• Non ci sono risultati.

Cap. 5 Il sistema finanziario integrato: cooperazione e globalizzazione

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Cap. 5 Il sistema finanziario integrato: cooperazione e globalizzazione"

Copied!
48
0
0

Testo completo

(1)

Cap. 5 Il sistema finanziario integrato: cooperazione e globalizzazione

Sommario

Le crisi petrolifere del 1973, del 1977 e del 1986, così come la crisi finanziaria del Messico all’inizio degli anni Ottanta e del Giappone alla fine degli anni Novanta hanno posto i paesi del centro di fronte alla necessità di riorganizzare gli indirizzi di governo nei processi di integrazione finanziaria e monetaria mondiale. In un primo momento, alla metà degli anni Ottanta, si è rimodulato il percorso di liberalizzazione avviato nel decennio precedente, affiancandolo così ad uno sviluppo della globalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali con una nuova modalità di regolamentazione che dava centralità ai processi piuttosto che alle norme.

L’integrazione economica tra i mercati comprese, in modo crescente, l’azione di associazione di commercio preferenziale tra privati, la creazione di aree di libero scambio, le unioni doganali e i mercati comuni delle merci, dei capitali, del lavoro. Gli anni compresi dal 1976 al 2005 hanno così visto l’attuazione a livelli diversi di processi di questo tipo, tra cui, principalmente, gli accordi di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico e la creazione di un mercato comune tra i paesi europei. A questi fattori si è aggiunta la liberalizzazione globale nel mercato dei capitali, che ha comportato l’aumento straordinario della sovrastruttura finanziaria rispetto al mercato dei beni reali, nonché l’integrazione su questo piano tra le economie industriali con quelle dei paesi in via di sviluppo. La rilevanza di questi processi e il ruolo che in essi ha avuto il mercato finanziario sono la ragione per cui il sistema del periodo compreso tra il 1976 e il 2008 è definito sistema finanziario integrato, caratterizzato, appunto, da processi di globalizzazione e cooperazione.

Gli sviluppi indicati hanno per loro stessa natura indotto a variazioni nelle politiche monetarie e fiscali nazionali, necessarie a ottenere gli obiettivi di pieno utilizzo delle risorse nel contesto internazionale generando effetti positivi, ma anche conflitti, tra le componenti del quartetto inconciliabile: cambi fissi; libertà nella circolazione dei capitali; multilateralismo nei mercati di beni e servizi;

autonomia delle politiche monetarie nazionali Ne è seguita una lunga fase di gestazione negli assetti istituzionali di cooperazione e condivisione che sono stati alla base della nuova architettura istituzionale, per arrivare poi ad un superamento della visione insulare delle economie nazionali e alla formazione di un nuovo centro che ha visto gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone assumere la funzione di guida nella promozione del riordino delle istituzioni internazionali.

Questi processi di integrazione hanno interessato sia il mercato dei beni che il mercato finanziario. La possibilità di accrescere il valore nei due mercati è però profondamente diversa: nel primo caso, i guadagni degli operatori scaturiscono dalla realizzazione e distribuzione di nuovi beni e servizi; viceversa nel mercato dei capitali sono possibili guadagni attraverso operazioni di arbitraggio. Negli anni Ottanta, l’arbitraggio è stato organizzato in forme progressivamente più innovative, sia grazie al progresso tecnologico che all’abbassamento tariffario:

queste condizioni, ponendo dei problemi di credibilità, promossero una riorganizzazione degli aspetti istituzionali preposti alla vigilanza.

1. Caratteri originali: cooperazione e condivisione

Nei primi anni Settanta le condizioni operative del sistema finanziario egemone vennero rapidamente meno. L’aumento del valore dei pagamenti attuati sul mercato internazionale, sia a causa

(2)

dell’aumento del prezzo del petrolio, sia per la scelta dei Paesi arabi di utilizzare la loro conseguente accresciuta capacità finanziaria nel mercato apolide degli eurodollari. A fronte di queste condizioni, infatti, il permanere del dollaro come unica moneta di pagamento internazionale costituiva un limite crescente per l’intero sistema finanziario poiché l’aumento dei costi di produzione faceva si che il sistema non potesse più essere fondato sulla produttività delle industrie statunitensi. Di concerto, neppure la sua altra fonte, l’aumento del debito pubblico, poteva considerarsi inesauribile, in quanto comportava una serie di conseguenze sfavorevoli: il peggioramento del tasso di cambio, il costante deficit nella bilancia commerciale e dei pagamenti; in ultimo la fuga di capitali e la svalutazione.

Il dollaro dunque, e con esso la condizione di egemonia degli Stati Uniti, finì quindi per essere stretta tra due vincoli: la possibilità che una riduzione delle emissioni comportasse una non adeguata disponibilità del volume dei mezzi di pagamento necessari ai saldi di clearing internazionale; la possibilità che un aumento delle emissioni, essendo fondato sulla spesa pubblica, comportasse una fonte di inflazione nelle economie nazionali con cui gli Stati Uniti attuavano scambi. Questa considerazione risulta esplicita considerando come l’economia statunitense aveva avuto nel corso degli anni Sessanta un’inflazione dell’1%, mentre nel periodo 1968-72 il livello d’inflazione era salito ad una media del 3,5%, mantenendo una costante tendenza ascendente. La politica restrittiva dichiarata dalle autorità monetarie dei governi che avevano sottoscritto gli accordi di Bretton Woods, e con essa la scelta di indirizzare la politica monetaria verso la stabilità degli investimenti e dell’occupazione per mezzo degli indicatori di stabilità del cambio, non risultava così essere più credibile.

Da questa situazione scaturì l’inevitabile rinuncia al mantenimento di un regime di cambi fissi come strumento privilegiato di politica economica e l’accettazione di delegare al mercato, cioè ad un sistema di cambi variabili, la funzione di tenere in equilibrio i rapporti tra risorse, produzione e distribuzione dei redditi. Dalla metà degli anni Settanta si scelse di affidare al vincolo competitivo dei mercati quella condizione di equilibrio tra mercato interno e mercato estero che le autorità nazionale non riuscivano più a tutelare.

La scelta fu sostenuta nei contesti internazionali soprattutto dai governi europei nella convinzione che una maggiore libertà nella leva monetaria avrebbe potuto assicurare loro una maggiore stabilità politica, consentendo così di far crescere la spesa pubblica. Condizione, quest’ultima, cui i governi furono obbligati sia dall’aumento dei servizi nella componente del bilancio nazionale – di cui in primis quelli dalla spesa per sanità, determinata dall’invecchiamento della popolazione – , sia dalle tensioni sociali

(3)

imposte dalla riorganizzazione dell’attività produttiva seguita agli shock petroliferi. A queste ragioni principali si univano poi altre motivazioni di tipo finanziario, come ad esempio la scelta dei paesi in via di sviluppo, tra cui il Brasile, e di alcuni paesi industriali, tra cui l’Italia, di indicizzare il valore dei titoli emessi al tasso d’inflazione.

L’instabilità che ne derivò, che caratterizzò il periodo 1973- 1976, indusse i governi ad avvalorare la riforma istituzionale del Fondo Monetario Internazionale rivolta a dare a quest’ultimo una funzione di freno alla variabilità dei cambi. La possibilità di interventi di tutela delle parità valutarie per mezzo di variazioni nelle quote di riserva del Fondo fu però respinta dalla Germania, contraria ad aumenti delle riserve del circolante che avrebbero costretto ad importare inflazione insieme agli scambi di beni e servizi. Il compromesso fu raggiunto nell’incontro di Kingston, siglato nel 1976, in cui si autorizzò la modifica dell’articolo IV dello statuto del Fondo attraverso il Secondo emendamento. Con questa riforma il Fondo veniva autorizzato a sovraintendere alle condizioni economiche dagli Stati membri, indirizzandole verso un sistema stabile di cambi, sostituendo il vincolo che impegnava il Fondo ad operare per un sistema di cambi stabili, al quale i paesi aderenti si erano impegnati nei trent’anni precedenti.

L’evento costituisce l’istituzionalizzazione di un nuovo sistema finanziario, quello definito come integrato, fondato su una duplice consapevolezza: quella del superamento delle condizioni di insularità delle economie nazionali indipendenti le une dalle altre, ma coordinate dallo scambio con l’economia egemone – condizioni che erano state alla base del progetto elaborato a Bretton Woods nel 1994; e quella, speculare alla prima, della necessità di definire un sistema, attraverso l’istituzionalizzazione di nuove regole, in grado di dare credibilità alla politica monetaria nazionale anche senza che essa fosse vincolata dal cambio fisso con un’ennesima valuta avente status di mezzo di pagamento internazionale con controlli valutari che ne sanzionavano le condizioni di allontanamento dalla parità di cambio.

L’obiettivo fu ottenuto attraverso due diversi momenti d’azione.

Il primo periodo, che corrisponde agli anni che vanno dal 1976 al 1987, comportò una complessa definizione di regole di cooperazione rivolte ad assicurare la stabilità per mezzo di iniziative pragmatiche con cui i governi perseguirono lo scopo di armonizzare e porre sotto controllo tre diversi obiettivi ritenuti tra loro inconciliabili: la stabilità del valore di cambio tra valuta nazionale e dollaro americano; l’espansione fiscale; e la libertà di operare scelte di politica economica nazionale. Questo fu fatto per mezzo di azioni comuni coordinate al fine di evitare, tramite il ruolo di supervisione assegnato al Fondo Monetario Internazionale, che le politiche dei vari paesi entrassero tra loro in conflitto,

(4)

determinando una crisi nel sistema degli scambi internazionali e il conseguente contraccolpo recessivo nei mercati nazionali. Queste azioni di coordinamento internazionale si tradussero nella prammatica sequenza delle riunioni dei rappresentanti dei governi delle maggiori economie industriali per tramite di incontri politico economici, noti come incontri dei G5 e poi G7, che sorsero come prassi proprio al termine del periodo considerato, tra il 1985 e il 1987.

Come indicato in figura Va Vb , in sistemi economici aperti all’esterno la diminuzione della produzione risulta essere molto più marcata in un sistema di cambi fissi che in un sistema a cambi flessibili. In questo secondo caso, infatti, la riduzione della domanda sul mercato estero e la conseguente riduzione del cambio della valuta nazionale può essere infatti contrastata assumendo come stabile il nuovo minor valore dei beni nazionali e adeguando a quest’ultimo il livello delle attività finanziarie corrispondenti. Ciò consente sia di favorire la vendita sul mercato interno, sia di ottenere un vantaggio, di medio periodo, sul mercato internazionale, poiché il minor prezzo rende i beni nazionali più competitivi. Diversamente, in un regime di cambio fisso l’autorità monetaria dovrebbe ridurre l’offerta di moneta disponibile sul mercato interno al fine di mantenere stabile il valore del cambio e questa condizione comporterebbe una ulteriore riduzione della produzione dei beni nazionali e un connesso aumento della disoccupazione.

(5)

Sia muovendo da questa consapevolezza, sia rispondendo alla necessità istituzionale di un aumento della spesa pubblica, i governi delle maggiori economie industriali sostennero dunque l’abbandono del cambio fisso e l’adeguamento a quello flessibile, nell’idea che esso avrebbe potuto anche, per lo meno in parte, compensare la rilevante differenza nei tassi di crescita del reddito pro capite tra i paesi sviluppati, generati per lo più dalla disomogenea crescita nel settore dei servizi (vedi Tab. Struttura

(6)

dell’occupazione) in tutte le economie industrializzate. Questo il settore, infatti, essendo normalmente segnato da forti differenze tra paesi nei livelli di produttività, rendeva difficile il processo di convergenza e con esso quello di stabilizzazione delle economie industrializzate.

(7)

La scelta di sostenere un sistema di cambio flessibile però, nonostante costituisse il naturale proseguimento dell’accordo definito nel 1976, non ebbe il successo auspicato. Come indicato in Tab Vxx tutte le maggiori economie subirono nel quindicennio seguente sia aumenti dell’inflazione, che della disoccupazione.

Furono proprio questi fattori che spinsero le autorità dei diversi governi nazionali verso un superamento delle condizioni esistenti nel periodo 1976-1987, ricercando dunque nuove regole di coordinamento del sistema finanziario internazionale.

L’origine della scarsa efficienza del coordinamento internazionale attraverso la politica monetaria è spiegabile a due diversi livelli d’analisi: da una parte deve essere ricordato il margine progressivamente esiguo dei vantaggi che si potevano realizzare nella ulteriore liberalizzazione nel mercato dei beni tramite la riduzione dei dazi doganali; dall’altra, vi era la difficoltà di consolidare una autorità istituzionale di coordinamento – quale il Fondo Monetario Internazionale – che non disponeva di un strumenti specifici di intervento nella regolamentazione degli scambi. Durante gli anni Ottanta queste due condizioni portarono, di fatto, ad un processo di integrazione delle economie e della finanza internazionale privo di stabilità.

Si consideri, al fine di una indicazione generale di questi processi che nel 1979 si era chiuso il Trade Reform Act – o Tokyo Round) – aperto nel 1974. Con questo nuovo negoziato del GATT, la

(8)

riduzione tariffaria dei dazi era stata dilazionata su un periodo di otto anni, a partire da 1980, con una riduzione media del 31% negli Stati Uniti, del 27% per il Mercato Comune Europeo e del 28% per il Giappone. Come risulta evidente dalla figura Vxx, i margini per ottenere un beneficio dalla integrazione del mercato dei beni con la riduzione dei dazi doganali risultavano, alla fine degli anni Ottanta, significativamente minori di quello che era stato possibile ottenere lungo tutto il secolo.

Questa riduzione dei vantaggi nel commercio internazionali conseguibili attraverso accordi di abbassamento tariffario finì per determinare, da un lato delle aspettative decrescenti in questo settore da parte degli operatori economici, dall’altro un orientamento delle organizzazioni produttive e dei governi a cercare di ottenere benefici economici percorrendo altre strade, indirizzandosi verso la costruzione di barriere non tariffarie. Con queste ultime si fa riferimento principalmente ad alcune pratiche che esulavano, appunto, dal semplice innalzamento dei dazi doganali, come ad esempio le limitazioni volontarie alle esportazioni, equivalenti in pratica a quote sulle importazioni, oppure l’affinamento di regolamentazioni tecniche, quali le norme di sicurezza del prodotto, le norme igieniche del trasporto e altre normative di questo tipo.

Una indicazione generale di questa difficoltà è data dall’esito dell’accordo successivo a quello degli anni Settanta e Ottanta. Nel 1986 furono avviate trattative, note come Uruguay Round, chiuse nel 1994, in cui si sottoscrissero accordi per un totale di 22.000 pagine, riguardanti mercati e prodotti, riferibili a due sottoinsiemi di categorie: la riduzione dei dazi e le riforme amministrative.

I dazi furono ridotti di circa il 40%, ma l’esito non fu risolutivo in quanto si scese dal 6% al 4%. considerando che nel dopoguerra si era partiti da soglie del 40% risulta evidente quanto esiguo fosse ormai il margine di vantaggio che poteva essere ottenuto dalle imprese attraverso questa via e, di conseguenza, quanto minimo fosse indirettamente il vantaggio di consenso che ne potevano trarre i governi. Più rilevante fu dunque la modifica di specifiche aree di intervento rimaste tutelate dalle barriere non tariffarie, in particolare quelle riferite al settore tessile rimasto protetto sul mercato statunitense dal precedente accordo multi- fibre e quello sui prodotti agricoli del mercato europeo. Si deve considerare però che i benefici ricavati dall’aumento della concorrenza nel mercato dei beni, che si traducono sostanzialmente in minori costi per i consumatori, producono elementi di tensione in quello del mercato del lavoro, per cui non possono essere considerati, di fatto, stabili. Molti paesi, tra cui gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone e la Comunità Europea, sono incorsi in infrazioni delle regole sottoscritte aprendo contenziosi legali e suscitando misure di ritorsione quali la re-introduzione di

(9)

dazi in settori o prodotti del paese che aveva violato l’accordo. E’ il caso, per esempio, della richiesta di intervento di Europa, Giappone e Cina contro gli Stati Uniti per la violazione, nel 2002, degli accordi sull’acciaio, intervento che ha indotto gli Stati Uniti a tornare in regola nel giro di un solo anno a causa della minaccia di ritorsioni doganali da parte dei paesi Europei.

Il passaggio ad un regime di cambio flessibile non risultò in sé in grado di favorire in modo duraturo i processi di stabilità finanziaria. Inoltre, il nuovo sistema non sostituì in realtà il regime dei cambi fissi dei decenni precedenti. Ancora negli anni Novanta i paesi con cambio flessibile erano meno della metà dei circa duecento censiti da un ricerca del Fondo Monetario Internazionale con una percentuale che sale a oltre l’80% se si prendono in considerazione solamente i paesi in via di sviluppo.

(10)

Se l’azione delle autorità governative nazionali non riuscì a compiere pienamente un’integrazione mondiale sul piano della produzione e degli accordi internazionali, l’integrazione si sviluppò in modo rapidissimo nel settore dei capitali, in particolar modo dopo che, a partire dai primi anni Ottanta, si realizzò un generale processo di rimozione dei controlli nel flusso dei capitali. Ancora nel corso degli anni Settanta, infatti, in quasi tutti paesi erano presenti forme di restrizione alla mobilità dei capitali, ovvero restrizioni all’entrata nel settore bancario. In Italia, ad esempio, non solo era richiesta un’autorizzazione per la costituzione di una società bancaria, ma altre autorizzazione erano necessarie anche per l’apertura o la modifica della rete degli sportelli, così come per l’esercizio di specifiche tipologie di credito, come quello commerciale, fondiario o mobiliare. Vi erano inoltre controlli e limitazioni sull’estensione degli aggregati creditizi, controlli qualitativi sul credito concesso e restrizioni alla libera definizione dei tassi di interesse attivi e passivi alla clientela. In molti paesi si registrava anche una forte presenza nella proprietà da parte dello Stato e i controlli valutari infine risultavano essere la norma.

Williamson e Mahar hanno classificato sulla base di indicatori qualitativi questo fenomeno di controllo dei mercati, indicando in un campione di 36 paesi, di cui 9 con economie avanzate, in quattro categorie: represso; parzialmente represso; parzialmente liberalizzato, liberalizzato. L’analisi è stata fatta per due diversi momenti, prima per il 1973 e poi per il 1996. Nel primo caso in nessun paese il mercato dei capitali risultava essere liberalizzato e solo per un paese veniva giudicato in gran parte liberalizzato.

Inoltre, nei paesi in via di sviluppo, non vi è nessuna caso di eccezione, dunque veniva operato un controllo universale. Nel 1996, invece, il mercato risulta essere stato liberalizzato in quasi tutti i paesi e le restrizioni che risultavano essere ancora operative erano del tutto marginali.

(11)

A conclusioni del tutto simili, e analiticamente fondate su regolazione, norme legislative, interventi nella gestione amministrativa giungono Kaminsky e Schmukler nella loro ricerca (Vedi figura Vxx) che consente di precisare – in questo trend generale – la cesura della seconda metà degli anni Ottanta in cui i paesi in via di sviluppo che, investiti dalla crisi dei debiti sovrani, ripristinarono controlli e sanzioni sulla mobilità dei capitali.

(12)

Nella ricerca di nuove modalità atte a consolidare il processo di stabilizzazione, prese forma la prassi di stabilire un percorso che, affiancando il regime di cambi flessibili, consolidasse una cooperazione internazionale fondata su una serie di obiettivi intermedi comuni, come ad esempio gli accordi commerciali tra imprese di Stati diversi, le riforme doganale e gli accordi di cambio.

L’insieme delle iniziative aveva come finalità quella di favorire il libero riallineamento dei cambi flessibili e con esso il contenimento dell’apprezzamento del dollaro statunitense generato, dopo il 1979, dalla politica restrittiva della Federal Reserve, dalla riduzione della spesa pubblica e delle riduzioni delle tasse promosse dal partito Conservatore, che era uscito vincitore dalle elezioni statunitensi.

Questi fattori avevano comportato un ulteriore aumento del valore degli scambi in eurovalute, che avevano portato ad un accresciuto aumento della volatilità dei valori nominali delle valute europee.

A queste condizioni si unì lo shock petrolifero del 1986. La inattesa e rapida caduta del prezzo del petrolio consentiva di disegnare una via di uscita dalla stagflazione a condizione che i diversi governi nazionali trovassero il modo di accordarsi per

(13)

ottenere un aumento dei volumi della produzione e un contenimento della spesa. Operatori naturali di questa nuova via pragmatica alla stabilità risultavano essere insieme al Fondo Monetario Internazionale, ma in ultimo più di quest’ultimo, le banche centrali, in particolar modo quelle dell’area europea che comprendeva il numero maggiore di scambi in valute internazionali, riducendo così la volatilità del tasso di cambio con il dollaro.

A rafforzare la scelta di globalizzazione del mercato dei capitali contribuì anche l’affermarsi della teoria economica delle aspettative razionali che, riferita alla bilancia dei pagamenti di un paese, portava a ritenere che quest’ultima, dopo essere risultata deficitaria per un certo numero di anni consecutivi, avrebbe indotto il governo a promuovere una svalutazione della propria moneta al fine di favorire un recupero del deficit per mezzo di un aumento dei volumi dei beni esportati, poiché questi sarebbero risultati meno costosi per i consumatori esteri. Si ritenne pertanto che i mercati, anticipando il deprezzamento di quella valuta, avrebbero indotto una riduzione anticipata, rendendo così da subito le esportazioni più competitive e le importazioni più costose, condizione che avrebbe portato a condizioni di stabilità finanziaria nel mercato internazionale.

Il nuovo assetto comportava una revisione nei metodi della politica monetaria. Particolare attenzione venne posta al rischio di discrezionalità delle decisioni delle banche centrali. Si poneva, in altri termini, il problema di vincolare due elementi: l’assenza di regole e controlli e la credibilità. L’esito fu quello di vincolare le scelte dei banchieri centrali a dichiarare esplicitamente, in modo ufficiale, un obiettivo di inflazione cui la loro azione era rivolta.

Quest’obiettivo assunse valore di riferimento nella definizione dei tassi di sconto e della liquidità data al sistema. Liquidità che si scelse di favorire promuovendo profondità, accesso ed efficienza nei mercati secondari. Queste tre condizioni possono essere rappresentate da un indice sintetiche che il è Financial Development Index (FDI) elaborato dal Fondo Monetario Internazionale (tabella xxx)

(14)

La diffusione di un livello di maggiore ricchezza finanziaria netta delle famiglie (vedi Tab. Vxx) comportava così la possibilità di generare una nuova regola di credibilità, quella riferita alla

(15)

stabilità dei prezzi, e di ancorare a questa l’azione delle banche centrali delle maggiori economie industriali.

Quest’ultima condizione, per quanto non semplice da promuovere poiché fondata sulla condivisione di obiettivi comuni in grado di costituire un legame duraturo tra mercato intero e internazionale, consentì di rafforzare il percorso di credibilità soprattutto per mezzo del sostegno dato a iniziative di maggiore integrazione commerciale dell’area europea, che scambiava il maggior valore di beni e servizi e sosteneva dunque un alto costo di rischio nella variabilità dei cambi di breve e brevissimo periodo. Il processo per ottenere stabilità finanziaria venne così accentuato e reso compartecipe con le scelte di promozione di una crescita del commercio transfrontaliero per il tramite della creazione del mercato comune con l’Atto Unico Europeo firmato nel febbraio del 1986.

A questa condizione si univa quella di una riforma nella gestione delle crisi. Indipendentemente dal luogo in cui si aprissero, tutte le crisi fino alla fine degli anni Ottanta avevano seguito un profilo evolutivo molto simile: da un iniziale allentamento dei vincoli sull’attività bancaria e sui movimenti di capitale si formava un’espansione creditizia che a sua volta alimentava i prezzi delle attività, in particolare di quelle immobiliari. A questo punto, un cambiamento nel ciclo economico o uno shock nei prezzi delle attività, portavano a numerosi fallimenti bancari. Nel nuovo contesto della deregolamentazione sia le tecniche di gestione del rischio che le procedure degli organi di vigilanza non furono idonee a gestire questi tradizionali rischi bancari. Anche il ruolo delle banche centrali fu simile nelle varie

(16)

crisi a causa dei limitati ruoli svolti da queste: nella maggior parte dei casi le banche centrali fornirono un sostegno iniziale – il cosiddetto bridge loans – in attesa dell’esborso di risorse pubbliche.

Il nuovo sistema finanziario ridusse la necessità di ricorrere all’intermediazione bancaria favorendo una crescita dei mercati secondari, in particolare consentendo la cartolarizzazione del credito bancario. In questo modo, avvicinando risparmi e investimenti, si ottenne la riduzione dei costi di informazione e conseguentemente dei tassi d’interesse e delle tensioni inflattive che potevano nascere dalle crisi finanziarie. Un chiaro esempio di ciò è la crisi latino-americana, che ha spinto alla creazione di mercati secondari del credito. La crescita del mercato secondario favorì l’affermarsi di tecniche di vigilanza integrata per le diverse categorie di istituzioni e la maggiore integrazione anche a livello internazionale ed il passaggio da un approccio prescrittivo, dunque formale e normativo, ad uno basato sugli incentivi derivanti da una soft law globalmente riconosciuta, come risulta evidente dal caso delle regole di adeguatezza patrimoniale elaborate da Basilea I, Basilea II e Basilea III.

Si definì per questa via il processo che portò alla scelta di ottenere la stabilità per mezzo di una condivisione di vincoli alla spesa e monetarie, come risulta evidente dal Trattato di Maastricht del 1992, che costituisce una delle fondamenta del percorso di progressiva integrazione europea che si concluse con l’adozione di una nuova valuta, l’euro, che divenne, insieme al dollaro e allo yen – e in anni più recenti allo yuan cinese – una delle principali valute di pagamento internazionale, ma anche e soprattutto la valuta in cui si attuava il maggior volume di scambi. Quest’ultima condizione non poteva non riflettersi sulla stabilità nel rapporto tra beni e capitali soprattutto in momenti di crisi.

L’esperienza delle crisi degli anni Novanta mostravano, dunque, la possibilità di superare i limiti incontrati dal processo di cooperazione internazionale rafforzando un altro tipo processo, quello di condivisione dei mercati europei. La robustezza di un’organizzazione finanziaria fondata sulla condivisione, non prevedendo il trasferimento di sovranità da un piano nazionale ad uno sovranazionale europeo, restava vulnerabile a comportamenti di egoismo degli Stati membri più forti. La nascita dell’euro e della Banca Centrale Europea permise di superare questa condizione, concludendo un percorso che consentiva di aumentare la stabilità sui mercati finanziari.

2. Credibilità senza regole (1976-1987)

L’evoluzione del sistema finanziario internazionale successiva alla fine degli accordi di Bretton Woods è certamente caratterizzata da

(17)

un processo confuso e non lineare riscontrabile nelle relazioni internazionali tra le maggiori potenze europee. La fluttuazione dei cambi, la progressiva deregolamentazione finanziaria, la liberalizzazione dei movimenti di capitali insieme alle crisi petrolifere e ad un rallentamento delle maggiori economie industriali, ad un aumento dell’inflazione e, negli anni Ottanta, alla crisi dei debiti sovrani, produsse un clima di sperimentazione continua nella gestione delle varie problematiche economiche, finanziarie e monetarie a livello mondiale.

Nella seconda metà degli anni Settanta, uno dei risultati principali di tale processo fu quello di favorire, da un lato, la nascita di un meccanismo di coordinamento informale tra le maggiori economie mondiali che si concretizzò nelle forme degli incontri del Comitato di Basilea, poi del G-5 e del G-7; dall’altro, il percorso favorì una sempre più stringente cooperazione a livello regionale, sia per quanto riguarda gli accordi doganali e commerciali, sia per quanto riguarda vere e proprie unioni monetarie macro-regionali, il cui esempio più riuscito è offerto dal percorso europeo che proprio tra gli anni Settanta e Ottanta gettò le sue basi.

2.1 Commercio internazionale e mutamenti nella competitività industriale

La seconda metà degli anni Settanta e tutto il decennio successivo furono fortemente influenzati dalle alterazioni improvvise del prezzo del petrolio, occorse in primo luogo nel 1973 quando i paesi esportatori di petrolio del Medio Oriente praticarono un rialzo dei prezzi come forma di ritorsione per l’appoggio delle potenze occidentali ad Israele durante la guerra del Kippur, e poi nel 1979, in conseguenza della rivoluzione islamica in Iran. Essendo il petrolio il bene chiave dal punto di vista energetico per gli apparati produttivi occidentali, quando il suo prezzo balzò improvvisamente in alto nel 1973-1974 e poi nel 1979- 1980 vi fu un rallentamento della crescita economica delle maggiori economia che portò alla stagnazione delle esportazioni delle economia dei paesi in via di sviluppo.

Il mercato petrolifero, così vitale per le economie mondiali, non aveva visto nascere fino al 1974 nessun tipo di struttura inter- governativa, lasciando le varie multinazionali a trattare individualmente con i paesi produttori di petrolio e con quelli consumatori. Questo modello fece sì che le risposte allo shock petrolifero del 1973 furono lente e poco coordinate. Alla fine del 1973 i paesi dell’Opec – Organization of Petroleum Exporting Countries, fondata nel 1960 a Baghdad – cominciarono a ridurre il flusso della produzione petrolifera: solamente tra l’ottobre e il dicembre del 1973 l’offerta venne ridotta del 7%, mentre nel marzo

(18)

dell’anno dopo si registrava un livello produttivo inferiore del 5%

rispetto ad ottobre.

Gli Stati Uniti convocarono dunque una conferenza per gestire l’emergenza e nel 1974 venne fondata l’Agenzia Internazionale per l’Energia, che finalmente nel 1978 fu in grado di facilitare la ripartizione del petrolio nei momenti di scarsità, inglobando anche compiti di vigilanza del mercato petrolifero e di pianificazione a lungo termine nella gestione delle risorse.

Un nuovo shock petrolifero si realizzò quando l’Iran azzerò tutte le sue esportazioni nel dicembre del 1978 in conseguenza della rivoluzione islamica, facendo lievitare il prezzo da 13 a 34 dollari al barile. Tuttavia nel corso del secondo shock petrolifero l’unione del fronte dei paesi esportatori di petrolio non era così solida come nel 1973, soprattutto per i nuovi contrasti tra l’Iran e l’Arabia Saudita, la quale aumentò la produzione del 10% per limitare i danni alle economie mondiali. Ciononostante, il prezzo al barile del giugno del 1980 era triplicato rispetto a un anno e mezzo prima. L’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq, iniziata nel settembre del 1980, aggravò la situazione, riducendo la produzione dei paesi dell’Opec del 15% e facendo alzare i prezzi a 42 dollari al barile. L’Arabia Saudita aumentò nuovamente la produzione, mentre il petrolio cominciava a venire estratto ad un ritmo crescente anche in Messico e nel Mare del Nord, mitigando così l’aumento dei prezzi.

Nel 1983, infine, l’Opec si accordò per una generale riduzione del prezzo al barile e per una ripartizione delle quote. Nel corso degli anni Ottanta, poi, il problema del petrolio si fece via via meno pressante, da una parte perché i giacimenti del Mare del Nord erano divenuti una fonte importante, riducendo dunque la libertà di manovra dei paesi dell’Opec, sia perché i paesi industrializzati si stavano progressivamente svincolando da una dipendenza dal petrolio.

Da un punto di vista commerciale, l’innalzamento dei prezzi del petrolio e un generale rallentamento della crescita economica non poterono che andare ad influenzare negativamente anche le transazioni commerciali: nel corso degli anni Ottanta, infatti, il volume degli scambi internazionali crebbe del 50%, una percentuale di gran lunga inferiore rispetto a quella degli anni Settanta. In particolar modo negli Stati Uniti, all’inizio della nuova decade, il rallentamento della crescita e la recessione portarono alla creazione di un ambiente politico sfavorevole all’espansione degli scambi commerciali, alimentando un ripiegamento su posizioni protezioniste. Le quote delle esportazioni mondiali d’altronde parlavano chiaro: la percentuale del Giappone passò, nel periodo 1970-1987, dal 6,6% al 9,8%, mentre quella degli Stati Uniti calò dal 14,9% al 10,6%. Inoltre, le politiche europee legate alla Politica Agricola Comune (PAC) fecero aumentare la quota

(19)

delle esportazioni di cereali dall’Europa occidentale, la cui percentuale sul totale passò dal 24% del 1980 al 38% del 1987.

Durante questo periodo si cominciarono a dispiegare gradualmente anche i risultati delle liberalizzazioni concordate nel Tokyo Round degli incontri del GATT, che durò dal 1973 al 1979 e i cui accordi tariffari vennero introdotti progressivamente tra il 1980 e il 1987. Questi ultimi, tuttavia, si riferivano solamente ai prodotti industriali, mentre il settore agricolo continuò a beneficiare di alte protezioni doganali.

In generale, ciò che emerse tra la fine degli anni Settanta e nel corso degli anni Ottanta fu un generale rallentamento della produttività statunitense ed un’accresciuta competitività delle industrie del Giappone, che accumulò costantemente surplus commerciali che divennero una fonte di preoccupazione costante sia per l’Europa occidentale, sia per gli Stati Uniti, soprattutto nei settori dell’acciaio, delle automobili e dei macchinari industriali, dove le aziende nipponiche avevano guadagnato una grande efficienza e un’alta produttività.

Dopo il 1973, gli Stati Uniti videro attestare la crescita della propria produttività industriale a livelli che erano mediamente la metà di quelli registrati nel corso degli ottant’anni precedenti.

Nello stesso periodo la produttività giapponese fece un salto davvero sorprendente, soprattutto in relazione a nuovi metodi di organizzazione della produzione volti a superare e migliorare il modello fordista americano. Se, infatti, le nazioni più avanzate del mondo conobbero un processo di convergenza per quanto riguardava le tecnologie disponibili, risultavano molto diversi gli strumenti per trarre da tali tecnologie i maggiori vantaggi possibili, che dipendevano dunque dall’esperienza della forza lavoro, dagli investimenti e da un’adeguata organizzazione. In questo senso si rivelarono estremamente efficaci i nuovi impianti giapponesi, la gestione della tecnologica, le innovazioni tecniche e l’ampia definizione delle mansioni.

Un altro elemento essenziale che spiega la grande competitività delle industrie giapponesi è certamente il nuovo metodo di organizzazione della produzione volto ad un miglioramento e una razionalizzazione complessiva dell’intero processo. Ad esempio il sistema del kanban era una parte fondamentale della nuova filosofia produttiva giapponese e prevedeva la reintegrazione delle scorte a mano a mano che esse veniva consumate, evitando così l’accumulazione di stock in magazzino e tutti i costi ad essa legati.

Negli anni Ottanta tale processo venne applicato anche ai prodotti finiti in uscita, realizzando quindi una sorta di produzione sostanziale – la Toyota fu in questo senso all’avanguardia – , riducendo, da una parte, i tempi di consegna e i rischi e i costi di

(20)

una produzione in linea con le stime di assorbimento del mercato, dall’altra i costi di custodia e stoccaggio dei prodotti finiti.

A fronte di questi cambiamenti di produttività dei principali paesi, in Uruguay iniziò nel 1986 l’ottavo round del GATT, che mirava soprattutto ad abbassare i costi doganali sui servizi e sull’agricoltura. La complessità di raggiungere un accordo fu però palese, visto anche l’alto numero di paesi partecipanti: un primo accordo venne raggiunto nel 1993, ma fu rifiutato dalla Francia, portando ad un secondo compromesso firmato nel 1994. Mentre si svolgevano questi negoziati, gli Stati Uniti approvarono, nel 1988, la cosiddetta Super 310, una legge che permetteva di indicare quei paesi che, secondo la valutazione statunitense, adottavano prassi commerciali scorrette. Questi paesi, una volta individuati, venivano invitati ad un tavolo di negoziazione bilaterale per giungere ad un cambiamento d’atteggiamento, senza il raggiungimento del quale gli Stati Uniti potevano intraprendere azioni di ritorsione. I primi paesi ad essere identificati furono, non a caso, il Giappone, il Brasile e l’India.

2.2 La stagflazione e lo scenario monetario internazionale

Il passaggio ai cambi fluttuanti istituzionalizzato dall’approvazione nel 1976 del Secondo Emendamento agli Articles of Agreement di Bretton Woods fu una sorta di salto nel vuoto per le istituzioni e le aziende nazionali e internazionali. Nessuno sapeva con precisione cosa sarebbe successo e le ipotesi che vennero formulate furono varie, dalle più catastrofiche alle più ottimiste.

Nei fatti l’evoluzione del sistema fu meno estrema del previsto. Il valore dei cambi, sia reale che nominale, divenne certamente più volatile rispetto al periodo in cui erano stati fissi e anche più di quanto era stato sostenuto dalle tesi ottimistiche dei fautori dei cambi flessibili, basti pensare che i cambi nominali variarono spesso anche del 2% al mese. Tuttavia, però, va detto che non si realizzò neppure un totale caos finanziario che i detrattori avevano invece ipotizzato.

Il Secondo emendamento, approvato nel marzo del 1976 e entrato in vigore nell’aprile del 1978, inaugurò un tipo di cooperazione internazionale che si esplicò in una forma sempre meno istituzionale e sempre più informale: fu, dunque, un percorso di ricerca della stabilità finanziaria senza precise regolamentazioni formali, che si attuò per tentativi successivi di collaborazione internazionale che ebbero diversi stadi e momenti di passaggio, nonché molteplici attori e organi tecnici sovranazionali, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca dei Regolamenti Internazionali, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, la Banca Mondiale, il Comitato di Basilea, il Financial

(21)

Stability Forum, il G-5 – poi G-7 – , gli accordi monetari europei e poi la Banca Centrale Europea.

Occorre tuttavia affermare che, come detto, i governi nazionali agirono in modo diverso. Tendenzialmente, stante una crescente integrazione commerciale a livello macro-regionale, è possibile affermare che a livello di politica monetaria gli Stati Uniti e il Giappone hanno preferito l’intervento sui cambi, mentre la Germania e i paesi dell’Europa occidentale si sono orientati verso meccanismi di cooperazione continentale, declinati prima con il Serpente Monetario, poi con la nascita del Sistema Monetario Europeo (Sme) ed infine con il Trattato di Maastricht e la nascita del sistema delle banche europee e della Bce.

Tuttavia, nel periodo 1974-1976 cominciava a nascere, in conseguenza dello shock petrolifero, il problema che avrebbe caratterizzato la seconda metà degli anni Settanta e, in parte, le politiche monetarie a livello mondiale della decade successiva:

l’inflazione. Anche se questo fenomeno afflisse tutti i paesi industriali, le reazioni di politica monetaria variarono in maniera anche significativa, così come le conseguenze di medio periodo nei diversi paesi. La Gran Bretagna e l’Italia, per motivi diversi, reagirono alla concomitanza di inflazione e stagnazione economica con politiche espansioniste, posticipando la soluzione del problema e ampliando le problematiche legate ad un allargamento della base monetaria nominale come mezzo per affrontare la crisi economica.

I paesi economicamente più robusti, invece, Germania, Giappone e Stati Uniti su tutti, riuscirono a formulare politiche di uscita dalla crisi petrolifera i cui effetti furono decisamente rapidi ed efficaci.

La crescita tedesca si interruppe bruscamente nel 1974, ma già nel 1975 il governo adottò un programma espansionistico che, visti i bassi livelli di indebitamento pubblico pregresso, non produsse gli effetti destabilizzanti che si realizzarono invece in Gran Bretagna e Italia. Ciò era essenzialmente legato ad una diversa cornice istituzionale per le negoziazioni sull’ammontare salariale: infatti, solo un limitato numero di unioni sindacali, ognuna responsabile per il proprio settore produttivo, veniva coinvolto nelle contrattazioni, limitando così le possibilità di veti, e soprattutto non esisteva il meccanismo di indicizzazione degli stipendi all’inflazione, come ad esempio in Italia.

Uno strumento fondamentale, che influenzava le contrattazioni sui salari, erano le attese sull’inflazione futura da parte delle associazioni di categoria. Nel dicembre del 1974, la Bundesbank introdusse lo strumento dell’inflation targeting, ovvero la pubblicazione annuale della stima d’inflazione prevista per l’anno successivo, che venne fissato, a partire dal 1975, all’8% annuo.

(22)

In conseguenza degli shock petroliferi, il Giappone subì effetti anche più gravi sulla propria economia rispetto alla Germania, con una diminuzione del PIL dell’1,4 nel solo 1974 dopo decenni di crescita ininterrotta mentre i prezzi raddoppiarono nel giro di un solo anno. Inoltre, le esportazioni giapponesi, vero motore di tutto il sistema economico, furono fortemente in difficoltà, in quanto gli altri paesi reagirono alla crisi con misure protezionistiche. Così come la Bundesbank, anche la Banca del Giappone adottò il metodo dell’inflation targeting per influenzare positivamente il processo di negoziazione salariale, con i risultati di un rapido abbassamento dei livelli d’inflazione: da una percentuale del 10,8% registrata nel periodo 1970-1975, essi scesero al 6,4% nel 1975-1980 e al 2,7%

negli anni 1980-1985.

Anche negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni Settanta l’inflazione divenne un serio problema. La pubblicazione degli obiettivi d’inflazione cominciò nel 1975, anche se la pratica di modificare tale obiettivo ogni trimestre portò ad una scarsa credibilità nei confronti di tale strumento da parte del pubblico.

Inoltre, con l’elezione nel 1976 del presidente Carter, la politica statunitense venne riorientata verso misure anti-austerità, nonostante fosse cosciente che questo avrebbe avuto ripercussioni sul dollaro, che si sarebbe indebolito. Tale linea di politica economica venne tuttavia perseguita in quanto ci si aspettava che i paesi dell’Europa occidentale e il Giappone, perseguendo anch’essi politiche espansionistiche, portassero ad un sostanziale controllo dei cambi a livello mondiale. I paesi in questione però, per timore dell’inflazione, si comportarono diversamente quando, nel gennaio del 1978, negli Stati Uniti venne varato un pacchetto di politiche espansive pari a 25 milioni di dollari, portando ad un aumento del tasso d’inflazione, a un indebolimento del dollaro e ad deflusso di capitali, che generò diverse tensioni, come vedremo, in campo internazionale.

Le diverse modalità con cui la stagflazione venne affrontata nella seconda metà degli anni Settanta dai principali paesi industriali generò una grande differenza nelle bilance dei pagamenti dei diversi paesi e nei tassi di cambio tra le valute, ponendo dunque serie difficoltà alla futura stabilizzazione e integrazione dell’economia mondiale.

In particolar modo, l’adozione dei cambi fluttuanti e le diverse strategie di politica economica adottate dai maggiori paesi del mondo – soprattutto i rapporti tra Giappone, Germania e Stati Uniti – generarono un panorama finanziario e monetario mondiale che non fu certamente dei più promettenti. Durante i primi sei mesi in cui i cambi vennero lasciati fluttuare il dollaro perse il 30% del suo valore verso il marco tedesco, ma ciò fu in gran parte dovuto alla sopravvalutazione precedente della valuta statunitense, che infatti

(23)

dopo questo brusco calo si ristabilizzò. Il disallineamento delle valute nella seconda metà degli anni Settanta fu certamente un problema, ma non diventò mai particolarmente grave:

probabilmente la sterlina risultava nel 1976 sottovalutata, mentre il dollaro era sopravvalutato nel 1978 così come lo yen giapponese, precedentemente sottovalutato, acquisì forse troppo valore nel 1977 e poi nel 1979.

Tra il 1977 e il 1978 divenne sempre più chiara, in particolar modo agli statunitensi, la necessità di addivenire ad una qualche forma di cooperazione internazionale sulle questioni dei cambi e delle politiche economiche al fine di riuscire a contrastare gli effetti di un’inflazione che rischiava di minare il funzionamento dell’intero sistema economico mondiale. Venne dunque auspicato il perseguimento di quella che divenne nota come locomotive theory, secondo cui i paesi in surplus commerciale avrebbero dovuto aumentare la propria crescita monetaria per non creare disequilibri a livello globale.

Tale prospettiva non era accolta molto positivamente nei paesi chiamati ad aumentare la propria offerta di moneta: in particolar modo in Germania, Helmut Schmidt si fece portavoce della sua opposizione all’idea di politiche espansive adottate sotto pressione esterna. Tuttavia, tra il 1977 e il 1978, la pressione su Giappone e Germania da parte dell’opinione pubblica mondiale aumentò.

Questa pressione, anche se al terzo incontro del G-7 di Londra del maggio 1977 le misure inflazionistiche venivano ancora osteggiate, nella pratica, proprio tra il 1977 e il 1978, le autorità giapponesi e tedesche cominciarono a muovere i primi passi in questa direzione.

La Banca del Giappone aveva comunque iniziato ad intervenire già tra il 1975 e il 1978, per limitare l’apprezzamento dello yen, in particolare mediante l’imposizione di una clausola che imponeva una percentuale di riserve del 50% sui depositi bancari dei non residenti, che aumentò al 100% nel 1978. Nella seconda metà del 1977, inoltre, il Primo ministro giapponese Takeo Fukuda annunciò un nuovo obiettivo d’inflazione al 6-7%, portando il Pil giapponese a crescere del 4,8% nel 1977 e del 5% nel 1978. La Germania invece produsse una stima di crescita inflattiva del 4,5-5,5%, che tuttavia produsse un aumento del Pil solamente del 2,5%.

Nello stesso periodo il dollaro continuò la sua perdita di valore, iniziata fin dai primi anni Settanta: tra il settembre del 1977 e l’ottobre del 1978 la valuta statunitense si deprezzò del 40%

rispetto allo yen e del 13% rispetto al marco. Le iniziali reazioni di politica monetaria furono quelle classiche dell’innalzamento del tasso di sconto, che venne fissato al 6,5% nel gennaio del 1978, aumentando poi al 7,75% in agosto e al 9,5% nel novembre dello stesso anno. La Fed aveva cominciato ad intervenire sul mercato valutario già dal 1977 quando, con l’aiuto della Bundesbank, della

(24)

Banca del Giappone e della Banca Nazionale Svizzera venne attivata una linea di finanziamento speciale verso la Fed. Ad esempio la Bundesbank aumentò il suo prestito dai 2 miliardi di marchi dei primi nove mesi del 1977 fino ai 17 miliardi calcolati nel semestre successivo. La brusca caduta del dollaro nel 1978 spinse ancora la Fed a richiedere un ulteriore finanziamento da parte della Germania, nuovamente per un ammontare di 17 miliardi di marchi.

Alla luce delle difficoltà economiche e monetarie che si stavano palesando sullo scenario mondiale alla fine degli anni Settanta, il biennio 1978-1979 risulta di non secondaria importanza, in quanto vide, da una parte, il fallimento della cooperazione internazionale tentata a Bonn tra le tre maggiori potenze industriali Stati Uniti, Giappone e Germania; dall’altra, la nascita di un primo tentativo di integrazione monetaria a livello regionale in Europa, con la nascita del Sistema Monetario Europeo (SME)

Dunque nel 1978, se la comunità internazionale apprezzava le politiche espansive tedesche e giapponesi, il sentimento dominante rimaneva quello che i paesi in surplus commerciale non stavano facendo abbastanza per far ripartire l’economia. Al quarto incontro dei G-7, tenutosi a Bonn nel luglio del 1978, i leader di Germania, Giappone e Stati Uniti tentarono di accordarsi sul coordinamento delle proprie politiche economiche. Fukuda ribadì l’obiettivo di una crescita inflattiva dello yen del 7% annuo, che sarebbe stata raggiunta attraverso un nuovo programma di lavori pubblici varato nel settembre del 1978 per una cifra pari all’1% del Pil nazionale, mentre anche Schmidt promise un piano simile, con un’espansione calcolata per circa l’1% del Pil.

Nello stesso biennio, però, nuovi rivolgimenti politici in Medio Oriente minarono i tentativi di correzione concertata delle politiche monetarie dei principali attori economici a livello globale. Nel 1979 la Rivoluzione iraniana depose lo Shah Reza Pahlavi, che venne poi coinvolta nella guerra con l’Iraq dal settembre del 1980 mentre, l’anno precedente, l’Unione Sovietica aveva invaso l’Afghanistan.

Questi rivolgimenti politici in un’area sensibile per l’economia mondiale ebbe certamente delle ripercussioni, inaugurando un nuovo periodo di instabilità politico-economica a livello globale.

Tuttavia, anche se la Rivoluzione iraniana produsse un nuovo incremento dei prezzi del petrolio, stavolta, a differenza del primo shock petrolifero, i paesi dell’OPEC non riuscirono a coordinarsi perfettamente. In particolar modo l’Arabia Saudita, in contrapposizione con il nuovo Iran sciita, tenne bassi i suoi prezzi aumentando la produzione. Il risultato fu che il secondo shock petrolifero produsse una sostanziale riduzione del potere economico dei paesi produttori di petrolio: se i maggiori esportatori petroliferi sperimentarono un largo surplus nel 1980, questo si era trasformato in deficit già nel 1983.

(25)

2.3 Le origini dell’integrazione monetaria europea: lo SME

I movimenti dei cambi nel periodo 1977-1979 e il declino del valore del dollaro portarono ad una riscoperta nelle élite politiche ed economiche europee delle virtù della parità fissa, tentando di spostare un difficile coordinamento a livello mondiale ad un livello macro-regionale che culminò nella creazione del Sistema Monetario Europeo (SME) nel 1979.

A tale prospettiva si era già pensato in realtà nel 1970, quando i paesi membri della Comunità Europea decisero di istituire una commissione per studiare le questioni relative alla creazione di un assetto monetario europeo, che produsse il cosiddetto piano Werner, dal nome del presidente della commissione, il Primo ministro del Lussemburgo Pierre Werner, che prevedeva il completamento dell’unione monetaria entro il 1980 mediante il restringimento progressivo delle bande di oscillazione dei cambi tra le valute europee senza ricorrere ad un’autorità monetaria sovranazionale, né ad una valuta unica. Il prodotto di questa visione fu la nascita, tra il 1973 e il 1974, del cosiddette Serpente monetario europeo, che prevedeva bande massime di oscillazione dei cambi del 4,5%.

Il sistema del serpente monetario fu contrassegnato da molteplici insuccessi, molto probabilmente legati alle turbolenze economiche della seconda metà degli anni Settanta legate all’aumento dei prezzi del petrolio e alla stagflazione. L’idea di rinforzare gli accordi monetari europei tornò dunque in auge e venne proposta dal Presidente della Commissione Europea nell’ottobre del 1977, l’inglese laburista Roy Jenkins, durante una lezione tenuta all’Università Europea di Firenze.

Lo scetticismo tedesco cominciò ad attenuarsi alla fine degli anni Settanta, in particolar modo in riferimento alla continua debolezza del dollaro e alle elezioni francesi che, nel marzo del 1978, consegnarono la maggioranza alla destra rinforzando la posizione del Presidente Valéry Giscard d’Estaing. L’asse Schmidt- d’Estaing divenne l’architrave dei negoziati per una possibile piano monetario europea, come annunciato al vertice europeo di Copenaghen dell’aprile del 1978. Entrambi si rifacevano alla propria esperienza in qualità di ministri delle finanze dei rispettivi paesi nel corso dei primi anni Settanta e proponevano una struttura europea molto simile al sistema di Bretton Woods dopo le modifiche successive ai dibattiti sulla liquidità internazionale degli anni Sessanta, con l’ECU che avrebbe giocato un ruolo simile ai DSP.

Come accadde anche ai tempi di Bretton Woods, le origini dello SME vanno ricercate nelle trattative bilaterali tra i due principali attori della scena: Germania e Francia. Queste ultime, come già gli

(26)

inglesi e gli americani nel 1944, non detenevano due posizioni simmetriche e, anche stavolta, il risultato finale premiava maggiormente le necessità del paese con la bilancia dei pagamenti in surplus, anche se non va dimenticato che esistevano degli interessi comuni. Se, infatti, la Francia cercava un’àncora esterna contro l’eccessiva inflazione, la Germania desiderava un sistema che avrebbe limitato l’eccessivo apprezzamento del marco in conseguenza dell’afflusso di capitali esteri.

I dettagli dell’accordo vennero messi a punto in una serie di incontro tra Horst Schulmann, consigliere finanziario di Schmidt, e l’ex governatore della Banca di Francia Bernard Clappier, che redassero una bozza approvata da un incontro franco-tedesco nel settembre del 1978 ad Aachen. Il nodo centrale del contendere tra Francia e Germania era se optare per una griglia di parità di cambi, oppure se di costruire un nuovo sistema intorno ad una nuova valuta. La soluzione fu, come richiesto dalla Germania, la definizione di parità di cambio predeterminate, stabilite dagli Accordi Europei di Cambio (AEC), che avrebbero avuto come riferimento un’unità di conto comune denominata European Currency Unit (ECU).

I paesi facenti all’epoca parte della Comunità Europea aderirono tutti allo SME così come era stato pensato dalle trattative franco-tedesche, che avevano disegnato un accordo di cambi fissi aggiustabili. Se Spagna e Portogallo rappresentano paesi con una particolare storia politica che ne giustifica il ritardo nell’adesione al percorso di avvicinamento europeo, il Regno Unito mantenne invece un atteggiamento decisamente ambiguo nei confronti dello SME per almeno un decennio. Solo nell’ottobre del 1990, infatti, le autorità inglesi hanno aderito al meccanismo dei tassi di cambio dello SME, riflettendo la lunga diatriba interna al mondo inglese circa i pregi e i difetti di un simile sistema di cambi che, al fine di aumentare la stabilità valutaria internazionale, sottrae certamente autonomia monetaria. Va tuttavia ricordato che, come in altri casi del passato, l’atteggiamento su questo questioni riflette gli interessi di diversi gruppi di pressione: un settore industriale tendenzialmente favorevole a tassi di cambio quanto meno stabili, ed un mondo finanziario che, vedendo i suoi profitti legati ad assicurazioni e attività di intermediazione in mercati ad alta volatilità, può sentirsi invece danneggiato da un sistema come quello dello SME.

Gli Accordi con cui il Sistema Monetario Europeo entrò in vigore il 13 marzo del 1979 si basavano su una griglia centrale di parità : una parità centrale per i cambi bilaterali dei paesi aderenti veniva stabilita e, allorquando il cambio avesse raggiunto i limiti della banda di oscillazione, la banca centrale del paese in questione sarebbe dovuta intervenire cedendo o acquistando valuta. La banda di oscillazione fu fissata al 2,25%, con l’eccezione dell’Italia alla

(27)

quale, a causa dell’inflazione elevata, venne accordata un’oscillazione del 6%, così come anche al Regno Uniti, al Portogallo e alla Spagna quando questi paesi aderirono agli AEC nel 1990, stesso anno in cui l’Italia cessò di godere di una banda d’oscillazione più ampia. Per fare un esempio di come funzionasse la griglia di parità bilaterali dello SME, nel 1992 il cambio ufficiale tra franco e marco era di 3,354, dunque il valore del tasso di mercato poteva variare liberamente tra 3,431 e 3,279.

Qualora il cambio di un paese fosse stato vicino a raggiungere i margini della banda di oscillazione, le autorità del governo interessate sarebbe state obbligate ad intervenire sui mercati attraverso i cosiddetti interventi marginali, con l’obiettivo di acquistare o vendere valuta per far tornare il cambio all’interno della gamma d’oscillazione prevista. Un altro tassello fondamentale del funzionamento dello SME, oltre alle facilitazioni creditizie a breve e brevissimo termine, era la centralizzazione, presso il Fondo Europeo di Cooperazione Monetaria (FECoM), dove ciascuna banca centrale dei paesi aderenti doveva depositare il 20% delle proprie riserve auree e il 20% delle proprie riserve in dollari in cambia della creazione di conti in ECU. L’ECU era una moneta scritturale, ovvero una moneta usata inizialmente per redigere il bilancio interno della Comunità europea e poi come valuta vera e propria, mai coniata ma utilizzata all’interno del mercato europeo ad esempio in forma di depositi bancari. Essa veniva anche utilizzata per tutte le transazioni della Comunità, per i contributi dei paesi membri e per i trasferimenti tra le banche centrali.

Il valore dell’ECU veniva stabilito dalla media ponderata delle valute dei paesi che facevano parte dello SME, ognuna in relazione del peso economico del singolo paese. Nella composizione del paniere, dunque, il marco tedesco faceva certamente la parte del leone, costituendo ad esempio nel 1988 il 34% del valore dell’ECU, seguito, in quello stesso anno, dal franco e dalla sterlina, entrambi quasi al 19%. Poiché le monete nazionali hanno pesi differente in questo paniere, anche la banda d’oscillazione prevista per i tassi di cambio ne risulterà influenzata con il risultato che le valute con un peso maggiore possono fluttuare di più intorno alla loro parità centrale con l’ECU rispetto a quelle con un peso minore.

Il funzionamento dello SME mostrava alcune peculiarità che lo differenziavano dagli accordi monetari che lo avevano preceduto.

Inizialmente, per lo meno in teoria, non era prevista nessuna moneta con un ruolo centrale, come era stato ad esempio il dollaro nel sistema di Bretton Woods. Inoltre, le decisioni sui tassi di cambio dovevano essere prese all’unanimità da parte di tutti i paesi aderenti, senza che nessuno di essi possa alterare la sua parità nei confronti delle altre valute in modo unilaterale. Le decisioni venivano solitamente prese durante i fine settimana quando, a mercati chiusi, si aveva abbastanza tempo per le trattative.

(28)

Come già ricordato, le banche centrali intervenivano quando la propria moneta era spinta da qualche disturbo finanziario al suo margine superiore o inferiore nella banda prevista. Le possibilità erano due: agire direttamente sui mercati per mantenere il tasso di cambio all’interno dei margini o, qualora la parità esistente non possa essere difesa in alcun modo, ricontrattare nuove parità con gli altri paesi. Tuttavia si è registrata l’esistenza anche di un altro tipo di intervento, quelli cosiddetti infra-marginali, attivati quando il margine è ancora lontano al fine di evitare che sui mercati si crei l’aspettativa di un riallineamento con possibilità di speculazione.

Osservando le diverse pratiche d’intervento delle banche centrali dei paesi aderenti allo SME è possibile riscontrare che, la presunta simmetria operativa con cui il sistema era stato immaginato, è rimasta in gran parte relegata alla teoria, in quanto la diversa importanza economica mondiale dei paesi dello SME ne determinava sostanzialmente i ruoli all’interno del sistema. La Bundesbank, infatti, ha eseguito la maggior parte dei interventi sul mercato in dollari, con la finalità di compensare le fluttuazioni del tasso di cambio del marco rispetto al dollaro. Le altre banche centrali europee, invece, hanno operato spesso in valute europee o in ECU, con interventi infra-marginali utili a mantenere le parità all’interno dello SME. Dunque la Bundesbank, per via del peso dell’economia e delle esportazioni tedesche, ha assunto un ruolo guida del sistema nel senso che essa stabiliva le relazioni tra le valute europee e il resto del mondo, mentre le altre banche centrali, attraverso i meccanismi dei tassi di cambio dello SME, aggiustavano progressivamente la propria posizione rispetto al marco.

Si possono generalmente rintracciare tre distinti periodi di funzionamento dello SME. Nei primi anni della sua attività, l’accordo riscosse infatti notevoli successi: nel periodo 1979-1983 si ebbero, senza tensioni degne di nota, svariati riallineamenti nei cambi in media ogni otto mesi, mentre nei successivi quattro anni si ebbero modifiche concordate ai cambi una volta ogni dodici mesi con crescenti difficoltà nelle negoziazioni. In generale, nei primi undici anni di attività dello SME, sono stati calcolati 12 riallineamenti. Gli anni che vanno dal 1987 fino al 1992, però, videro un irrigidirsi del sistema: si ebbero più riallineamenti valutari – il periodo del cosiddetto «Sme-duro» – in quanto era diventato ormai troppo complicato giungere a modifiche concordate dei cambi. Proprio sul finire degli anni Ottanta, però, il progetto di una più stringente unione monetaria tornò alla ribalta con il Piano Delors che, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, venne poi trasformato in un trattato vincolante: il Trattato di Maastricht, firmato nel febbraio del 1992, con cui si apriva la strada all’Euro.

(29)

2.4 I flussi internazionali di capitali e la crisi dei debiti sovrani

Una delle più importanti conseguenze della fine del sistema a cambi fissi di Bretton Woods della prima metà degli anni Settanta fu il nuovo impulso che venne dato alla mobilità internazionale dei capitale, che era comunque cresciuta considerevolmente già nel corso degli anni Sessanta in connessione con il ritorno alla convertibilità delle valute europee. Lo strumento principale di questa rinnovata apertura furono gli euromercati, che sperimentarono una crescita per tutto il periodo passando dai 177 miliardi di dollari del 1974 ai 575 nel 1980, mentre, nello stesso periodo 1974-1980, le eurobbligazioni aumentarono da 3,4 a 20,4 miliardi e gli eurocrediti emessi da sindacati di banche da 28,5 a 78 miliardi di dollari. Inoltre gli shock petroliferi, ed in particolar modo quello del 1973, furono decisivi per questa enorme crescita, in quanto gli euromercati furono uno dei luoghi privilegiati in cui i paesi esportatori di petrolio, che avevano visto crescere le proprie liquidità tra il 1974 e il 1980 fino ad arrivare a 383 miliardi di dollari.

In questo periodo vi fu una sempre più marcata tendenza da parte dei paesi in cerca di prestiti internazionali a rivolgersi al mercato privato che al Fondo Monetario Internazionale, principalmente in virtù delle condizioni che il Fondo poneva sui propri prestiti: è proprio il concetto di condizionalità che distingue, a ben vedere, i prestiti istituzionali da quelli delle banche private, che si dimostrarono, come vedremo, in questi anni decisamente poco rigorosi.

Il principio della condizionalità si è sviluppato nelle politiche di finanziamento del Fondo fin dagli anni Cinquanta: inizialmente questo implicava una serie di test circa le condizioni fiscali e creditizie del paese richiedente, così come lo stato della sua bilancia dei pagamenti. Tra gli anni Sessanta e Settanta, le specifiche condizioni e le raccomandazioni di politica economica da perseguire da parte del paese ricevente i prestiti divennero progressivamente più dettagliate e stringenti. Particolare attenzione veniva dunque posta sulle politiche di liberalizzazione del commercio, mentre venivano richieste dettagliate relazioni sul settore pubblico, sulle spese e una particolareggiata lettera d’intenti firmata dal ministro delle finanze.

Il Fondo produsse nel 1979 un documento intitolato Guidelines on Conditionality, che rappresenta forse la forma più sistematica di codificazione degli obiettivi del Fondo contenente una lunga lista di considerazioni preliminari per accordare i prestiti richiesti. Nella Sezione 4 di questo documento, ad esempio, si affermava che, al fine di aiutare nel miglior modo possibile il paese membro a perseguire il programma di aggiustamento con le risorse del

Riferimenti

Documenti correlati

29 settembre 2000 La globalizzazione: il problema del debito internazionale Andrea Ginzburg dell’Università di Modena. 6 ottobre 2000 La globalizzazione: indicatori, dati, fonti

al Corso di aggiornamento formazione in servizio rivolto a docenti di storia geografia diritto economia delle scuole di ogni ordine e grado dell’Emilia Romagna. Sala

Scritti di: Daniele Caviglia, Francesco Farina, Maria Eleonora Guasconi, Giuliana Laschi, Fabri- zio Loreto, Lorenzo Mechi, Guia Migani, Edmondo Montali, Giovanni Orlandini,

La rilevanza del mercato finanziario statunitense, tuttavia, divenne sempre più chiara con il passare dei decenni in particolar modo in relazione a tre tratti: l’ammontare degli

2. We assume that the unit price to be paid by a citizen of a particular country is uniform within the country. On the contrary, if the product is imported, the

Tamassia (a cura di), Paesaggi toscani nelle immagini della Fototeca Italiana, catalogo della mostra (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, 7

Alcuni consigli legali in tema di forestieri a Genova nel Medioevo » 251 Aspetti giuridici della pesca del corallo in un trattato seicentesco » 263 La ristampa degli statuti novaresi

L’intenzione di offrire a tale insieme di stakeholders «un linguaggio comune e un modo semplice per comunicare cosa significhi valutare e come ciò vada fatto» (Kirkpatrick &