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CAPITOLO PRIMO

3.1. La Pedagogia Interculturale

Le prime riflessioni e testimonianza di pedagogia interculturale sono sviluppate in un documento del 1978 del Consiglio d’Europa.

Esse nascono da un’esigenza pratica di alcuni educatori che, dovendo in- teragire con bambini emigrati in Francia, Belgio e Paesi Bassi, studiaro- no pratiche educative affinché le inevitabili differenze con le nuove cul- ture non risultassero particolarmente traumatiche.

Quindi la pedagogia interculturale entra nel linguaggio educativo per ri- solvere e programmare, dal punto di vista educativo-didattico, i problemi di inserimento dei bambini immigrati.

Il concetto si è poi ampliato nel tempo, grazie al contributo di studiosi dei processi educativi e di specialisti, sino ad assumere oggi un valore scientifico nell’insegnamento e nella ricerca,ma anche nel lavoro sociale.

Infatti, l’incontro fra le varie e, quindi diverse culture va orientato trami- te precise strategie di azione educativa e non è terreno da abbandonare all’improvvisazione.

Da questo punto di vista la pedagogia interculturale dovrebbe essere sviluppata anche se non ci fossero stranieri in mezzo a noi, perché ciò che si propone innanzitutto è l’apertura verso la differenza ed un possibi- le dialogo con le altre culture.

L’ondata emigratoria come fenomeno emerso, e rilevabile quindi statisti- camente, evidenzia attraverso i dati forniti dal Ministero dell’Interno al- cune specificità dell’Italia, divenuta a pieno titolo paese d’immigrazione45.

Il fattore religione ad es., offre il quadro seguente: il 57,7% pari 458.165 unità degli immigrati sono cristiani, con una percentuale di cattolici del 34,2% ovvero 271.728 unità.

Le altre religioni annoverano pochi fedeli: buddisti, confuciani, induisti (5,5%) e animisti (1,5%).

Quindi il credere che la maggioranza degli immigrati siano islamici entra a far parte delle idee infondate che circondano lo straniero.

45

T. M. Mazzatosta, Scuola e insegnanti, in N. Silvestro,Guida al concorso nella scuola materna, op.cit (.pp.370-372).

Un’altra caratteristica del fenomeno è costituita dal flusso degli immigra- ti dell’Europa orientale, con l’eccezione dell’Albania che fa caso a sé; si tratta di un fenomeno costante ed in aumento, tanto che il 9% dei per- messi di soggiorno rilasciati appartiene a lavoratori provenienti dall’Est. In quest’ambito un principio elementare ma basilare della pedagogia in- terculturale consiste in una scuola, luogo d’incontro delle differenze cul- turali e di conoscenza da parte del bambino di culture estranee.

Nella circ. m. n.205 del 26 luglio 1990, c’è un punto che và evidenziato:

l’obiettivo primario dell’educazione interculturale si delinea come pro- mozione della capacità di convivenza costruttiva in un tessuto sociale e culturale multiforme.

“Essa comporta non solo l’occasione ed il rispetto del diverso, ma anche il riconoscimento di una sua identità culturale, nella quotidiana ricerca di dialogo, di comprensione e di collaborazione in una prospettiva di reci- proco arricchimento”.

É indubbio che l’adattamento del bambino straniero alla nuova realtà so- ciale e scolastico è accompagnato da molti conflitti.

Accanto alla sensazione di sradicamento geografico, avvertibile sia nei bambini immigrati che in quelli nati in Italia da genitori stranieri, il bam- bino vive il riferimento da parte di genitori ad un posto lontano che egli

non riesce probabilmente ad immaginare e che può procurargli un senso di vuoto.

Spesse volte i genitori si riferiscono al loro luogo nativo nella speranza di ritornarvi, sviluppando così nel bambino un forte senso di precarietà che certo non lo facilita nel relazionare con gli altri nel nuovo contesto etnico.

Un altro conflitto è dato dalla non conoscenza della lingua, il bambino straniero deve, infatti costruire un’unione tra il linguaggio familiare e quello scolastico.

Proprio l’apprendimento della lingua è oggetto di continui studi, in quan- to essa può divenire la prima causa degli insuccessi scolastici; alcuni hanno definito il fenomeno in questione semilinguismo poiché il codice linguistico proprio di questi bambini evidenzia che non possiedono effet- tivamente né la lingua materna, né quella scolastica.

Si tratta di altri due aspetti problematici con i quali il processo di inseri- mento deve fare i conti e la pedagogia interculturale deve ulteriormente riflettere.

La scuola ha il compito di considerare le differenze come possibili fonti di ricchezza e favorire la conservazione del patrimonio di ciascun cultu- ra. Il linguaggio verbale, infatti, pur rivestendo un ruolo di primaria im-

portanza per l’integrazione dei bambini stranieri nelle scuole, non è cer- tamente l’unico possibile.

Anche la musica, il disegno, le feste, l’attività sportiva sono modi di e- sprimersi che il bambino può utilizzare per entrare in contatto con gli al- tri bambini e procedere nel processo di socializzazione.

La scuola materna disegnata dagli Orientamenti del 1991, ad es. si face- va promotrice di quei valori universali che permettono la formazione di uomini liberi, responsabili ed attivamente partecipi della vita della co- munità locale, nazionale ed internazionale.

Nel primo capitolo il testo ministeriale descriveva in modo preciso la so- cietà italiana di fine millennio, definendola una società in movimento, caratterizzata da profonde ed altrettanto rapide trasformazioni che inevi- tabilmente creavano una situazione di accresciuta complessità.

Al riguardo venivano presi in considerazione la pluralità di modelli di comportamento che rinviavano ad una gamma altrettanto articolata di at- teggiamenti valoriali, generando così una sorta di disorientamento anche in campo etico e sociale. Il testo forniva, poi un quadro della condizione propria dell’infanzia e della famiglia.

3.2 Gli Orientamenti educativi nella scuola dell’infanzia ed i Piani