ha vissuto un momento per così dire simbolico con l’introduzione dello yuan cinese tra le valute di riserva dell’FMI nel 2016. A questo percorso di rimodellamento delle geometrie economiche mondiale, si sono accompagnati, da una parte, processi di estrema finanziarizzazione dell’economia, la quale – grazie alle innovazioni tecnologiche, alla deregolamentazione, alla liberalizzazione dei movimenti di capitale e alla crescita di piazze finanziarie fino a quel momento periferiche – si è sempre più allontanata dal settore reale; dall’altra, l’instabilità monetaria internazionale ha fatto si che nascessero e si concretizzassero progetti di integrazione e unione monetaria a livello macro-regionale, il cui esempio migliore è certamente quello dell’euro.
3.1. La liberalizzazione del commercio internazionale (1987-2008)
Il periodo che va dall’ultimo quindicennio del Novecento all’inizio del nuovo millennio è stato contraddistinto da notevoli cambiamenti, intervenuti a più livelli. Tuttavia, questi ultimi hanno riguardato in particolar modo la crescita complessiva dell’economia mondiale, riflettendosi poi in mutamenti strutturali della geografia industriale mondiale e del commercio internazionale.
Se prendiamo come riferimento al seconda metà del XX secolo, dunque gli anni che vanno dal 1950 al 2000, si registra un aumento complessivo del PIL mondiale pro-capite pari al 185%, per una media del 2,1% annuo: contando che siamo in un periodo di spettacolare crescita demografica, pari al 140%, si comprende come le prestazioni economiche sono state davvero senza precedenti nel corso della storia. Un altro elemento importante che non può non essere evidenziato, è il fatto che tale crescita spettacolare non si sia realizzata in realtà nel paese che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, occupava il ruolo di leader a livello mondiale. Gli Stati Uniti, infatti, crebbero certamente, ma lo fecero ad un tasso annuo del 2,2%, molto vicino alla media mondiale.
Il vero progresso mondiale si ebbe, dunque, in altre regioni del mondo esterne agli Stati Uniti, mediante una serie di miracoli economici che coinvolsero, in ordine cronologico, l’Europa occidentale e il Giappone, che come abbiamo visto raggiunsero i livelli produttivi statunitensi tra gli anni Cinquanta e Sessanta; poi fu la volta dei paesi dell’Asia orientale, le tigri asiatiche, come Hong Kong, Corea, Singapore e Taiwan, negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta; infine, la Cina, a partire dagli anni Settanta ma con ritmo crescente alla fine del millennio, e l’India, che crebbe ad un ritmo sostenuto tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo.
A fronte dello sviluppo di queste aree economiche vi furono, però, altre zone che conobbero un andamento decisamente diverso, con alterne fortune se non puramente negativo. I paesi appartenenti al blocco sovietico, ad esempio, registrarono livelli di crescita economica convergenti con gli Stati Uniti fino al 1975, dopodiché sperimentarono un forte crollo destinato a protrarsi anche dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1989 per via della condizione di estrema arretratezza con cui tali paesi si affacciavano alla fine del millennio. Nei casi dell’Africa e dell’America Latina, poi, non vi fu nella seconda metà del secolo nessuna stabile convergenza con i paesi più ricchi: a parte un timido accenno nel corso degli anni Cinquanta, entrambi i continenti registrarono rallentamenti economici dagli anni Settanta in poi, con una situazione particolarmente negativa per quanto riguarda il continente africano, dove il tasso medio di crescita annuo fu minore dell’1% per tutto il periodo 1950-2000.
La crescita generalizzata del PIL mondiale si riflette in alcune condizioni che riguardano la produzione industriale e il commercio internazionale che sono rapidamente mutate a partire dagli anni Ottanta, quando un sempre maggior numero di paesi in via di sviluppo optò, o fu costretto a optare, per un abbassamento delle barriere protezionistiche volte ad assicurare una generalizzata liberalizzazione dei commerci a livello globale. Questi cambiamenti di politica commerciale si accompagnarono a delle trasformazioni delle geometrie produttive tra i vari paesi del mondo, in particolar modo tra le economie più sviluppate e i paesi in via di sviluppo.
Un momento chiave del percorso di crescita e relativa convergenza fu determinato dall’Uruguay Round, ottavo e ultimo accordo di liberalizzazione commerciale del GATT, lanciato a Punta del Este, in Uruguay, nel 1986 e firmato dopo sette anni di negoziazioni il 15 dicembre 1993 a Ginevra, in Svizzera, da parte di rappresentanti di 117 diversi paesi del mondo. Gli accordi, che prevedevano inoltre l’istituzione di una nuova forma di cooperazione internazionale sul commercio, ovvero la World Trade Organization (WTO), estendevano gli accordi precedenti del GATT sull’abbassamento dei dazi doganali a nuove importanti settori economici, come ad esempio i servizi e la proprietà intellettuale, e facevano enormi passi in avanti per liberalizzare quei settori industriali che negli anni precedenti si erano rivelati i meno inclini a tale politica economica, come l’agricoltura e il settore tessile.
Queste tendenze mondiali ebbero importanti ripercussioni sulla distribuzione globale delle esportazioni in prodotti industriali e, ovviamente, sui flussi di scambi commerciali.
Negli anni Cinquanta del Novecento, le economia sviluppate dei paesi dell’Europa occidentale, degli Stati Uniti, del Giappone e dell’Unione Sovietica fornivano, da sole, il 90,6% della produzione
manifatturiera mondiale, un dato incredibilmente vicino all’89,8% registrato nel 1913, segno che non vi era stato, nella prima metà del secolo, nessun processo di allargamento delle aree industriali e produttive nel mondo. Nel 1953, ad esempio, escludendo i paesi del blocco sovietico, le nazioni più industrializzate esprimevano ancora più del 90% delle esportazioni complessive a livello mondiale, producendo uno squilibrio produttivo che si rispecchiava in uno squilibrio politico evidente.
Il cinquantennio che inizia nel 1960, e che dunque arriva fino ai giorni nostri, ha dunque conosciuto un rapido dissolvimento di queste divisioni tra paesi sviluppati e resto del mondo, tra Nord e Sud, conducendo ad una riduzione della quota di produzione manifatturiera dei paesi industrializzati, che è passata dall’88% calcolato ancora nel 1970, fino all’80& del 1995, mentre la percentuale dei paesi in via di sviluppo è passata dal 12% al 20%. Tale crescita è riscontrabile anche nella crescita della quota degli occupati in settori industriali dei paesi dell’Asia sud-occidentale e del Nord Africa, che è passata nel periodo 1960-2000 dall’8% al 15%, e dell’Asia meridionale, che è salita dal 9% al 14% nello stesso arco temporale.
Le cifre mostrano chiaramente come i paesi industrializzati mantengano ancora una posizione di gran lunga maggioritaria nella produzione industriale. Tuttavia, l’inversione di tendenza che si è registrato alla fine del Novecento ha un sapore storico, in quanto è la prima volta che si registra un aumento del peso della manifattura di queste parti del mondo che erano state distanziate in quella che è stata definita la grande divergenza settecentesca e ottocentesca.
Complessivamente, suddividendo i paesi in tre categorie – paesi sviluppati, in via di sviluppo e paesi comunisti dell’Europa centro-orientale – notiamo come un cambiamento repentino è avvenuta nel corso degli anni Ottanta. La progressiva industrializzazione dei paesi in via di sviluppo aveva infatti portato ad un aumento sia delle quote nelle esportazioni sia nella percentuale del commercio manifatturiero mondiale. Se, infatti, la quota sul totale delle esportazioni era pari al 10% nel 1955 ed era cresciuta fino al 20% nel 1980, nei successivi vent’anni essa era destinata a crescere ad un ritmo ancora maggiore, superando alla fine della decade le esportazioni dei paesi comunisti e raggiungendo il 55% del totale nel 1990 e il 65% nel 2000. Contemporaneamente, la quota sugli scambi di prodotti manifatturieri dei paesi del sud del mondo passò dal 5% del 1955 fino al 28% del 2000: tale tendenza si specchia, ovviamente, in una riduzione della percentuale in capo ai paesi più sviluppati, che passò dall’85% al 70% nello stesso lasso di tempo.
Va tuttavia osservato che questa tendenza generale in un recupero di posizioni industriali e commerciali dei paesi in via di
sviluppo rispetto alle economia più progredite era da una parte relativa, in quanto i paesi più ricchi rimanevano indiscutibilmente tali; dall’altra era molto disomogenea e registrava prestazioni diverse in base all’area geografica. Significativi progressi vennero dunque fatti registrare in particolar modo dai paesi dell’America Latina, la cui quota d’esportazione di prodotti manifatturieri sul totale delle merci esportate passò dal 20% al 56% nel periodo 1970-2000, e dai paesi dell’Asia meridionale, la cui percentuale di esportazioni definite come prodotti manifatturieri passò, nel medesimo periodo, dal 56% del totale esportato al 77%. Se, comunque, tutte le economie del mondo avevano raggiunto almeno il 50% della quota di merci esportate costituita da prodotti manifatturieri, il Medio Oriente e il Nord Africa rimaneva ancora al di sotto di questa percentuale, in particolar modo per via della loro dipendenza dalle esportazioni petrolifere. Ancor più indietro in questo settore rimaneva l’Africa sub-sahariana, dove i prodotti manifatturieri costituivano solamente il 30% del totale dei beni esportati all’estero.
Dunque questi dati restituiscono un mondo in rapido cambiamento, da un punto di vista sia produttivo che dei flussi commerciali. Alla fine del XX secolo, infatti, si realizzava un’inversione di rotta, un cambio di tendenza rispetto ai tradizionali luoghi produttivi e movimenti di merci. Si riduceva quell’orientamento degli scambi che aveva fatto si che, fin dall’Ottocento, i paesi ricchi esportassero beni manufatti in cambio dei prodotti di beni alimentari e materie prime prodotti dai paesi più poveri. Questo assetto, dunque, veniva a scomparire negli ultimi due decenni del XX secolo, sostituito da nuove strutture degli scambi, che vedevano nel commercio bilaterale la propria forma caratteristica: un commercio bidirezionale di scambi di prodotti manifatturieri non solo tra i paesi sviluppati, ma anche tra le economie più ricche e quelle più povere, nonché tra gli stessi paesi in via di sviluppo.
3.2 Il tumultuoso sviluppo finanziario di fine Novecento: flussi, innovazioni e piazze
Gli anni Ottanta costituirono dunque una cesura importante nella vita economica a livello globale, con importanti ripercussioni nel mondo finanziario, dove si verificarono una serie di cambiamenti sia quantitativi, ovvero un incredibile aumento del volume delle transazioni, sai qualitativi, attraverso una progressiva innovazione finanziaria declinata nella creazione ininterrotta di nuovi prodotti grazie anche ai progressi realizzati nel campo della telematica, dell’informazione e del calcolo computerizzato.
Dunque, la quantità, qualità, accessibilità e disponibilità dei nuovi mezzi di comunicazione, nelle tecnologie dell’informazione e
nelle nuove reti di telecomunicazione hanno permesso una trasformazione delle tecniche finanziarie a livello mondiale, inaugurando al tempo stesso nuovi strumenti e metodi operativi. Un segnale dell’apertura verso una nuova globalizzazione dei capitali, che non ha eguali nella storia per numeri e velocità di circolazione, è riscontrabile nei flussi internazionali di capitali.
Nel 1980, la stima totale del capitale investito all’estero era all’incirca di 2.800 miliardi di dollari. Nel corso degli ultimi trent’anni questa cifra è cresciuta a un ritmo sostenuto, quasi di venti volte in soli vent’anni, arrivando a 15.500 miliardi nel 1995 e a 29.000 miliardi nel 2000. Più significativamente, se rapportiamo la quota delle attività sull’estero al totale del PIL mondiale, si vede che esse n costituivano appena il 6% nel 1960, per crescere poi al 25% nel 1980 fino al 62% del 1995 e, infine, al 92% nel 2000. Gli Stati Uniti sono ancora il paese leader nell’esportazione all’etero di capitale, seguiti da Gran Bretagna, Giappone, Germania e Francia. Tuttavia, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo è avvenuto un importante mutamente per quanto riguarda la geografia dei paesi debitori: se, infatti, fino agli anni Ottanta del XX secolo i beneficiari maggiori dei flussi di capitali erano prima le colonie e poi i paesi in via di sviluppo, all’inizio del XXI secolo la maggior parte dei capitali è affluita verso i paesi ricchi dell’Europa occidentale, del Nord America e in Giappone, che, in totale, assorbono più dell’80% degli investimenti esteri.
Come già accennato in precedenza, gli anni Ottanta furono il decennio in cui si verificò un tumultuoso processo di innovazione finanziaria che, proseguito anche negli anni Novanta, presenta aspetti interessanti sia per quanto riguarda i volumi delle transazioni, sia per quanto riguarda gli strumenti e le tecniche d’investimento.
Il simbolo di tali innovazioni fu certamente il prodotto derivato, che fornisce la possibilità di contrattare separatamente i rischi generati da un investimento di qualsiasi natura, finanziario o industriale, realizzando dunque una sorta di mercificazione dei rischi che opera in maniera indipendente dalle specifiche dell’investimento originale che tali rischi ha generato. Dunque i prodotti derivati costituiscono la maggiore innovazione finanziaria dell’ultima parte del Novecento: essi sono contratti il cui valore, appunto, deriva dall’attività sottostante e ne esistono di due diverse tipologie, i future e le options.
Questi prodotti derivati si sono affermati con una rapidità notevole. Sebbene essi fanno la loro comparsa sui mercati nella piazza di Chicago, il secondo mercato finanziario statunitense e la principale piazza mondiale dei mercati a termine, nel 1975 con
future sui buoni del Tesoro statunitense, essi hanno il loro periodo
stima della Banca dei regolamenti internazionali, nel 1994 il totale dei derivati scambiati sui mercati mondiali aveva raggiunto quota 20.000 miliardi di dollari, per aumentare poi ancora negli anni successivi fino ad arrivare alla fine del 2001 ad un volume pari a 85.000 miliardi di dollari e a 184.000 miliardi nel 2004.
L’effetto combinato, dunque, della deregolamentazione finanziaria degli anni Ottanta, della liberalizzazione dei flussi di capitali, dello sviluppo di nuove tecniche e strumenti d’investimento come i derivati, ha fatto si che la sovrastruttura finanziaria e i volumi degli scambi finanziari crescessero ad un ritmo estremamente più rapido rispetto a quella dell’economia reale. Un’ulteriore caratteristica, di tipo culturale, si è inoltre aggiunta in questo periodo: la comunità economica ha sembrato attribuire all’attività di intermediazione non più solamente o principalmente un ruolo di sostegno all’economia reale, ma anche come fonte di produzione autonoma di ricchezza, che deve essere incoraggiata e sostenuta.
Valutato in termini del volume degli scambi finanziari il fenomeno appare in tutta la sua inusitata ampiezza. Nel 1992, ad esempio, secondo un rapporto delle banche centrali del G-10, il volume netto sui mercati valutari era pari a 900 miliardi di dollari, un ammontare maggiore del 300% rispetto a quello del 1986. Le operazioni sui cambi esteri aumentarono già subito dopo l’abbandono dei cambi fissi ma ebbero una crescita enorme soprattutto negli anni Novanta del secolo. Se, infatti, nel 1982 la media giornaliera di questo tipo di transazioni era pari a 60 miliardi di dollari, nel 1998 venivano registrato un volume di 1.490 miliardi di dollari al giorno, che divennero poi 1.880 miliardi nel 2004.
Un altro indicatore che è utile nel fornire la misura di questa crescita è il Financial Interrelations Ratio (Fir), proposto da Goldsmith negli anni Sessanta, che risulta essere l’indicatore più affidabile nel calcolo dello spessore della dimensione finanziaria mondiale. Secondo queste stime lo sviluppo, oltre ad essere senza precedenti, è stato anche registrato sia in paesi storicamente meno attivi in campo finanziario, come Italia, Germania e Francia, sia nei paesi leader del settore con Gran Bretagna e Stati Uniti. Il Fir, infatti, raddoppia in Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia nel periodo 1980-1998 e aumenta del 50% in Germania, Italia e Giappone.
Questo impetuoso sviluppo non fu senza battute d’arresto: a partire infatti dalla già menzionata crisi di Wall Street dell’ottobre del 1987, quando il Dow Jones perse 500 punti, ovvero il 20%, nella sola seduta del 19 ottobre, ulteriori momenti di crisi si susseguirono anche nel decennio successivo: la crisi del Sistema monetario europeo del settembre del 1992, che portò sterlina e lira
ad abbandonare il sistema; quella del Sud-Est asiatico nel 1997, quando le valute di Thailanda, Malaysia, Indonesia, Filippine e Corea del Sud si svalutarono velocemente provocando il crollo dei mercati azionari in quei paesi; infine, nell’agosto del 1998, fu la volta della Russia, che fu costretta a svalutare il rublo, innescando reazioni a catena che finirono per coinvolgere anche l’America Latina, dove il paese più colpito fu, nel 2001, l’Argentina.
La crescita della sovrastruttura finanziaria degli ultimi due decenni del Novecento si verificò anche in una costante tendenza al rialzo del mercato borsistico, in particolar modo nel settore dei titoli tecnologici. Se tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, con l’eccezione del crollo di Wall Street del 1987, la crescita fu abbastanza regolare, con tutti gli indici che aumentarono di 4,5 volte, a partire dal 1995 la situazione cominciò a mutare, con un ritmo di crescita delle borse che, ad eccezione dei due momenti di crisi asiatica e russa, raggiunse livelli altissimi tra l’autunno del 1999 e il marzo del 2000, quando esplose la bolla delle nuove tecnologie, in particolar modo in connessione con imprese legate ad internet. Nel momento di massimo valore, i titoli azionari francesi, tedeschi e svizzeri avevano raggiunto un valore di 16 volte superiore a quello del 1980, mentre quelli britannici e statunitensi di 14 volte superiore. Dopo i fatti dell’11 settembre 2001 i prezzi precipitarono, ma si ripresero abbastanza rapidamente, tanto che nella primavera del 2005 la maggior parte degli indici aveva eguagliato i livelli del 1997.
Anche la struttura dirigente e professionale degli operatori finanziari e degli istituti bancari è andata incontro ad importanti mutamenti. In primo luogo va sottolineato come l’élite finanziaria mondiale si sia andata progressivamente ampliando nel numero, come è dimostrato dai consigli di amministrazione e le direzioni generali delle principali banche internazionali. Queste si riorganizzarono, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, seguendo modelli multi-divisionali: le prime a muoversi in questa direzione furono la Citibank e la Westminster Bank, rispettivamente nel 1967 e nel 1970; nel 2005 l’UBS, una delle maggiori banche multinazionali con sede in Svizzera, aveva un consiglio di amministrazione composto da dieci membri, da un comitato esecutivo di otto membri e da una direzione generale con più di cinquanta dirigenti.
Dal punto di vista dei centri finanziari, la complessiva apertura dell’economia mondiale ha sicuramente favorito il loro giro di affari. New York mantenne per tutto il periodo la sua supremazia, conseguenza diretta della potenza economica statunitense, ma fu affiancata, oltre che da Londra, da altri centri finanziari come Tokyo, Francoforte, Parigi, Zurigo, Hong Kong e Singapore. La rivalità, dunque, che era stata fino a quel momento un gioco sostanzialmente a due tra Londra e New York, si era trasformata in
una rivalità tra tutte le più importanti piazzi finanziarie globali. Questo ha portato alla creazione di un sistema gerarchico, nel quale si è affermata la supremazia di un centro finanziario in ogni parte del globo – New York nell’America del Nord, Londra in Europa e Tokyo in Asia – , ognuno dei quali era circondato da altri centri continentali la cui importanza non deve però essere sottovalutata.
New York era certamente il centro finanziario più importante a livello mondiale, dominando in tutti e quattro i principali indicatori usati per definire il peso delle piazze internazionali: transazioni bancarie internazionali; asset management; mercato dei capitali; e altri mercati, come ad esempio quello dei cambi. Tuttavia, se in tre di questi quattro elementi la distanza con gli altri centri mondiali non è enorme, è sul settore del mercato dei capitali che la preponderanza di Wall Street è netta: il livello di capitalizzazione del New York Stock Exchange è cinque volte maggiore rispetto a Tokyo e Londra.
Il settore bancario è dominato da due enormi istituti finanziari,