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Università degli Studi di SienaDipartimento di Economia politica e StatisticaComplementi di PMFUMEDispensa introduttivaSergio CesarattoAnno accademico 2017-18

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Università degli Studi di Siena

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Dipartimento di Economia politica e Statistica Complementi di PMFUME

Dispensa introduttiva Sergio Cesaratto Anno accademico 2017-18

Questi appunti integrano ma non sostituiscono lo studio dei capitoli indicati delle Sei lezioni del docente, Imprimatur 2016

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Capitolo 1

Complementi alle pagine 172-78 delle Sei lezioni

Bilancia dei pagamenti e sviluppo in economia aperta

Introduzione

Il problema dello sviluppo economico va necessariamente esaminato in economia aperta.

Ciascun paese, infatti, commerciando con altri paesi acquisisce merci che non produce direttamente ed anche, come vedremo, finanziamenti potenzialmente utili alla crescita. Esistono, seppure con grandi semplificazioni, due posizioni al riguardo. La prima, riconducibile alla teoria neoclassica, vede nell’apertura dei mercati nazionali ai flussi commerciali e finanziari un importante propulsione alla crescita. La seconda posizione ritiene che la mera liberalizzazione commerciale e finanziaria possa generare danni superiori agli eventuali vantaggi, per cui la questione dell’apertura verso l’estero va affrontata in maniera pragmatica, non rinunciando a politiche volte a proteggere in varie forme l’economia nazionale. I critici delle liberalizzazioni non negano, naturalmente, che le economie dei PVS – anzi loro in particolare – necessitano di prodotto, tecnologie e capitali dall’estero, né di accrescere le proprie esportazioni per farlo. Il punto è che le varie liberalizzazioni, interne e verso l’esterno, possono essere di ostacolo a tali obiettivi – o comunque gli svantaggi superare di gran lunga i vantaggi. Le correnti non ortodosse individuano proprio nel vincolo estero il nodo macroeconomico più rilevante per la crescita: la necessità in altri termini per i PVS da un lato di acquisire dai paesi avanzati beni di produzione e relative tecnologie necessarie per avviare lo sviluppo, e dall’altro del come reperire la valuta o liquidità internazionale con cui pagare tali acquisti. Per contro, si può affermare che il vincolo neoclassico risieda nella scarsità di risparmi interni per finanziare la crescita:

vincolo non ortodosso (Keynesiano) scarsità liquidità internazionale

vincolo neoclassico scarsità di risparmio

Gli studiosi neoclassici più avveduti riconoscono l’esistenza dei due gap (“dual gaps hypothesis” di Chenery). Noi diamo tuttavia importanza solo al primo.

L’esperienza dei paesi Asiatici insegna come senza un ruolo rilevante dello Stato nel guidare in diverse forme la crescita economica, questa non avrebbe avuto luogo. Peraltro questo è stato vero anche per il Giappone e l’Italia nel secondo dopoguerra, e un secolo prima per la Germania, la Francia e gli Stati Uniti, per non risalire all’epoca mercantilista che teorizzava il ruolo degli Stati come agenti degli interessi economici nazionali.

Ripassati alcuni attrezzi del mestiere relativi alla bilancia dei pagamenti (v. appendice), nel capitolo ci occuperemo delle teorie del commercio internazionale con particolare riguardo al legame fra quest’ultimo e lo sviluppo economico. Al pari del dibattito sulla politica economica, anche quello sul commercio internazionale vede contrapposte due scuole: quella che individua la via allo sviluppo

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nel laissez-faire negli scambi internazionali; e coloro i quali ritengono che, invece, gli stati nazionali3 svolgano un ruolo decisivo nel volgere quegli scambi a favore dello sviluppo nazionale, scambi che se invece lasciati al laissez-faire lo danneggerebbero o addirittura impedirebbero. Si è parlato al riguardo di “developmental state”, con riferimento a stati che sostenuti da coalizioni sociali favorevoli allo sviluppo sono riusciti a svolgere un ruolo decisivo nel decollo della nazione. Il pensiero va a paesi come la Corea del Sud, ma in verità non v’è praticamente esempio nella storia economica di paese che, magari in maniera diversa, non abbia visto un coinvolgimento attivo dello stato nella crescita.

I sostenitori del laissez-faire nel commercio internazionale si rifanno a due ceppi teorici. Il primo fa riferimento agli economisti classici, e in particolare alla teoria del vantaggi assoluti di Adam Smith e a quella dei vantaggi comparati di David Ricardo. Il secondo alla teoria marginalista o neoclassica studiata nel capitolo precedente. L’indirizzo alternativo a quello del laissez-faire può ricondursi alla tradizione mercantilista che prosegue in maniera spesso sotterranea anche nei secoli successivi.

La Bilancia dei pagamenti Le partite correnti

In una economia aperta al commercio internazionale parte della produzione nazionale viene acquistata dagli altri paesi (resto del mondo), viene cioè esportata, mentre parte della domanda interna è soddisfatta da beni e servizi acquistati all'estero, beni e servizi che costituiscono le importazioni. L'equazione del reddito nazionale è ora

Y = C + I + G + (E - M),

dove E ed M indicano, rispettivamente, le esportazioni e le importazioni. In termini della nostra "economia-grano", la quantità Y di grano nazionale prodotta va accresciuta della quantità E di grano nazionale acquistata dagli altri paesi, ma diminuita della quantità di grano acquistata dagli altri paesi, ovvero M. Spieghiamo meglio.

Y + M sia l’offerta aggregata (AS), parte proveniente dalla produzione nazionale (Y) e parte dalla produzione estera (M), mentre C + I + G + E sia la domanda aggregata (AD). Ovviamente AS

= AD, dunque Y + M = C + I + G + E. Se dall’AS sottraiamo la produzione estera AS = (Y – M) – M = Y, otteniamo evidentemente il prodotto nazionale Y; se dalla AD sottraiamo la AD che si rivolge all’estero AD – M = (C + I + G + E) – M, e otteniamo la AD per i beni nazionali. Abbiamo dunque anche che Y = (C + I + G + E) – M, cioè il prodotto nazionale è pari alla AD che si rivolge ai beni nazionali.

Tutti i flussi commerciali e i trasferimenti fra paesi e, vedremo fra poco, i flussi di capitale, sono contabilizzati nella bilancia dei pagamenti. La differenza fra E ed M costituisce il saldo della bilancia commerciale.1 La bilancia commerciale fa parte delle partite correnti (PC). Chiariamo questi termini procedendo per approssimazioni.

Va in primo luogo chiarito che non tutte le monete sono sullo stesso piano. Esistono alcune valute che, per la forza economica e politica del paese che le emette, sono comunemente accettate nei pagamenti internazionali. Si tratta principalmente del dollaro americano, ma anche l’euro si sta

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1 La bilancia commerciale riguarda esportazioni e importazioni sia di beni che di servizi. Fra questi ultimi va ricordato il turismo: quando degli stranieri visitano il nostro paese, le loro spese costituiscono dal nostro punto di vista una esportazione di servizi turistici, mentre dal punto di vista della loro bilancia commerciale si tratta di una importazione di servizi turistici.

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affermando come moneta internazionale. I paesi che emettono le valute accettate nei pagamenti internazionali sono in una posizione un po’ speciale in quanto emettono la moneta con cui possono effettuare i propri pagamenti – è come se ciascuno di noi potesse stampare la moneta con cui finanziare i propri acquisti! I paesi che emettono queste monete rendono però un servizio al resto del mondo mettendo a disposizione la liquidità necessaria per gli scambi. Tutti gli altri paesi, pensiamo all’Italia al tempo della lira, per finanziare le importazioni devono procacciarsi le valute internazionali. Un primo canale per procurarsi liquidità internazionale è attraverso le esportazioni.

Cosa accade se un paese ha uno squilibrio nella bilancia commerciale, per esempio se esporta più di quanto importa? In quest’ultimo caso il paese accumula riserve di valuta straniera, dette riserve ufficiali (RU), detenute dalla banca centrale. In luogo di tenere queste divise inattive, i paesi in attivo possono tuttavia prestare queste valute ai paesi in deficit commerciale, che ne hanno bisogno per finanziare il loro disavanzo. Infatti se M > E, ed un paese non ha riserve di valute internazionali, deve ricorrere a prestiti.2 L’accensione di un debito estero è dunque un secondo canale attraverso cui un paese può procacciarsi la valuta necessaria a finanziare un disavanzo di bilancia commerciale, o più in generale di partite correnti, come vedremo fra poco.

I paesi indebitati pagano degli interessi sul debito estero, interessi percepiti dai paesi creditori. Il pagamento di questi interessi costituisce un “drenaggio del PIL”: cioè parte della produzione nazionale viene ceduta all’estero per il pagamento degli interessi. Anche questo pagamento deve essere effettuato in valuta internazionale. Il saldo dei pagamenti in conto interessi (interessi debitori meno interessi creditori) rientra nel cosiddetto saldo dei redditi netti dall’estero.

CONSULTARE pp. 183-190 del libro

Non solo il capit ale circola nel mondo - viene cioè prestato dai paesi in att ivo comm erciale ad alt ri -, ma anch e il la voro. Fino a po chi de cen ni fa mi gli aia di it ali ani emi gr avano in alt ri p aesi , mentre or a il nostro pae se è diventato t err a di a cco gli enz a per centi nai a di mi gli aia di lavo rator i stranieri. Le rimesse deg li immigranti verso le fa mi gli e in patri a costi tui scono un alt ro “dr ena ggio ”

2 Quanto andiamo dicendo risulterà molto utile per capire il famoso problema del debito estero dei PVS. Questi sono paesi strutturalmente indebitati: devono importare molto per crescere ed industrializzarsi - poiché hanno una struttura industriale ancora non in grado di produrre numerosi prodotti moderni. D’altronde non sempre hanno un volume di esportazioni in grado di generare la valuta necessaria a finanziare le importazioni. Così si ricorre al debito estero che, tuttavia, se i tassi di interesse si fanno troppo onerosi e se l’economia non riesce per tempo a generare un flusso di esportazioni adeguato a pagare gli interessi e restituire il debito, comincia ad accumularsi. Può accadere che ad un certo punto si devono accendere nuovi prestiti solo per far fronte al pagamento degli interessi, oppure che i proventi delle esportazioni vanno a finanziare il pagamento degli interessi e non, come auspicabile, l’importazioni di beni necessari a modernizzare le economie (trappola del debito). Gli anni ottanta e novanta del secolo scorso hanno visto numerose crisi da debito estero, ciò paesi che in difficoltà a restituire le rate del debito in scadenza e a pagare gli interessi, senza possibilità di poter accendere ulteriori prestiti, dovettero dichiarare il default sul debito estero. L’ultimo caso famoso è stato quello dell’Argentina nel 2001.

Negli anni più recenti una buona performance delle espertazioni ha consentito a molti paesi

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emergenti di conseguire avanzi di partite correnti e di accumulare riserve ufficiali, allontanando dunque lo spettro della trappola del debito.

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sul prodott o naz ionale del paese ospitante. P er c onverso, le rimesse cost it uiscono un im portan te ingresso di valut a pre gi ata per i paesi di provenienz a degli im mi grati , in gener e paesi in via di svil uppo. Anche il saldo dell e rim esse ( affluss o m eno deflusso di rim esse) entra nei saldo dei reddit i nett i dall ’estero . In quest i ult im i rientrano anche i tras ferimenti unil aterali come gli aiut i ai paesi in via di sviluppo o quelli effett uati nei conf ronti de gli or ganism i i nternaz ionali.

Riassumendo, il saldo delle partite correnti include sia del saldo della bilancia commerciale, che il saldo dei trasferimenti di reddito (da lavoro e da capitale) o redditi netti dall’estero, R.3. Possiamo dunque scrivere il saldo delle partite correnti, PC, come:

E – M + R.

Esempio. E = 1100, M = 1000, saldo rimesse migranti = + 300, debito estero a inizio anno = 10.000, tasso di interesse sul debito i = 0.05 (o 5%). Calcolare il saldo delle partite correnti e il debito estero a fine anno.

Saldo Bilancia commerciale: E – M = 1100-1000= +100 (entrata netta di valuta)

Saldo dei redditi netti dall’estero: saldo rimesse + saldo c/interessi = +300 (afflusso valuta) – 500 (deflusso di valuta) = -200. Il saldo interessi (qui solo interessi debitori o passivi) è calcolato facilmente come: 0.05*10.000 = 500.

Saldo delle PC = -100

Il debito a fine anno risulterà di 10.100, cioè pari al debito pregresso più il nuovo disavanzo di BP. Come vedremo fra poco, infatti, i disavanzi delle PC, se non finanziati con le RU comportano l’accensione di un prestito dall’estero, dunque un nuovo indebitamento.

Come si è visto dall’esempio un paese potrebbe avere una bilancia commerciale in attivo (E

> M), ma trasferimenti verso l’estero negativi (nel cui caso R è un numero negativo), per cui nel complesso le PC hanno segno negativo.4 Un negativo saldo delle partite correnti è contabilmente pari ad un saldo positivo delle PC del “resto del mondo” (che può essere visto come un secondo paese, come in talune amichevoli di calcio).

L’equazione della contabilità nazionale suggerisce ora che:

Y = RDL + TA = C + I + G + E – M (RDL – C) + (TA – G) – I = E – M Sp + Sg – I = E – M

3 R include dunque gli interessi sui capitali dati o ricevuti in prestito, e le rimesse degli emigranti. Si osservi come sino a pochi anni fa le rimesse degli emigranti erano favorevoli al nostro paese, terra in cui il lavoro ha costituito la maggiore esportazione, mentre da alcuni anni la bilancia si è fatta sfavorevole a causa del crescente numero di immigrati nel nostro paese.

4 E’ questo il caso di un PVS con attivo di bilancia commerciale, ma con un forte indebitamento estero, per cui l’attivo della bilancia commerciale non è neppure sufficiente a pagare gli interessi sul debito, e nuovi prestiti devono essere accesi.

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Per semplicità supponiamo T = G, dunque Sg = 0. Se M > E, allora I > Sp. Vale a dire, se il paese investe più del risparmio nazionale (I > Sp), vuol dire che sta finanziando parte degli investimenti con risorse estere, infatti la bilancia commerciale è in passivo (M > E). Se invece M <

E, ne segue I < Sp. Dunque, se il paese investe meno del risparmio nazionale (I < Sp), vuol dire che sta cedendo risorse all’estero, infatti la bilancia commerciale è in attivo (M > E).

Poiché i trasferimenti costituiscono una aggiunta o una sottrazione al PIL, a seconda del segno di R, potremmo definire il Prodotto nazionale lordo (PNL) come:

PNL = C + I + G + E – M + R.

Questa misurazione del reddito nazionale, che è quella utilizzata dagli USA, include nel reddito nazionale i redditi relativi ai capitali e al lavoro americani che operano all’estero, ed esclude dal prodotto americano i redditi relativi ai capitali e al lavoro stranieri che operano negli USA. In Europa non si impiega, invece, questa definizione. L’equazione di raccordo è ovviamente PNL = PIL + R.

Esempio ed esercizio

Supponiamo una economia di solo grano.5

Sp = 200 (tonnellate oppure € di grano), Sg = -100€, I = 200. Allora necessariamente M – E

= 100 (trascuriamo R). Ciò vuol dire che dei 200 di grano non consumati dalle famiglie (S = 200), 100 sono stati assorbiti dallo Stato. Siccome sono stati seminati, cioè utilizzati come investimento, 200 (I = 200), allora di necessità c’è stata una importazione netta di grano di 100, grano “prestato”

dal “resto del mondo”.

Per esercizio specificare quale sarà l’avanzo di bilancia commerciale del paese ‘resto del mondo’.

Movimenti reali e movimenti di capitale

Abbiamo visto come ad un attivo delle PC corrisponda un afflusso di valuta straniera, e ad un passivo un deflusso di valuta. Se c'è un afflusso netto di valuta, come si è detto, un paese può o accrescere le riserve ufficiali (RU), cioè il fondo di valute straniere detenuto dalla banca centrale, oppure effettuare dei prestiti all'estero. In ambedue i casi si dice che è migliorata la posizione netta del paese verso l'estero (PNE). Nei fatti accrescere la valuta straniera posseduta vuol dire avere accresciuto la possibilità del paese di acquistare nel futuro prodotto estero. Se invece le PC hanno

5 Il grano è stato spesso usato dagli economisti perché è una merce utilizzabile sia come bene di consumo (pane) che come capitale (semi). Gli economisti si fanno vanto di semplificare i problemi nei loro termini essenziali, e spesso usano gli esempi di ‘solo grano’ quando un solo bene riassume le proprietà essenziali per il ragionamento da condurre. Lo studio attento dell’economia è anche utile per acquistare questo stile di ragionamento.

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segno negativo, il paese attinge alle proprie RU di valuta per compensare la differenza fra entrate e uscite di valuta, oppure si fa prestare la valuta dall'estero. In termini della nostra economia grano, quando il saldo delle PC è positivo vuol dire che, al netto del grano importato, stiamo cedendo parte del grano prodotto nel paese all'estero. Trascurando R, supponiamo che il paese A abbia Ea > Ma, mentre il paese B (‘resto del mondo’) presenti Mb > Eb, dove Ea = Mb e Ma = Eb. Nei fatti il paese A presterà dei capitali a B finanziando così il suo disavanzo.

I flussi relativi all’accensione di nuovi debiti e alla concessione di nuovi crediti entrano nella bilancia dei pagamenti contabilizzati sotto la voce di movimenti di capitale. Il saldo dei movimenti di capitale ci informa se il paese nel corso dell’anno ha acceso nuovi debiti al netto dei crediti concessi, nel qual caso vi è stato un ingresso netto di capitali, ovvero ha concesso nuovi crediti al netto dei debiti accesi, nel quel caso vi è stata una fuoriuscita netta di capitali.

Come già detto, considerare l’esistenza di rapporti di debito e credito verso l’estero significa considerare i movimenti di capitale. Convenzionalmente la bilancia dei pagamenti si compone di due parti: “sopra la linea” vi sono le partite correnti (PC) e i movimenti di capitale (MK), e in particolare i loro saldi; “sotto la linea” la variazione delle riserve ufficiali (RU). Cerchiamo di capire.

Come abbiamo visto, un disavanzo delle partite correnti può essere finanziato o con l’accensione di un debito netto con l’estero, quindi con un afflusso netto di capitali, o ricorrendo alle RU che in tal modo diminuiscono. Quindi:

saldo PC = E – M + R = saldo MK + RU.

Per esempio, un disavanzo delle partite correnti del paese di Svilupponia di 1 milione di $ può essere compensato da un ingresso di capitali per 800 mila $, e da una diminuzione delle RU di 200 mila $.

Si ha pure che:

saldo PC – saldo MK =  RU.

Nell’esempio:

- 1 milione $ + 800 mila $ = -200 mila $

La variazione delle riserve obbligatorie è uguale al saldo della bilancia dei pagamenti (BP).

Arricchendo l’esempio, la bilancia dei pagamenti di Svilupponia potrebbe essere la seguente:

--- Partite correnti:

Esportazioni 2 milioni $ (afflusso valuta) Importazioni 3 milioni $ (deflusso)

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Saldo rimesse migranti + 1 milione $ (afflusso) Saldo c/interessi – 1 milione $ (deflusso)

Saldo PC - 1 milione $ Movimenti di capitale: Uscite

di capitali 200 mila $ Entrate di capitali 1 milione $

Saldo MK + 800 mila

Saldo “sopra la riga” - 200 mila Variazione RU - 200 mila

---

Si dice che la BP è contabilmente sempre in pareggio (saldo complessivo = 0), in quanto il saldo “sopra la riga” viene compensato dalla variazione delle RU: saldo partite correnti + saldo movimenti di capitale = variazioni delle riserve ufficiali. Tuttavia si può anche dire che il vero saldo della BP è quello “sopra la riga”, perché quel saldo ci spiega le ragioni per cui il paese ha perso o guadagnato di RU nel corso dell’anno.

Nel fare gli esercizi è importante che ciascuna voce delle partite correnti sia classificata, rispettivamente, o come afflusso di valuta o come deflusso, e il saldo delle PC come saldo di afflussi e deflussi. Per esempio, un saldo positivo (afflusso netto) dà luogo ad una uscita di capitali (si prestano soldi all’estero), o ad un aumento delle RU (o ad una combinazione dei due eventi).

Le RU sono una sorta di “tesoro” in valuta pregiata che un paese possiede. Averne troppo è uno spreco: indica che il paese ha per anni accumulato avanzi della BP senza impiegare la valuta accumulata per acquistare beni all’estero utili alla crescita economica o a migliorare la qualità della vita nel paese (è come un avaro che nascondesse sotto il materasso i propri guadagni). Avere poche riserve, per contro, vuole dire non poter difendere il cambio della propria moneta se ne ravvedesse la necessità.6

Come detto sopra, la possibilità di finanziare disavanzi delle PC attraverso afflussi di capitale è una misura che non può durare troppo a lungo perché sui tali afflussi si pagano interessi.

Questi a loro volta aggravano il saldo negativo delle PC. Nel lungo periodo, a meno di incorrere in

6 Per esempio, se l’euro si deprezzasse rispetto al dollaro, la BCE potrebbe intervenire vendendo dollari detenuti nelle riserve e acquistando euro.

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una grave crisi finanziaria, il saldo delle PC, e in particolare della bilancia commerciale, deve diventare positivo e sufficiente da permettere una progressiva restituzione del debito estero.

Lo schema europeo della bilancia dei pagamenti

Dal 1999 la BP italiana segue uno schema europeo muta nella forma, ma non nella sostanza economica, quanto sin qui esposto. Essa si compone di quattro sezioni:

1) Saldo del conto corrente 2) Saldo del conto capitale

3) Saldo del conto finanziario (incluse le variazioni delle riserve ufficiali) 4) Errori ed omissioni

Per ciò che concerne il conto corrente ed il conto finanziario non vi sono differenze di rilievo con quanto sopra discusso con riguardo al conto corrente ed ai movimenti di capitale (che includono le variazioni delle RU). Il conto capitale contiene due voci: i trasferimenti unilaterali in conto capitale e le cosiddette attività intangibili. I primi includono il trasferimento di beni capitali a seguito del rimpatrio/espatrio definitivo di emigrati; la remissione di debiti privati e pubblici (fra questi ultimi la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo); trasferimenti in conto capitale con gli organismi europei. Le attività intangibili includono il trasferimento di brevetti, licenze, diritti d’autore, know-how ecc. – voci che riguardano il cosiddetto trasferimento di tecnologia fra paesi. In pratica il “conto capitale”, che non va confuso col quello che fu sopra definito saldo movimenti di capitale (che si chiama ora “conto finanziario”), era precedentemente incluso nelle partite correnti. La voce Errori ed omissioni ci consente di completare la discussione della BP. In via di principio in un mondo a due paesi – tanto per semplificare – all’attivo di BP di un paese dovrebbe corrispondere il passivo dell’altro paese. Questo nella realtà non accade mai per errori e imprecisioni di vario genere. Questa voce può assumere valori di assoluto rilievo.

Il debito dei paesi in via di sviluppo e il FMI

Come si è ora osservato, nessun paese potrà alla lunga mantenere un saldo delle partite correnti negativo, accumulando debito. La situazione si dovrà ad un certo punto invertire - a meno di un default sul debito come accaduto per esempio in Argentina nel dicembre 2001. Nel caso dei paesi in via di sviluppo ciò che viene auspicato è che il finanziamento con debito agevoli la crescita economica e lo sviluppo delle esportazioni, sì da realizzare un avanzo commerciale e la restituzione del debito estero. Nel passato molto spesso, all’accumulo del debito è seguita una crisi finanziaria per la difficoltà di ripagarlo, anche perché sul debito si pagano accumulano cospicui interessi che alla lunga sono fonte di nuovo debito (cioè ci si indebita per pagare il debito pregresso, la cosiddetta

“trappola del debito”). In genere il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un organismo finanziato dai paesi più industrializzati, è intervenuto ‘in soccorso di questo paesi, aiutandoli a pagare le rate di

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debito e interessi in scadenza - dunque in verità ‘salvando’ i creditori-, e imponendo loro politiche

‘di aggiustamento’ – la famosa “conditionality” - tali da realizzare un avanzo di bilancia commerciale. Tali politiche sono in genere consistite di una riduzione drastica delle importazioni effettuata indebolendo il tenore di vita e le possibilità di crescita di tali paesi. Per questa ragione le politiche di aggiustamento del FMI sono state oggetto di numerose critiche. Una volta ottenuto un Se positivo, questi paesi erano in grado pagare gli interessi e restituire il debito privato, ed anche quello all’FMI. Alle politiche di aggiustamento si accompagnavano in genere forme di

“rinegoziazione” del debito con forme, ad esempio, di dilazione nei pagamenti.

Dopo la crisi finanziaria del 1997-98 molti paesi in via di sviluppo hanno cercato di realizzare surplus di bilancia dei pagamenti. Questo è stato reso possibile dalla crescita dell’economia mondiale, in particolare dopo il 2001, trainata dalla domanda americana. Si è così sviluppato il paradosso di flussi di capitale dai paesi meno sviluppati verso l’economia americana (questa riflette una situazione pre-crisi. Gli studenti dovranno tuttavia osservare le assonanze fra questi eventi e quelli occorsi in Europa in cui esiti vediamo nella crisi in corso).

BOX Relazioni di contabilità nazionale in economia chiusa e aperta e crisi europea.

Riporto qui alcuni appunti che inviai a un tesista utili per porre in relazione le relazioni di contabilità nazionale in economia chiusa e aperta sopra studiate con crisi europea.

Dalla contabilità nazionale conosciamo la relazione: S-I=(G-T)+(X-M) ovvero (S - I) + (G- T) = saldo commerciale.

. La si può perfezionare tenendo conto dei redditi netti dall’estero (RNE) che si aggiungono (se positivi) o sottraggono (se negativi) al PIL (ottenendo il reddito nazionale lordo)

RNL=PIL+RNE. Allora:

RNL = C + I + G + (X-M)+RNE

RNL disp = RNL - T ovvero RNL = RNLdisp + T da cui

RNLdisp + T = C + I+G+(X-M)+RNE da cui

RNLdisp - C - I = (G-T)+ [(X-M)+RNE] = (G-T) + saldo partite correnti finalmente:

(S - I) + (G-T) = saldo partite correnti.

Cosa ci racconta.

In un paese ci sono solo due individui: il dott. P(ubblico) e il sig. M(ercato). Se P ha un debito con M, ovvio che M ha un credito con P e viceversa. Se al mondo ci sono solo loro due, non possono essere contemporaneamente in debito o in credito (possono ovviamente esser ambedue in pareggio). In termini delle ns equazione, in economia chiusa il saldo partite correnti neppure esiste, per cui S-I + G- T = 0. Se S > I e G > T il sig. M sta prestando soldi al dott. P.

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In economia aperta le cose cambiano. Entra Herr E(estero). Allora le combinazioni sono tante, per esempio:

- In Italia dott. P tende a indebitarsi (G>T), però il sig.M no (S>I). Tuttavia i crediti di M a P non coprono i debiti di P. Allora Herr E presta i soldi a P.

- paesi PIGS:1 P ed M ambedue fortemente indebitati, Herr E finanzia ambedue.

Ciò che ho scritto sono relazioni di flusso (S, I, G, T X, M, RNE). Flussi e stock sono legati.

Ad occhio la relazione di stock è:

- in mercato chiuso: POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA dott.P = POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA sig. M. (se uno ha stock di debiti, l'altro ha identici stock di crediti)

- in economia aperta POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA dott. P + POSIZIONE PATRIMONIALE NETTA sig. M. = Posizione netta sull’estero (PNE). Se P ha uno stock di debito di 100, e M uno stock di crediti di 50, il paese ha uno stock di debiti di 50.

1 Chi sono i PIGS? Se non lo sapete vuol dire che vivete fuori del mondo. E i GIPS? (hint: sono gli stessi paesi).

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Capitolo 2

Complementi alla prima delle Sei lezioni

Teoria del sovrappiù, mercantilismo, economisti classici 1. Il concetto di sovrappiù

Per sovrappiù sociale si intende quella quantità di beni di cui la società può liberamente disporre senza compromettere la riproduzione, di periodo in periodo, del processo produttivo sociale su scala immutata. E' in altre parole ciò che avanza dal processo produttivo (che si può supporre cominci al principio dell'anno e termini alla fine) una volta messo da parte ciò che è necessario per ricominciare il medesimo processo l'anno successivo. La teoria del sovrappiù è propria agli economisti classici e a Marx, e modernamente ripresa da Piero Sraffa, Pierangelo Garegnani, Luigi Pasinetti e altri. Facciamo tre ipotesi:

(a) ciclo produttivo annuale;

(b) mezzi di produzione interamente consumati nel corso dell'anno (cioè tutto il capitale è circolante);

(c) che i mezzi di produzione siano interamente riprodotti.

Supponiamo ora noti

1) il salario reale espresso come aggregato di merci;

2) il prodotto sociale annuo P pure espresso come aggregato di merci 3) le tecniche di produzione (in particolare il prodotto per lavoratore)

Conoscendo 2) e 3) possiamo ricavare il numero di lavoratori impiegato, e sulla base di 1) possiamo ottenere N o CONSUMO NECESSARIO, ovvero le anticipazioni che vanno assegnate ai lavoratori all'inizio del ciclo produttivo annuale (è la parte di P che va ai lavoratori).

Sottraendo N da P otteniamo il sovrappiù sociale (= quota del prodotto sociale diverso dai salari) come differenza fra quantità di merci.

P - N = S (I)

Il sovrappiù è dunque quella parte del prodotto sociale liberamente disponibile per l’economia, o per le classi sociali che hanno il controllo, ad essere consumata o investita (in questo caso occupando ulteriori lavoratori e dotandoli dei necessari beni capitali) senza mettere in discussione la riproduzione del sistema su scala almeno immutata. Laddove parte del sovrappiù fosse investita, l’economia crescerebbe, si riprodurrebbe cioè su scala allargata.

Come vedremo il concetto di sovrappiù sociale è proprio all’economia politica Classica che si sviluppa in Europa fra il XVII° e il principio del XIX° secolo.

Per saperne di più: P. Garegnani, Valore e distribuzione in Marx e negli economisti classici, in ID, Marx e gli economisti classici, Einaudi 1981, in particolare pp. 8-16.

E’ interessante come tale concetto sia centrale in un recente libro sullo sviluppo economico che ha avuto notevole successo fra gli intellettuali e il grande pubblico: Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie (Einaudi, 1998). In molti studi di antropologia economica l’emergere del sovrappiù col

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passaggio all’agricoltura e all’allevamento ha posto le basi della civilizzazione, ma anche dell’ingiustizia sociale. Infatti il sovrappiù consente che una parte della popolazione possa svolgere attività “superiori” senza l’affanno del procacciarsi la sussistenza. In tal modo può svilupparsi una classe politica, militare, sacerdotale, intellettuale e così via. Col sovrappiù sorgono le istituzioni, Stato e diritti di proprietà, per esempio. Sorge anche il commercio fra le diverse comunità, il commercio estero, insomma. Sorge anche, per evidenti motivi, l’ingiustizia sociale.

2. Come emerge il sovrappiù nella storia del pensiero economico: il mercantilismo

Il concetto di sovrappiù viene generalmente attribuito a William Petty (1623-1687) che può essere anche considerato come uno dei fondatori della moderna scienza economica, forse il primo ricercatore sistematico, teorico e pratico, sui temi dell’economia politica. Marx lo considerò il fondatore dell’economia politica classica. Tracce del concetto di sovrappiù si ritrovano tuttavia anche nella scuola Mercantilista, cui lo stesso Petty peraltro apparteneva, che fiorì in Europa nei secoli XVI°

e XVII° sino a metà del XVIII°.2 2.1. Il sovrappiù nel Mercantilismo

La letteratura mercantilista si sviluppa in secoli caratterizzati dalla rivalità fra le potenze economiche europee emergenti nel controllo dei commerci internazionali. Il Mercantilismo non è una scuola sistematica, ma la maggior parte degli studiosi ritiene che vi sia in questa letteratura una quantità di nozioni uniformi tali da far pensare a un filo rosso che lega i diversi autori. Semplificando molto, l’obiettivo dominante della politica economica e commerciale mercantilista è il perseguimento dell’avanzo o surplus commerciale (o sovrappiù esterno), X-M, cioè dell’eccedenza delle esportazioni X sulle importazioni M. L’idea di sovrappiù inteso come eccedenza del prodotto sociale rispetto alle sussistenze e ai capitali impiegati (o sovrappiù interno S), quale introdotto nella sezione 1, non è invece presente in maniera limpida nei mercantilisti, che però lo intravedono

2.2. Un surplus commerciale è un obiettivo importante?

In genere si ritiene che l’ossessione (o presunta tale) dei mercantilisti riguardo all’ottenimento di un surplus commerciale sia oggi un’idea priva di fondamento. In genere questa ossessione è stata giustificata con l’idea che un surplus commerciale avrebbe consentito un accumulo di ricchezze sotto forma di oro e metalli preziosi che avrebbero a sua volta garantito sicurezza al paese, per esempio in caso di conflitto, potendo essere impiegate per acquistare armi e derrate alimentari necessari a sostenerlo più a lungo dell’avversario.

2 La letteratura mercantilista è sterminata, e in genere con un inglese piuttosto ostico per noi stranieri (come vedrete da alcune citazioni). Ecco alcune fonti secondarie: Heckscher, E. (1955) Mercantilism, 2nd end, London George Allen & Unwin; Furniss, E. (1920) The Position of the Laborer in a System of Nationalism: a Study in the Labor Theories of the later English Mercantilists, Boston: Houghton Mifflin Company; Suviranta B. 1923 The Theory of Balance of Trade in England – A Study in Mercantilism, Annales Academiae Scientiarum Fennicae, B-XVII, Helsinki; Johnson, E.A.J. (1937) Predecessors of Adam Smith, London: P.S.King & Son.

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La critica che viene avanzata è che in tal modo il paese sacrifica il proprio benessere, consumando e investendo meno di quanto possibile al fine di realizzare un surplus esportabile e accumulare ricchezze. Se prendiamo l’equazione del reddito nazionale X = C + I + G + E –M, otteniamo X – (C + I + G) = E – M, in cui si vede che dato il prodotto lordo X, l’ammontare di surplus esportabile varia a seconda degli impieghi interni (che includono i consumi e gli investimenti).

Muovendo da una situazione di avanzo commerciale, un paese potrebbe ad esempio voler aumentare la crescita e lo stock di capitale investendo di più (quindi aumentando I) o investendo di più in istruzione pubblica (per cui aumenta G), azzerando in tal modo il surplus commerciale. La critica è corretta nel senso che la potenza di un paese certamente aumenta di più accumulando capitale o diffondendo l’istruzione piuttosto che accumulando ricchezze.

Implicitamente i mercantilisti ci possono star segnalando un problema opposto: è bene che un paese non abbia disavanzi commerciali pena un indebitamento crescente. Un paese che avesse una bilancia commerciale in disavanzo potrebbe alternativamente: a) diminuire i consumi e investimenti interni, ma questo nuocerebbe alla crescita, o b) cercare di aumentare le esportazioni e diminuire le importazioni. Quest’ultima strategia è certamente preferibile, anche se impervia. In questo senso i mercantilisti pongono quello che definiremo “vincolo esterno” al centro dell’attenzione: la necessità di mantenere nel lungo periodo la bilancia commerciale almeno in pareggio vincola l’ammontare di consumi e investimenti interni, e può dunque condizionare la crescita.

Nel tardo mercantilismo l’idea dell’importanza del sovrappiù commerciale è anche legata all’idea che quando importiamo beni stiamo pagando lavoro agli stranieri, mentre quando esportiamo sono loro a sostenere il nostro lavoro. E’ stata dunque attribuita ai mercantiisti una “balance of labour” che può esser definita come: LXLM= surplus-labour, dove LX e LM sono, rispettivamente, le quantità di lavoro complessivamente impiegate nella produzione (verticalmente integrata) 3 delle merci esportate e importate.

L’idea attribuita ai mercantilisti delle esportazioni come lavoro che gli stranieri ci pagano e delle importazioni come lavoro che noi paghiamo agli stranieri – un’idea di qualche popolarità – è in parte giusta e in parte sbagliata. Di giusto c’è che le esportazioni sono una componente della domanda aggregata (AD) e sostengono dunque output e occupazione – mentre viceversa le importazioni sono una sottrazione di AD ed è dunque domanda nazionale che si rivolge a merci e lavoro straniero. Di errato c’è che AD e occupazione possono essere sostenute anche consumando di più all’interno, dunque non esclusivamente importando di meno o esportando di più.

Riprendendo quanto già detto sopra, la questione può essere più correttamente così posta: le esportazioni hanno la doppia virtù di sostenere la AD e di finanziare il pagamento delle importazioni

3 Verticalmente integrata significa che la quantità di lavoro considerata include oltre che quella usata nella produzione diretta delle merci esportate, anche quella utilizzata indirettamente nella riproduzione dei beni capitali impiegati. In verità i beni esportati (importati) possono aver richiesto anche lavoro straniero (nazionale), per cui la quantità di lavoro richiesta direttamente e indirettamente per produrre i beni esportati (importati) dovrebbe essere al netto del lavoro straniero (nazionale) impiegato.

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necessarie per la produzione nazionale. Esportare oltre quanto necessario per finanziare le importazioni relative alla produzione nazionale obiettivo (per esempio quella di piena occupazione) sarebbe però uno spreco e una sottrazione ai consumi interni. Se X* è il prodotto di piena occupazione, m la propensione marginale a importare, le importazioni corrispondenti alla piena occupazione saranno M* = mX*. Il livello necessario di esportazioni è dunque E = M*. Esportare di più non avrebbe senso, almeno dal punto di vista della piena occupazione.Vale a dire, perseguire surplus commerciali per accumulare crediti verso l’estero equivarrebbe alla strategia dell’avaro che vive in maniera grama per accumulare ricchezza.

Un esempio può aiutare. Supponiamo che il reddito di piena occupazione di un paese sia X = 1000. Assumendo una propensione a importare m = 0,2, tale reddito potrebbe essere conseguito con le seguenti grandezze:

(1) X = C + I + G + (E – M) = 600 + 200 + 200 + (200 – 200) = 1000.

La bilancia commerciale sarebbe in equilibrio. Un paese mercantilista preferirebbe invece ottenere quel reddito con grandezze del tipo:

(2) X = 500 + 150 + 150 + (400 – 200) = 1000,

dunque con un avanzo commerciale di 200. In tal modo esso sacrifica il benessere interno diminuendo consumi, investimenti e spesa pubblica.

Come vedremo più avanti, la strategia mercantilista del surplus commerciale ha, tuttavia, un senso in una economia capitalistica in cui è conveniente per i capitalisti tenere bassi salari e consumi interni, realizzare un ampio surplus e, non potendolo consumare tutto in investimenti e beni di lusso, venderlo nei mercati esteri. Supponiamo che i capitalisti riducano i salari e che questo incida negativamente sui consumi poiché i capitalisti risparmiano gran parte dei maggiori profitti. Il mantenimento del reddito di piena occupazione X* implica ora che esportazioni superino le importazioni necessarie (E’ > M*) in modo che le maggiori vendite all’estero compensino la minore domanda di beni di consumo all’interno (riprendendo l’esempio si è passati dall’equazione 1 all’equazione 2). In questo senso più complesso i mercantilisti avevano ragione a identificare il surplus commerciale come creatore di lavoro.

Nel nostro esempio, se partendo dall’equilibrio descritto dall’equazione (1) si verificasse, per esempio attraverso “riforme” del mercato del lavoro, un calo dei salari e dei consumi a 400, i profitti aumenterebbero ovviamente a 200, ma chi acquisterebbe la corrispondente parte di produzione nell’ipotesi che i capitalisti consumino solo in piccola parte i propri profitti? La collocazione all’estero attraverso 200 di maggiori esportazioni, se riesce, sarebbe l’unica via alternativa, sicché un nuovo equilibrio sarebbe:

(3) X = C + I + G + (E – M) = 400 + 200 + 200 + (400 – 200) = 1000

con un surplus commerciale di 200. Tale surplus corrisponde ai maggiori profitti dei capitalisti che in tal modo li “realizzano”. Al surplus corrisponde un maggior credito netto verso l’estero ovvero

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l’importazione netta di oro o valuta pregiata (tecnicamente si verifica un miglioramento della posizione netta sull’estero del paese).

2.3. Il coordinamento fra i due surplus

Il coordinamento fra i due surplus può essere così sintetizzato (NB: talvolta il prodotto lordo è indicato con X altre volte con P). Come sappiamo da sopra: P=N +S (N si ricordi rappresenta le necessities). Poiché inoltre: P=N +Cc+I + E−M , dove Cc sono i consumi dei capitalisti e I l’accumulazione di capitale, si ha S=Cc+I +E−M , e se Cc e I sono zero, per semplicità,

S=E−M .4

Più in generale, S = Cc + I + (E – M), cioè il sovrappiù dei capitalisti trova impiego (viene

“realizzato”) nei consumi di lusso (Cc), nell’accumulazione di capitale (I) e nel surplus commerciale.

Capitolo 3

Complementi al capitolo 2 delle Sei lezioni

Distribuzione “armonica” del reddito, determinazione di occupazione e reddito nazionale, ruolo della politica monetaria nell’economia marginalista

2.1. Origini della teoria marginalista o neoclassica9

Negli ultimi trent'anni del XIX° secolo si afferma la teoria economica "marginalista"

radicalmente diversa da quella antecedente Classica di Smith e Ricardo. Elemento centrale di tale teoria era l’idea che non vi fosse una distribuzione del reddito “naturale” fra le classi sociali – ovvero oggettivamente dettata da qualche legge iscritta nelle cose -, ma che essa dipendesse dai rapporti di forza fra le stesse classi. Questa impostazione era già stata corrotta da autori di poco successivi a David Ricardo. Altri autori, come i socialisti ricardiani e Marx, avevano invece tratto dall'impostazione teorica classica implicazioni piuttosto radicali circa la natura della distribuzione del reddito nella società capitalista, implicazioni tanto più pericolose per lo status quo in quanto fondate sulle analisi di colui che era considerato il più grande degli economisti borghesi, David Ricardo. Quanto la teoria marginalista sia stata una risposta a tali implicazioni è un problema aperto. La questione più scottante era, evidentemente, quella dell'origine dei profitti, "residuale"

secondo la teoria classica (ciò che rimaneva del prodotto sociale una volta detratti i salari per i lavoratori); legata al "sacrificio" che comporta l'accumulazione di capitale (sacrificio in termini di rinuncia a consumare il prodotto allo scopo di investirlo) secondo la nuova impostazione. Il termine oggi in voga per definire il marginalismo è di teoria "neo-classica" in seguito al tentativo, soprattutto dell'economista inglese Alfred Marshall (1842-1924), fra i fondatori del marginalismo,

4 Tali relazioni non possono non ricordarci quelle di Luxemburg-Kalecki, che studieremo più avanti, il quale vede nel surplus esterno, nelle esportazioni nette, una maniera di realizzare il sovrappiù non consumato dai capitalisti medesimi. Il lettore non confonda il simbolo S, qui rappresentante il sovrappiù, con i risparmi, altrove indicati col medesimo simbolo.

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di rivendicare una continuità fra la vecchia impostazione (Classica) e la nuova. Chi ritenga però che tale continuità abbia scarso fondamento, farà bene ad usare il termine "teoria neoclassica" con molta consapevolezza. In voga per definire la teoria marginalista, soprattutto nei moderni manuali di macroeconomia, è anche il termine di teoria “classica” – termine che invero introdusse lo stesso Keynes per definire la teoria tradizionale -, quasi ad abolire del tutto la distinzione fra gli economisti classici (Smith e Ricardo) ed i marginalisti. Uno studente universitario saprà ben distinguere a seconda del contesto i casi in cui “classici” si riferisce agli economisti classici

9 v. P.Garegnani e F.Petri, Marxismo e teoria economica oggi, in AA.VV. Storia del Marxismo, Einaudi, sez.

1 (parti a, c) e M.Pivetti, Economia Politica, Laterza, cap.1.

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propriamente detti da quelli in cui si riferisce ai fondatori del marginalismo. Ovviamente in questo manuale il termine “classici” verrà impiegato nella prima, più corretta, accezione.

Nei manuali standard di Istituzioni di economia e di microeconomia si dà grande rilievo alla teoria neoclassica dei prezzi. E’ francamente una delle parti meno eccitanti dell’economia politica,10 e non aggiunge molto all’analisi macroeconomica neoclassica. Per cui ci occuperemo prima di quest’ultima, e poi per dovere di completezza nel cap.5 della microeconomia neoclassica.

Curiosamente aiutiamo in ciò l’economia neoclassica: essa è infatti rigorosamente valida solo in un mondo a un solo bene. Per esulare dal problema dei prezzi relativi faremo proprio questa assunzione.

L’obiettivo che ci riproponiamo è dunque di studiare la determinazione della distribuzione e del reddito nazionale (o prodotto nazionale) secondo gli economisti marginalisti. Al cuore di tale determinazione vi sono, di nuovo, curve di domanda e offerta, non dei beni però, ma dei ‘fattori produttivi (capitale e lavoro per semplicità). L’offerta dei fattori (come il lavoro, il capitale [risparmio], le terre) proviene dalle famiglie. La domanda di fattori proviene dalle imprese sulla base della loro convenienza ad utilizzarne di più o di meno. Dall’incrocio di domanda e offerta otteniamo il prezzo di ciascun fattore (in particolare: salario per il lavoro, saggio di profitto per il capitale) e la quantità di esso utilizzata in produzione. Conoscendo la quantità di fattori utilizzata in produzione veniamo anche a conoscere la quantità di prodotto nazionale.

Come si vede per gli economisti marginalisti, la determinazione di reddito e distribuzione è simultanea, per cui l’una influenza l’altra - per esempio se i salari non sono quelli di equilibrio, ciò influenza direttamente i livelli di impiego del lavoro e della produzione. Nell’approccio Classico, invece, la determinazione della distribuzione non è automaticamente connessa a quella del reddito nazionale (per cui, per esempio, i salari reali possono variare senza che ciò abbia effetti automatici sulla produzione).

Supporremo dunque una economia in cui è prodotto un solo bene, per esempio grano.

Questo semplifica molto l'esposizione e ci permette di concentrarci sul problema della teoria marginalista della distribuzione e del livello del reddito esulando la teoria marginalista dei prezzi di cui è necessario occuparsi per misurare il reddito in un mondo a più beni.11 Della teoria dei prezzi ci occuperemo nel cap.5.

10 Il resto lo è, parola di Oscar Wilde: “Miss Prims: ...Cecily, you will read your Political

Economy in my absence. The chapter on the Fall of the Rupee you may omit. It is somewhat too sensational. Even these metallic problems have their melodramatic side.” Da The Importance of Being Earnest.

11 A rigore non si tratta neppure di una mera semplificazione in quanto più recenti sviluppi teorici hanno mostrato che le conclusioni della teoria marginalista sono validi esclusivamente in un mondo a un solo bene. Esamineremo questo punto più avanti.

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2.1.1. Fattori e funzione di produzione

I requisiti della produzione, cioè le risorse che con le tecnologie socialmente disponibili sono necessarie per ottenere il prodotto sociale, sono dette dai teorici marginalisti "fattori della produzione".

La funzione di produzione è un concetto centrale della teoria neoclassica. Indicando con Y la quantità di prodotto (grano nel nostro caso semplificato), con K ed L i fattori della produzione, rispettivamente "capitale" (misurato qui come quantità di grano) e lavoro (misurato in unità lavorative), l'espressione

Y = F(K, L)

indica che la quantità di prodotto ottenibile è funzione della quantità di fattori impiegata. Se le quantità disponibili di K ed L sono date, allora è la tecnologica, rappresentata dal termine "F", a dettare la quantità di prodotto ottenibile. D'altra parte, dato un certo obiettivo di produzione, Y=Y*, l'ipotesi più generale che si possa fare è che questo sia raggiungibile attraverso diverse combinazioni di K ed L (per esempio con "tanto" K e "poco" L, o viceversa).

In questa teoria si assume che i rendimenti di scala siano costanti. Rendimenti di scala costanti significa che se accresciamo di una medesima proporzione (per esempio raddoppiamo) la quantità dei fattori, il prodotto aumenterà della medesima proporzione (raddoppia). Assumere rendimenti crescenti (decrescenti) implicherebbe invece che la quantità di prodotto potrebbe accrescersi in maniera più (meno) che proporzionale. Si assumono rendimenti di scala costanti per ragioni complicate. Una ragione intuitiva è che vogliamo studiare come varia la produzione al variare della proporzione relativa di ciascuno dei fattori utilizzati in produzione tenuta costante la quantità impiegata degli altri (per esempio aumentando la quantità di lavoro data la quantità di capitale). Ma quando accresciamo la quantità anche di un solo fattore varia la scala della produzione. Con rendimenti di scala crescenti parte dell’aumento della produzione è attribuibile all’”effetto di scala” e non al mero aumento del fattore considerato.12

22.1.2. Offerta di fattori

Supporremo che nella nostra economia l'offerta di fattori, lavoro e "capitale-grano" sia data, e per esprimerlo scriveremo K = K* e L = L*. Rammentando che il saggio di profitto, r, è la

12 La funzione di produzione in forma analitica più nota ed usata dagli economisti neoclassici è quella Cobb- Douglas, che qui esprimiamo nell’ipotesi di rendimenti di scala costanti per cui la somma degli esponenti di K ed L deve essere 1: Y  AKL1. In questa funzione A rappresenta il livello tecnologico.  rappresenta

la quota del prodotto che va a redditi da capitale;

1   è invece la quota che va a redditi da lavoro.

Poiché

  (1   )  1 tutto il prodotto si esaurisce in profitto e salari.

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remunerazione del fattore "capitale"13, e w quella del fattore lavoro, la nostra supposizione può essere espressa dicendo che l'offerta dei due fattori è rigida, cioè non varia al variare della loro remunerazione - come sarebbe se, per esempio, quando aumenta il salario si offrisse più lavoro o se all'aumentare del saggio di profitto aumentasse l'offerta di capitale-grano.14 Graficamente questo è illustrato dalla figura 1:

13 Useremo in maniera intercambiabile la dizione tasso di profitto o tasso di interesse

rammentando come dietro un capitale "reale" vi sia sempre un capitale finanziario.

14 Le quantità offerte di fattori, e la relativa remunerazione, sono relative all’unità di tempo prescelta. Così L può misurare i mesi-lavoro offerti al variare del salario mensile w; K potrebbe misurare la quantità di risparmio offerta annualmente al variare del tasso di interesse annuo i.

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In effetti curve di offerta dei fattori “rigide” sono più plausibili di quelle crescenti, che pur utilizzeremo. L’offerta di lavoro dipende infatti, almeno sopra un dato livello di salario considerato il minimo “dignitoso”, dalla necessità di lavorare, e non tanto dalla prospettiva di salari sempre più elevati. Così l’offerta di capitale (risparmio) dipende soprattutto dal reddito della famiglia che risparmierà, se potrà, per motivi precauzionali, vecchiaia e così via, e non tanto dal tasso di interesse percepito.

E' molto importante osservare che in questa economia semplificata l'offerta di "capitale- grano" coincide con il risparmio offerto nell'unità di tempo considerata. Si rammenti che i risparmi sono la parte del prodotto sociale non consumata:

S = Y - C.

Nella nostra economia semplificata di solo grano S = K*. Ci si può raffigurare questa economia come una in cui a fine anno la parte del prodotto sociale Y non consumata come grano- farina viene "risparmiata" e offerta come "capitale-sementi" per la produzione dell'anno successivo.

Lo studente continui ad identificare l’offerta di capitale con l’offerta di risparmio anche fuori la metafora dell’economia-grano.15

Nei riguardi della curva di offerta di lavoro, l’abbiamo espressa come funzione di w, in simboli L0  L0 (w) , cioè del salario nominale (o monetario) in quanto c’è un unico bene, il grano, il cui prezzo è posto uguale ad 1 (per cui il salario reale è w/p = w/1 = w). In generale tuttavia, con più beni, si deve scrivere L0  L0 (w / p), dove p è un indice dei prezzi, in quanto i lavoratori quando offrono lavoro guardano al salario reale e non a quello nominale. Se si suppone che

una funzione crescente di w/p, la curva di offerta di lavoro avrà la forma della figura 2.

L0 sia

15 Anche laddove si considerassero, fuori dalla metafora dell’economia-grano, dei capitali fissi (vanghe, trattori ecc.), tali capitali avrebbero comunque la natura, nella visione neoclassica, di risparmi accumulati.

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Spesso anche la curva di offerta del capitale (risparmio) viene tracciata crescente rispetto al tasso di interesse (lo faremo anche noi).

2.2. La domanda di fattori produttivi da parte della singola impresa: il prodotto marginale

4.2.1. Il prodotto marginale

Dal concetto di funzione di produzione discende quello di prodotto marginale. Questo è un concetto importantissimo per i neoclassici. Matematicamente esso è la derivata parziale della funzione di produzione rispetto a un fattore produttivo. Vediamo economicamente.

Supponiamo che in una impresa sia data la quantità di capitale - nella nostra economia il capitale consiste di solo grano da usarsi come semente - e che l'imprenditore debba decidere quanto lavoro impiegare. La parte superiore della figura 3 mostra come varia la quantità totale di prodotto che si ottiene al variare della quantità applicata del L (fattore variabile) data una certa quantità del K (fattore fisso). Si può osservare come gli incrementi di prodotto totale ottenuti da successivi incrementi unitari del fattore variabile siano progressivamente più piccoli. Per esempio (v. tabella 1), dato un capitale-grano complessivo di 20 quintali, all’inizio l’impiego di un lavoratore fa accrescere il prodotto totale di 10 quintali di grano, un secondo lavoratore di 11 q, e via dicendo, sino al punto A del grafico. Questo è giustificato sostenendo che l’aumento progressivo dei lavoratori consente una migliore organizzazione del lavoro, suddivisione delle mansioni ecc. che migliora i risultati della semina del dato capitale-grano - si noti che qualitativamente i lavoratori sono per ipotesi tutti egualmente capaci. Proseguendo nell’impiego del lavoro, l’incremento di produzione attribuibile a ciascun lavoratore aggiuntivo è tuttavia progressivamente più piccolo. I

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vantaggi della migliore organizzazione cominciano infatti a scemare, anzi forse troppi lavoratori cominciano ad affollarsi e il prodotto marginale potrebbe addirittura diventare negativo.

Nell’esempio il sesto lavoratore aggiunge 15 quintali alla produzione, quello successivo aggiunge solo 14, uno ulteriore solo 13 e così via. Questi incrementi sono i prodotti marginali. Essi vengono indicati in ordinata nella parte inferiore della figura 3, ottenendo la funzione del prodotto marginale.16

Economicamente l’andamento del prodotto marginale, prima crescente e poi decrescente, si può dunque giustificare in quanto dosi successive di lavoro sono applicate a una quantità costante di capitale o di terra (che costituiscono i “fattori fissi”). Per esempio due lavoratori seminano il grano disponibile meglio di uno, tre ancor meglio ecc, ma gli incrementi di prodotto ottenuti da ciascun lavoratore aggiuntivo sono prima crescenti, poi quando i lavoratori cominciamo a diventare molto numerosi, magari si intralciano a vicenda, coordinarli diventa più difficile ecc, gli incrementi cominciano a divenire sempre più piccoli. Come si vede, il massimo del prodotto marginale è in corrispondenza al punto di cambiamento di concavità della funzione del prodotto totale (matematicamente un punto di flesso).

Nell'ipotesi, dunque, di costanza della quantità di capitale (e di altri eventuali fattori fissi) è plausibile ritenere che, almeno da un certo punto in poi, ogni lavoratore aggiuntivo aggiunga al prodotto meno del lavoratore precedente. L'incremento di output ottenuto da un incremento del fattore lavoro dato il fattore costante è detto prodotto marginale del lavoro (Pml). Matematicamente il Pml è la derivata parziale Il prodotto marginale del lavoro è l'incremento di prodotto (per unità di tempo) ottenuto incrementando la quantità di lavoro di una unità, data la quantità di capitale (e di altri eventuali fattori fissi).

Nella figura 3 è anche mostrata la funzione del prodotto medio (cioè del prodotto per lavoratore). Essa cresce nel primo tratto, in quanto riflette il fatto che ciascun nuovo lavoratore aggiunge al prodotto totale più dell’unità precedente, dunque il prodotto medio cresce.

Nell’esempio, se il prodotto marginale del primo lavoratore era 10 q e del secondo 11q, il prodotto medio è chiaramente 10,5q (v. la tabella 1). Graficamente la funzione del prodotto medio ha il suo massimo dove essa incrocia la curva del prodotto marginale, a destra del massimo del prodotto marginale. Intuitivamente: il prodotto medio continua a crescere anche quando il prodotto marginale comincia a diminuire perché in quella ‘zona’ i prodotti marginali continuano ad essere relativamente elevati rispetto a quelli relativi alle dosi iniziali e finali di lavoro, e la media continua

16 La studentessa provi a riportare i valori della tabella su un foglio quadrettato ottenendo le curve precise.

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a salire, almeno per un po’. Nell’esempio il PM è massimo in corrispondenza di 8 lavoratori con un valore di 12,8 approssimativamente uguale al Pm che è 13.

Tabella 1 - Prodotto marginale e medio (capitale dato 20 q di sementi)

Quantità Prodotto Prodotto Prodotto rapporto K/L lavoro margin ale tot ale M edio (tecnica )

1 10 10 10,0 20,0

2 11 21 10,5 10,0

3 12 33 11,0 6,7

4 13 46 11,5 5,0

5 14 60 12,0 4,0

6 15 75 12,5 3,3

7 14 89 12,7 2,9

8 13 102 12,8 2,5

9 12 114 12,7 2,2

10 11 125 12,5 2,0

11 10 135 12,3 1,8

12 9 144 12 1,7

13 8 152 11,7 1,5

14 7 159 11,4 1,4

In corrispondenza del massimo del prodotto medio vi sarà un certo rapporto capitale/lavoratore. Nell’esempio abbiamo supposto che il capitale dato (il fattore fisso) sia 20 q di grano-sementi, e che in corrispondenza del massimo del prodotto medio l’impresa stia impiegando 8 lavoratori. Ciascuno utilizzerà 2,5 q di sementi, il capitale per lavoratore è cioè 2,5. Vi è allora da ritenere che l’impresa, i cui ingegneri sanno che il massimo prodotto medio – dunque la tecnica più efficiente - si ottiene dotando ciascun lavoratore di 2,5 q di sementi, sin dall’inizio adotti questa tecnica di produzione. Ecco dunque la linea orizzontale in neretto, la quale indica che sin dall’inizio l’impresa impiega il rapporto K/L = 2,5 che massimizza il prodotto medio. Nel tracciare la curva del prodotto marginale, avevamo invece supposto che il primo lavoratore utilizzasse da solo tutti e 20 i q. di sementi, poi quando i lavoratori diventavano due questi ne impiegassero 10 q cadauno ecc., un modo di procedere chiaramente non razionale: infatti il loro prodotto medio risulterebbe minore di quello ottenibile se l’impresa assegnasse la dotazione individuale ottimale di 2,5 q.

cadauno fin dall’inizio della produzione. Si conclude allora, a differenza della totalità dei libri di testo,17 che la curva del prodotto marginale che rileva per ricavare la curva di domanda di lavoro consiste dei tratti in grassetto della figura: il tratto orizzontale del prodotto medio più una parte

17 Tranne Pivetti, op.cit. L’analisi di Pivetti si rifà ad un punto di un famoso contributo di Piero Sraffa del

1925 pubblicato in italiano, e poi riassunto in inglese su invito di Keynes e pubblicato sull’Economic Journal

del 1926.

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decrescente della funzione originaria del prodotto marginale. A ben vedere, infatti, se l’impresa sin dall’inizio adotta il rapporto K/L che massimizza il prodotto medio, sino al punto B prodotto medio e marginale coincidono. Nell’esempio, sino al punto B (8 lavoratori) ciascun lavoratore aggiunge alla produzione la medesima quantità del compagno che lo ha preceduto.

(28)

La curva del prodotto marginale può dunque essere tracciata come nella figura 4, in corrispondenza delle parti in neretto della figura precedente:

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Ora possiamo determinare la quantità di lavoro domandata dall'impresa. Questa conosce, per esempio dai contratti di lavoro o dalle consuetudini prevalenti in quel periodo, il salario per unità di lavoro (e per unità di tempo come giorno o mese e misurato in grano) vigente nel mercato del lavoro. L'impresa avrà convenienza a impiegare lavoro fintanto che un lavoratore aggiunge al prodotto, cioè ha un prodotto marginale, almeno pari al suo costo, cioè al salario. Dunque l'impresa domanderà una quantità di lavoro in corrispondenza all'eguaglianza Pml = w. Nel nostro esempio se il salario fosse 10 l’impresa affitterebbe 11 lavoratori. L’undicesimo lavoratore rende infatti all’impresa precisamente quanto è pagato (Pm = 11, w = 11). Se il salario scendesse a 9, l’impresa domanderebbe 12 lavoratori, e così via. Il tratto decrescente della curva del prodotto marginale è dunque la curva di domanda di lavoro dell’impresa (figura 5).

Si osservi che ciascuna unità di lavoro precedente a L* rende più di quanto è pagata. L'area wAB consiste dunque dei profitti d'impresa. L'area OwBL* è il monte salari, ovvero W=wL.

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Vediamo un altro esempio (figura 6). Supponiamo che l’impresa che abbia un certo ammontare di terra (per esempio 100 ettari), che consideriamo come il fattore tenuto fisso. Il rapporto terra/lavoro che massimizza il prodotto medio di 10 ettari per lavoratore, cioè 10T/1L.

L’impresa adotta questo rapporto dall’inizio e ottiene un prodotto pro-capite di 10 q. L’impresa comincia ad impiegare prima un lavoratore, poi due e così via, tutti della medesima efficienza. Sia il salario per giornata lavorativa pari a 8 q di grano. Supponiamo che l’inserimento di un lavoratore consenta alla produzione di balzare da zero (quando non si utilizza lavoro) a 10 q al giorno.

Impiegando anche un secondo lavoratore la produzione aumenta. Il secondo lavoratore aggiunge 10 q giornalieri al prodotto (ora il prodotto totale è di 20 q), e via dicendo. E’ evidente che quando l’impresa impiegherà l’11mo lavoratore, essa dovrà abbassare il rapporto T/L ottimale (ha infatti solo 100 ettari di T). Per esempio, l’11mo lavoratore avrà un prodotto marginale di 9 q. Quanti lavoratori impiegherà l’impresa? Supponiamo che il 14mo lavoratore aggiunga al prodotto 8,1 q, mentre il 15mo aggiunge solo 7,9 q. L’impresa, poiché paga ciascun lavoratore 8 q, avrà convenienza ad impiegare 14 lavoratori, in quanto il 12mo gli costerebbe al giorno più di quanto gli rende.

La stessa analisi potrà essere ripetuta considerando il lavoro in quantità fissa, per esempio supponendo che l’impresa abbia a disposizione una squadra di 20 lavoratori, e studiando quanta terra le converrà impiegare.

Nei fatti, quando tracciamo la curva di domanda di lavoro consideriamo solo il tratto decrescente della curva del prodotto marginale. Se variasse il salario di mercato, varierebbe la domanda di lavoro dell'impresa. Come si vede, sulla scorta del concetto di prodotto marginale del

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lavoro gli economisti marginalisti ritengono di poter affermare che fra livello del salario reale e domanda di lavoro, e dunque occupazione, vi sia una relazione inversa.

2.2.2. Posizione e inclinazione della curva

Cosa accadrebbe alla curva di domanda di lavoro se la quantità di fattore fisso disponibile aumentasse? Chiaramente il tratto orizzontale si prolungherebbe. Per esempio, se la quantità di terra diventasse 120 ettari il tratto orizzontale si prolungherebbe sino a L = 12, in quanto 12 lavoratori sono ora impiegabili col rapporto T/L che massimizza il prodotto medio. Inoltre, il tratto decrescente scenderebbe più dolcemente. Quando viene impiegato il 13° lavoratore, infatti, il rapporto T/L (=120/13) si allontana più lentamente dal rapporto ottimale (=120/12) di quanto accadeva quando T = 100. In quel caso quando veniva impiegato l’11° lavoratore T/L = 100/11<120/13. Il prodotto marginale, di conseguenza, decresce più lentamente. Quindi la posizione nello spazio (più a destra o più a sinistra) e la pendenza della curva di domanda di lavoro dipendono dalla dotazione degli altri fattori produttivi.

Cosa accadrebbe se vi fosse progresso tecnico? Questo implicherebbe che i prodotti medi e marginali sarebbero tutti più elevati. Dunque la funzione del prodotto marginale sarebbe più elevata nel tratto orizzontale, e decrescerebbe più lentamente (il tratto decrescente sarebbe meno ripido). A parità di salario l’impresa impiegherà più del fattore lavoro. Inoltre, anticipando alcuni elementi che spiegheremo fra poco, data l’offerta di lavoro, il fatto che le curve di domanda di lavoro delle imprese, e dunque quella collettiva, si spostino a destra, implica che il salario di equilibrio sarà più elevato (dunque, in questa teoria, il salario beneficerà del progresso tecnico).

Esercizi

1. Il prodotto marginale del lavoro diventa a un certo punto decrescente: perché?

(a) si impiegano lavoratori via via meno capaci; (b) si utilizzano quantità del fattore tenuto fisso di qualità decrescente; (c) vi sono rendimenti di scala decrescenti; (d) vi sono fattori considerati dati in quantità fissa; (e) i lavoratori chiedono salari più elevati. (una sola risposta esatta) 2. Nell’esempio con la terra, se il salario scendesse a 7,8 q., quanti lavoratori impiegherebbe l’impresa? E se il salario salisse a 10,1 q.?

Una analisi del tutto simile a quella che ci ha condotto alla curva di domanda di lavoro può essere svolta nei confronti del capitale. Si tratta in questo caso di tracciare la curva del prodotto marginale del capitale considerando come data la quantità di lavoro e ottenendo una funzione come quella raffigurata nella figura 7.

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