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4.2. Attraversare la neutralità

4.2.3. La neutralità in riferimento alle argomentazioni

Suggeriamo che la nozione di neutralità, quando applicata alle argomentazioni proposte dal consulente a favore o sfavore di determinate pratiche, azioni o decisioni, sia intesa come obiettività e

trasparenza. Il consulente, prima ancora di essere obiettivo e trasparente,

deve essere accuratamente informato sulle opinioni più accreditate in ambito bioetico ed etico-clinico. Quando gli siano poste domande di chiarimento o gli sia richiesto supporto nella valutazione della natura morale di determinati atti, egli deve rispondere attingendo alle proprie conoscenze in materia, senza alterare od omettere informazioni e senza tentare di indottrinare il richiedente. A tale livello si misura l’expertise descrittivo del consulente o il content expertise, come Fiester lo definiva260.

A nostro avviso, tuttavia, questo tipo di expertise non è sufficiente a realizzare i fini della consulenza. Riferendoci ad una precisa definizione di etica clinica, riteniamo infatti che il ruolo del consulente non debba ridursi all’asettica presentazione delle tesi e delle antitesi relative ad uno specifico atto, ma debba essere orientato alla definizione del percorso più efficace nel promuovere il bene del paziente. Tanto in presenza di un dubbio quanto di un conflitto, egli deve essere in grado di giustificare mediante ragioni la bontà di specifici atti tenendo presenti i fini che via via si intendeno perseguire. Il bene del paziente funziona quindi come criterio generale per la definizione dei fini particolari che mediante dialogo con le parti saranno portati alla luce. Tra le abilità richieste (requisite abilities) al consulente, Françoise Baylis annovera:

«The ability to make and defend sound ethical judgements that reflect an understanding of the values of others, including:

a. The ability to identify possible alternative courses of action, to outline the associated values and possible consequences, and to provide the best arguments for and against the various options; and

b. The ability to provide a recommendation “for consideration”, without attempting to manipulate the decision making process»261.

È dunque in tali termini che andrebbe inteso il senso di “raccomandare”. Gli autori americani utilizzano indistintamente i verbi “to recommend” e “to advise”. Il verbo “to recommend” appartiene all’area semantica della clinica: gli specialisti chiamati dai colleghi a consulenza “raccomandano” e le indicazioni che il medico redige per il proprio paziente (o che gli comunica) sono le “recommendations”. Taluni studiosi hanno evidenziato che il significato di “to recommend” o di “recommendation” può rievocare quello di “comandare”, “ordinare”, “ingiungere”262. A motivo di ciò, il verbo “consigliare” (to advise) ha forse il merito di ingenerare meno moti di resistenza e non rischia di essere sovrapposto al verbo “decidere”.

L’azione del consigliare manifesta il suo valore morale in particolare quando – come Adams e Winslade evidenziano – i casi clinici per i quali è richiesta una consulenza etica non trovano idoneo inquadramento normativo. Qualora l’analisi della letteratura bioetica dimostri l’assenza di standard etici e di soluzioni non ambigue per risolvere il caso, il consulente deve calarsi nell’indagine morale ed immaginare percorsi inediti. Parimenti, egli deve mantenere una posizione critica nei confronti della cosiddetta “tradizione” e degli

standard: ciascun caso è a sé stante, benché possa presentare somiglianze

261 F. BAYLIS, The Heath Care Ethics Consultant, Humana Press, Totowa, New Jersey, 1994, p. 34.

con casi gestiti in precedenza o con casi di cui la letteratura offre esempio. Alla luce di quanto sostenuto il consulente può essere considerato una fonte nei seguenti termini:

- Padroneggia i contenuti della materia di cui si occupa (content

expertise);

- Ragiona in modo critico sulle conoscenze che possiede allo scopo di identificare soluzioni praticabili;

o deve possedere una significativa dose di esperienza che lo renda abile a “ben deliberare” sui mezzi che realizzano il fine. L’uomo saggio, per Aristotele, poteva contare sull’ethos che funzionava da sostrato di determinazione dei fini dell’azione. Il saggio, infatti, non deliberava sui fini poiché essi erano già posti, ma deliberava sulle modalità più efficaci per renderli attuali. D’altra parte, compito della filosofia pratica era invece ragionare sui fini e sull’ethos che faceva da sfondo alle esperienze morali dei singoli. In un tempo come il nostro, dove sembra invece mancare un ethos comune, è chiaro che non si possono presupporre i fini, ma questi vanno indagati, scoperti e valutati (il “fatto” del pluralismo non solleva dalla valutazione morale del contenuto di quei fini). L’esperienza, così come l’abilità di rinvenire soluzioni praticabili (il bene pratico in situazione) non può essere disgiunta da un’autentica indagine su ciò che è bene e dalla capacità di saper giustificare la soluzione identificata263.

263 Si veda: A. DA RE, Figure dell’etica, in C. Vigna (a cura di), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, 2001. Si legga di Albert R. Jonsen: Commentary: Scofield as Socrates, in Cambridge Quarterly of Healthcare Ethics, Vol. 2, 4, 1993, pp. 434-438. Per sottolineare l’importanza dell’elemento esperienziale dell’uomo “saggio” di aristotelica memoria, alle pp. 346-438, Jonsen scrive: «The expertise of clinical ethicists arises from their encounter with many cases, among which they can see analogies, and from their

- Oltre a saper identificare ed analizzare un problema di natura etica, lo sa risolvere. Come già menzionato, ciò presuppone una razionalità di tipo pratico ed una razionalità più squisitamente filosofica (normative expertise). Weinstein osserva: «experts in normative ethics may help the committee analyze a moral problem and provide a strong justification for recommending one treatment option over others»264.