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2.5.1. La teoria quantitativa della moneta e la dicotomia “classica”

Nella sua versione più tradizionale, la teoria neoclassica ritiene che si domandi moneta solo per il “motivo delle transazioni”, cioè allo scopo di effettuare scambi. Intuitivamente: ciascuno di noi ha una entrata mensile (il salario che riceve, l’assegno mensile dai genitori ecc.) che spende nel corso del mese, o se lo risparmia, lo spende per acquistare titoli. Si ricordi che la moneta si identifica non solo con le banconote ma, soprattutto, con ciò che i soggetti detengono nei conti correnti bancari (depositi a vista). Se spendiamo molto velocemente la nostra entrata, in media avremo poco nel nostro c/c. Se spendiamo un po’ al giorno, per esempio 1/30 al mese, avremo in media metà della nostra entrata nel conto corrente).

Si supponga che un salario di 100€ venga speso 1/30 al mese, in media il soggetto avrà 50€ nel c/c (figura 16). Chiamiamo k la quota del reddito mensile (o annuale) che il soggetto detiene in media in moneta. Nell’esempio k è 0,5. Se i soggetti velocizzano la propria spesa (- spende più velocemente all’inizio del mese, più lentamente successivamente-, k diminuisce. Un soggetto che spendesse tutto il proprio reddito a fine mese avrebbe invece k = 1. Si dice allora che k è l’inverso della velocità di circolazione della moneta: k  1 . La velocità di circolazione è il numero medio di

v

scambi effettuato da una unità di moneta nell’unità di tempo. Se k = 1, v = 1. Ogni unità monetaria effettua un solo scambio al mese. Se k = 0,5, v = 2, e così via.

La teoria quantitativa della moneta utilizza questi concetti per porre in relazione la quantità di moneta offerta, M, con il livello dei prezzi, P, dato il livello del reddito reale Y (determinato in corrispondenza al pieno impiego dei fattori):

Mv  PY oppure,

M  1

v PY  kPY

teoria quantitativa nella versione di Chicago,

teoria quantitativa versione di Cambridge.

La prima equazione va così letta: dato M, se i soggetti cominciano a spendere più velocemente il proprio reddito, P aumenta. Ma più interessante è guardarla in questo modo: se le autorità di politica monetaria accrescono l’offerta di moneta, data la velocità di circolazione, questo ha come unico effetto di aumentare il livello dei prezzi senza alcun effetto reale. Infatti il reddito reale è irrevocabilmente fissato al livello di pieno impiego e la maggiore domanda di beni non può accrescerne la produzione, ma solo il prezzo a cui sono offerti.

Si verifichi per esempio che se v = 2, Y = 20.000 t. di grano, M = 500€, il livello dei prezzi (il costo di una t. di grano) sarà P = 1/20, e che se M diventa 1000€, il livello dei prezzi raddoppia. Verificare anche che, analogamente, nella versione di Cambridge se M aumenta, date le abitudini di spesa dei soggetti ed il reddito reale, l’unico effetto è sul livello dei prezzi.

Questo risultato è molto importante in quanto mostrerebbe l’inefficacia della politica monetaria ad accrescere l’occupazione. Quest’ultima è determinata, se i salari sono flessibili, al livello di pieno impiego, e non v’è verso (e peraltro necessità) di utilizzare la politica monetaria per accrescerla. Si parla a questo proposito di dicotomia classica: il livello del reddito reale è determinato nella parte reale del sistema; la parte monetaria determina il solo livello dei prezzi. Si noti che la teoria quantitativa è valida poiché Y è a livello di pieno impiego. Se invece vi fosse disoccupazione, un aumento di M potrebbe accrescere sia Y che P.

Naturalmente la studentessa più curiosa si può domandare come fa la banca centrale ad accrescere la quantità di moneta in mano ai soggetti: gira forse con un elicottero lanciando banconote (secondo una famosa metafora di Friedman)? Quella che si ha in realtà in mente è una storia un pochino più complicata: la banca centrale crea moneta con le operazioni di mercato aperto, come sappiamo; così facendo fa diminuire il tasso di interesse, gli investimenti e altre forme si spesa sensibili al tasso di interesse (come la richiesta di mutui immobiliari) aumentano, questo, se si è in piena occupazione, genera inflazione. Da ultimo il risultato è quello raccontato in maniera più elementare dalla teoria quantitativa. Su questa base esaminiamo il contributo di Wicksell.

2.5.2. Tasso di interesse naturale e di mercato in Wicksell

Knut Wicksell fu un economista svedese, fra i fondatori più rigorosi della teoria marginalista. La sua teoria monetaria è più elaborata di quella della teoria quantitativa. Wiksell definisce come saggio di interesse naturale in quello determinato dall’incrocio fra domanda e offerta di risparmio. Il saggio di interesse monetario im è quello che in pratica fissano le banche nel

concedere i propri prestiti. Assumiamo che all’inizio in = im . Supponiamo poi che a causa del progresso tecnico la funzione del Pmk e dunque la curva di domanda di investimenti si sposti verso destra (v. capitolo 2) determinando un aumento della profittabilità degli investimenti e dunque un aumento del tasso di interesse naturale che diventa i '

. A questo punto ' > im . Se le banche non aggiustano il tasso monetario al nuovo tasso di equilibrio, più elevato, nel mercato risparmio-investimenti vi sarà uno squilibrio: il tasso di interesse praticato dalle banche sarà infatti più basso di quello necessario affinché le imprese richiedano fondi bancari in misura corrispondente all’offerta di risparmio, ne chiederanno di più. Infatti il tasso di remunerazione del capitale in è superiore al costo del credito. Si genererà dunque un processo inflativo dovuto al fatto che alla spesa per beni di consumo si somma una spesa per beni di investimento, finanziata da fondi bancari, superiore ai risparmi disponibili (cioè alla rinuncia di beni di consumo da parte delle famiglie). Il processo inflativo durerà sino a quando le banche non adegueranno im al nuovo più alto livello di

i ' .

Supponiamo invece che nel paese considerato vi sia una epidemia. L’effetto sarà una diminuzione dello stock di lavoro. Sappiamo dal capitolo 2 che se si modifica la proporzione fra stock di lavoro e stock di capitale a sfavore del primo, la funzione del Pmk si sposta verso sinistra e il saggio di interesse naturale tende a diminuire. Ciò può essere sintetizzato dicendo che i livelli di salario e tasso di interesse dipendono dalle proporzioni relative di K ed L. Se K/L aumenta (il capitale diventa più abbondante rispetto al lavoro), in tende a diminuire. Se le banche non adeguano

im al nuovo livello del tasso naturale, si avrà in questo caso un processo deflativo (ovvero di

diminuzione dei prezzi). Ciò è dovuto al fatto che le banche prestano ad un tasso superiore a quello (naturale) al quale le imprese assorbono tutta l’offerta di risparmio. Il processo deflativo durerà sino a quando le banche non adegueranno im al nuovo più basso livello di in .

L’analisi di Wicksell è coerente con la teoria quantitativa della moneta. Ad esempio, se la Banca Centrale fissasse un im  in , la domanda di moneta aumenterebbe e il sistema bancario, Banca Centrale inclusa, la soddisferebbe. Dato il livello di piena occupazione del reddito reale, tuttavia, l’unico effetto sarebbe un aumento del livello dei prezzi. A differenza della teoria quantitativa però, la Banca Centrale agisce sul tasso di interesse piuttosto che sull’offerta di moneta. In questo modello l’offerta di moneta appare “endogena” al modello, e cioè determinata da dalla domanda di moneta dati in e im .

L’analisi di Wicksell è assai interessante e moderna. Le banche svolgono un ruolo essenziale nel mettere in moto l’economia: esse infatti prestano fondi alle imprese, avviando il processo produttivo, prima ancora che i risparmi scaturiti dal reddito prodotto affluiscano presso i loro

n i

n

sportelli. Se tuttavia “indovinano” in = im , i fondi prestati saranno precisamente uguali ai risparmi che le famiglie deporranno presso di esse una volta che il processo di produzione e di distribuzione del reddito risulta avviato. E’ tuttavia assai probabile che esse sbaglino, poiché non conoscono in . Tuttavia la presenza di processi di deflazione o di inflazione le guiderà nell’abbassare o innalzare, rispettivamente nei due casi, il tasso monetario. Nelle recentissime formulazioni (neoclassiche) di politica monetaria alla Banca Centrale è proprio assegnato il compito di fissare un tasso di interesse monetario pari a quello naturale - quello che si determina in corrispondenza della stabilità dei prezzi e della piena occupazione (che vedremo è in corrispondenza del saggio naturale di disoccupazione). Nella pratica delle Banche Centrali, invero, si ritiene che la fissazione del tasso di interesse piuttosto che dell’offerta di moneta sia l’obiettivo principale della politica monetaria. Il dibattito sugli effetti della politica monetaria è infatti centrale nella discussione corrente di politica economica.

La macroeconomia neoclassica studiata sinora è quella tradizionale pre-keynesiana. Nei corsi più avanzati studierete formulazioni più recenti. Vi invito, quando le studierete, di rammentare che quelle formulazioni non mutano di una virgola la sostanza della teoria tradizionale qui studiata, in particolare la dicotomia fra settore reale e settore monetario, e l’inefficacia della politica monetaria nel lungo periodo.

Questa teoria è alle spalle dell’idea che l’UME si basi su una banca centrale che abbia la sola stabilità dei prezzi come obiettivo prioritario. Dal punto di vista keynesiano questo è un gravissimo errore in quanto la politica monetaria dovrebbe invece coadiuvare la politica fiscale nel sostenere crescita e occupazione.

2.6. Cos’è che non va nella teoria economica neoclassica: accenni ai problemi di teoria del capitale

Da un punto di vista squisitamente teorico, i principali problemi della teoria marginalista risiedono nella teoria del capitale. La questione della misurazione del capitale arrovellò alcuni dei primi marginalisti, molto più scrupolosi dei loro moderni epigoni, ma è stato col tempo dimenticato, sino a che nel 1960 un grande economista italiano, Piero Sraffa, lo risollevò generando una famosa controversia sulla teoria del capitale fra la Cambridge inglese dove Sraffa risiedeva,24 e la

24 Figlio del Rettore della Bocconi, Sraffa (1998-1983) si laureò con Luigi Einaudi. Nel primo dopoguerra fu vicino a Gramsci, e diventò docente universitario. Inviso ai fascisti, che lo minacciarono più volte, e personalmente a Mussolini per alcuni suoi articoli sulle protezioni accordate dal regime alle malefatte delle banche italiane, nel 1926 Sraffa accetta l’invito di Keynes di stabilirsi a Cambridge. Pur sorvegliato, Sraffa può entrare e uscire dall’Italia, per cui diventa il principale referente intellettuale ed affettuoso amico di Gramsci nel frattempo imprigionato dal regime. Fu anche grandissimo amico e mentore del filosofo Wittgenstein. Su incarico della Royal Economic Society Sraffa si occupa di pubblicare l’edizione degli scritti

Cambridge americana, cioè il famoso MIT nel Massachussets. Gli americani erano guidati dal più celebre economista contemporaneo, Paul Samuelson. Questi ultimi risultarono sconfitti. Sebbene la vittoria degli italo-inglesi stimolò molta ricerca in direzione non neoclassica, anche questa volta il problema è ritornato nel dimenticatoio. Non per tutti però. Un gruppo molto tenace di studiosi a livello internazionale continua a perseguire la direzione di ricerca aperta da Sraffa. (v. A.Roncaglia, Sraffa e la teoria dei prezzi, Laterza, Bari, 1981).

Un modo semplice per capire dove sono i problemi della teoria marginalista è il seguente. Si consideri la natura del prezzo di un bene. Nell’analisi economica il prezzo di un bene è considerato pari ai suoi costi di produzione. Per esempio, il prezzo di un libro su cui studiate è pari al salario per le ore di lavoro di chi lo ha scritto, stampato, distribuito ecc., più il consumo dei materiali (carta, inchiostro, carburante del mezzi di trasporto, ecc.), più il consumo dei mezzi di produzione impiegati (computers, macchine tipografiche ecc.), più l’affitto o rendita sui terreni o spazi impiegati per la produzione, più il profitto dell’imprenditore che ha anticipato i quattrini per la produzione. Più precisamente l’editore intende realizzare un tasso di profitto sui capitali anticipati almeno pari al tasso di interesse che avrebbe realizzato investendo altrimenti quel capitale, per esempio in titoli di Stato (quel mancato guadagno viene detto “costo opportunità” – il costo dell’opportunità non sfruttata). Si noti dunque che per conoscere il prezzo di un bene dobbiamo conoscere il salario del lavoro, il tasso di profitto, il prezzo dei beni impiegati nella produzione.

di David Ricardo, il principale economista classico inglese. Questo lavoro va in parallelo alla riscoperta da parte di Sraffa di un approccio all’economia politica precedente al marginalismo, dovuto principalmente proprio a Ricardo, e radicalmente diverso da questo (il cap.II delle dispense si basa proprio su questa riscoperta). Nel 1957 riceve dall’Accademia Reale Svedese un premio speciale per l’edizione delle opere di Ricardo, premio assegnato in precedenza solo a Keynes ed assimilabile al premio Nobel, che per l’economia fu introdotto solo più tardi (peraltro l’attuale Nobel per l’Economia è un Nobel spurio, assegnato dalla Banca di Svezia e non dall’Accademia Svedese delle Scienze). Nel 1960 pubblicò un libro di poche decine di pagine che divenne immediatamente oggetto di grande dibattito. Questo dibattito culminò a metà anni ’60 nella famosa “controversia fra le due Cambridge” che vide contrapposte la Cambridge inglese, dove risiedeva Sraffa e numerosi allievi suoi e di Keynes (che era scomparso nel 1946), e quella USA nel Massachussets (dove c’è il famoso MIT) dove insegnava il decano degli economisti marginalisti, e primo premio Nobel, Paul Samuelson. Riporto da una mia pubblicazione in inglese alcune testimonianze (di parte marginalista) al riguardo: “Sheshinsky, a leading neoclassical economist, recalls ‘When I came to MIT at the end of 1963 …[I]t was ... times of polemics. Before the age of fax machines, notes and counterexamples were hurried across the Ocean. Bob [Solow] or Paul [Samuelson] would enter class with an airgram from Pasinetti [che ha insegnato alla Cattolica Milano] or Garegnani [che ha insegnato alla “Sapienza” e a Roma

3] or Robinson [una allieva di Keynes] in hand, read their (tedious) numerical examples, and conjecture that they did not satisfy some basic assumptions. We would then rush home to invert 4 x 4 indecomposable

input-output matrices and send off the next salvo across the ocean’. (Sheshinky, 1990, p.41). Famously, Ferguson

belief in neoclassical theory was just ‘a statement of faith’”. Sraffa non volle mai acquisire la cittadinanza britannica, e avrebbe probabilmente voluto tornare in Italia, ma l’università italiana non fu in grado, o non volle, trovare una cattedra degna di tanta grandezza.

Dunque per conoscere il prezzo o valore di una merce dobbiamo conoscere il prezzo di altre merci e la distribuzione del reddito (salario, profitto e rendita). Vediamo le conseguenze di ciò.

Quando abbiamo tracciato le curve dei prodotti marginali abbiamo fatto uso del concetto di stock di capitale, di lavoro, di terra ecc. Lavoro e terra sono tuttavia misurabili in unità fisiche (ore di lavoro, ettari di terra ecc.). Così quando, per esempio, sommiamo la quantità di lavoro impiegata da ciascuna impresa a un dato salario per tracciare la domanda di lavoro dell’intera economia, addizioniamo unità fra loro omogenee. Ma la stessa cosa non è vera per il capitale. Questo è costituito da una pletora di mezzi di produzione fra loro non omogenei (aratri, torni, autotreni e quant’altro), e, com’è noto, non ha senso sommare pere e mele.25 L’unico modo per calcolare lo stock di capitale è misurandone il valore ottenuto come somma delle quantità fisiche di esso, ciascuna valutata al suo prezzo (come si fa per il PIL). In altri termini lo stock di capitale offerto – il K che usiamo per tracciare la curva di offerta del capitale, o che considero dato quando tracciamo la curva del Pml – può essere misurato solo in valore. Ma per conoscere questo valore si devono conoscere i prezzi dei beni e la distribuzione del reddito. Siamo così in un circolo vizioso: per conoscere la distribuzione del reddito si deve conoscere il valore dello stock di capitale, ma per determinare quest’ultimo deve essere già nota la distribuzione del reddito.

Poniamo la questione in altri termini: quando nel grafico 17 diciamo che E è il punto di equilibrio fra domanda e offerta (K*) di capitale, stiamo dicendo che il valore dello stock di mezzi di produzione che gli imprenditori intendono impiegare, cioè domandano, in corrispondenza al punto E – valore determinato cioè sulla base del tasso di interesse e profitto relativi al punto E – è uguale al valore del capitale offerto K*. Ma questo valore K* doveva essere noto prima di determinare l’equilibrio dell’economia, ma su che base? Si sarebbe dovuto indicare un numero a caso, ma con quale senso economico? Se potessimo supporre di conoscere il valore del capitale impiegato nell’economia in corrispondenza del tasso di interesse identificato dal punto E, e assumendo che esso sia pari al valore del capitale offerto, allora potremmo dire di conoscere K*.

25 Naturalmente 10 pere e 10 mele sono sommabili in un metro comune. Per esempio danno: 20 frutti – in tal caso l’unità di misura omogenea è il “frutto”; oppure 4 kg – in tal caso l’unità di misura è il Kg; infine sono sommabili “in valore”, conoscendone i prezzi, come facciamo quando calcoliamo il Pil.

Ma senza conoscere K* non possiamo conoscere E.26

Figura 17

Come si esprime Pierangelo Garegnani, l’allievo prediletto di Piero Sraffa: “i prezzi dei beni capitali, al pari di quelli di qualsiasi prodotto, dipendono …da saggi di salario e profitto che, a loro volta, dovrebbero essere spiegati sulla base di quegli stessi prezzi, in quanto elementi costitutivi della ‘quantità’ di capitale” (1973, p.276). E’ chiaro dunque che il valore dello stock di capitale impiegato nell’economia vada determinato simultaneamente a prezzi e distribuzione, e non possa essere considerato noto prima di determinare queste grandezze. L’unico caso in cui il problema non si pone è se esistesse un solo bene nell’economia, per esempio il grano. In questo caso per definizione esso può essere misurato in unità fisiche invariabili al variare della distribuzione. Basti porre il prezzo di una unità di grano pari ad 1: questa grandezza, essendo puramente definitoria, è indipendente dalla distribuzione.

Questi problemi riguardano dunque la possibilità di tracciare la curva di offerta di capitale senza incorrere in errori di logica, cioè conoscere in anticipo ciò che la teoria dovrebbe determinare. Tale possibilità ci è negata. Difficoltà insorgono, tuttavia, anche nel tracciare la curva di domanda di capitale, ma per questo rimandiamo alla letteratura specializzata.

La teoria neoclassica del commercio internazionale e la sua critica

Non è possibile in queste lezioni trattare in maniera esauriente la teoria neoclassica del commercio internazionale. D’altronde molti studenti avranno nel programma il corso di economia internazionale. Ai nostri scopi è qui sufficiente ricordare che per la teoria neoclassica, a parità di condizioni tecniche di produzione, ciascun paese tenderà a specializzarsi nella produzione di quelle merci che utilizzano relativamente più del fattore (o fattori) relativamente più abbondante in quel paese. Per esempio, se per produrre formaggio si utilizza relativamente più lavoro rispetto alla terra mentre per produrre carne si impiega relativamente più terra rispetto al lavoro, e la terra è relativamente più abbondante in Francia a confronto della Germania, ecco che la Francia si specializzerà nella produzione di carne e la Germania in quella di formaggio. La ragione è intuitiva: se la terra è più abbondante relativamente al lavoro in Francia rispetto alla Germania, il prezzo di affitto della terra (o rendita) sarà relativamente più conveniente in Francia che in Germania, sicché nel primo

paese sarà più conveniente la produzione di carne che fa un uso relativamente maggiore di terra rispetto al lavoro. Simmetricamente, l’abbondanza relativa di lavoro in Germania farà sì che i salari in questo paese siano relativamente più bassi rispetto alla Germania, e la produzione di formaggio più conveniente dato il suo relativo maggior uso di lavoro rispetto alla terra.

Nell’esempio abbiamo utilizzato i due fattori della produzione più facilmente “misurabili”: il lavoro in ore-lavoro, la terra in ettari. Avremmo tuttavia potuto fare un esempio col fattore “capitale”. In questo caso avremmo, ad esempio, concluso che se la Germania è un paese in cui il capitale è abbondante (rispetto a terra e lavoro) esso tenderà a specializzarsi in produzioni ad elevata intensità di capitale.

In seguito, tuttavia, alle critiche in tema di teoria del capitale menzionate nel capitolo 1, sappiamo che l’introduzione del fattore “capitale” comporta delle problematicità per la teoria

neoclassica. Si veda per una spiegazione introduttiva

http://nakedkeynesianism.blogspot.it/2011/10/more-on-free-trade.html.

Per gli economisti neoclassici una alternativa al commercio internazionale risiede nel movimento dei fattori. In altri termini è la medesima cosa per un paese relativamente ricco di capitale esportare beni ad alta intensità di capitale, oppure esportare capitale verso i paesi che ne sono

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