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La presenza incombente della loggia massonica P2

Nel documento principio attivo Inchieste e reportage (pagine 23-47)

1. I tre fattori storici peculiari alla base dell’Italia occulta

Alcuni fattori storici piuttosto singolari hanno reso questo nostro paese sensibilmente diverso da tutte le altre democrazie dell’Eu-ropa occidentale.

Anzitutto le mafie storiche. Secondo alcuni studiosi, tra cui Nicola Tranfaglia, esse hanno una matrice comune che si è sviluppata lentamente a partire da diversi secoli fa, quando il Mezzogiorno era formalmente dominato da potenze straniere le cui capitali erano molto distanti e i cui domini territoriali erano molto estesi: i bizantini, gli arabi, gli spagnoli. Anche questi Stati assoluti del passato avevano una loro legalità ed erano più o meno in grado di far rispettare le leggi. Però con notevoli eccezioni:

avendo domini così estesi, riuscivano a esercitare l’autorità e a far rispettare le leggi solo nei territori più facilmente raggiungibili, e non nelle aree geografiche lontane dalla Capitale.1

La Sicilia e la Calabria, in particolare, si sono trovate per lunghi periodi di tempo in questo tipo di situazione. Con la

1 Nicola Tranfaglia, La mafia come metodo nell’Italia contemporanea, La-terza, Roma-Bari 1991, pp. 11 segg. e 23, ripubblicato da Mondadori, Milano 2012. Sull’origine comune delle mafie storiche concorda anche Isaia Sales, Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 64-71, il quale ritiene però che l’origine comune non risalga a epoca così remota.

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conseguenza che, per molti secoli, non c’è stata nelle due regioni nessuna autorità statale che fosse capace di tenere sotto controllo il territorio.2 In questo lunghissimo vuoto di potere legale, sono nati gruppi spontanei dotati di un potere di fatto, che hanno preso il posto dell’autorità statale assente, imponendo la propria legge personale basata su intimidazione, violenza e sopraffazione.

Da questo seme è germogliato e si è sviluppato gradualmente il potere illegale delle mafie storiche.

La situazione è stata poi ereditata dai Borboni del Regno delle Due Sicilie, che non hanno saputo farvi fronte e che anzi hanno aggravato la situazione, tra l’altro delegando funzioni di ordine pubblico alla camorra, che in origine era semplicemente un fenomeno di delinquenza urbana dei bassifondi di Napoli. In questo modo la camorra si è consolidata e sviluppata, ottenendo a poco a poco la promozione a terza mafia del nostro paese.

Il radicamento di mafie storiche dure a morire e la commistione di fatto, durata troppo a lungo, tra potere formale e potere cri-minale hanno avuto per il nostro paese conseguenze devastanti, senza pari in nessun altro luogo dell’Europa occidentale. Questa è la prima differenza sostanziale tra l’Italia e gli altri paesi europei.

La seconda grande peculiarità del nostro paese è il fatto di avere avuto mille anni di papa re. Lo Stato della Chiesa ha avuto certamente il pregio di contribuire a far sì che Roma diventasse una delle più belle città del mondo, se non la più bella, ma ha contribuito anche a ritardare di molto il momento in cui i sudditi acquisiscono la consapevolezza che consente loro di diventare cittadini, attenti agli interessi della collettività e dotati di un proprio senso delle istituzioni. È forse una conseguenza di questa peculiarità storica il fatto che in Italia l’educazione civica nelle scuole sia sempre stata una Cenerentola.

2 In altre aree geografiche, come la Lombardia sotto la dominazione spa-gnola e l’Andalusia sotto la dominazione araba, la situazione di sostanzia-le assenza dell’autorità statasostanzia-le fu di più breve durata, il che può spiegare come mai non sia nata una mafia locale in quelle due regioni.

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Inoltre – va detto con franchezza – il millennio pontificio ha prodotto altri lasciti ingombranti che hanno influito in modo determinante, attraverso la presenza dello Stato-Città del Vati-cano nel cuore di Roma, sul percorso storico-politico del nostro paese dal 1870 sino a oggi. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ma basterà qui menzionare il ruolo deleterio (su cui questo libro avrà modo di soffermarsi) che ha assunto nella storia italiana del secondo Novecento lo Ior (Istituto per le opere di religione), la banca vaticana di cui l’arcivescovo Paul Marcinkus è stato presidente dal 1971 al 1989.3* È stato accertato infatti che lo Ior ha intrattenuto rapporti intensi con il sistema di potere occulto della loggia massonica Propaganda 2 (P2) di Licio Gelli e del suo cervello finanziario Umberto Ortolani; con la finanza d’avventura di Michele Sindona e Roberto Calvi, affiliati alla loggia P2; nonché – attraverso i massicci riciclaggi di denaro mafioso gestiti da questi ultimi – con la Cosa Nostra siciliana e siculo-americana. Anche su tutto ciò questo libro avrà modo di soffermarsi.

Terza importante peculiarità italiana è quella di avere avuto, proprio sul confine determinato a Yalta,4* il più grande Partito

3* L’Istituto per le opere di religione è un istituto pontificio di diritto privato che ha sede nella Città del Vaticano. La definizione che dà di sé e dei suoi scopi nel sito ufficiale (www.ior.va) è questa: «Un ente della Santa Sede, eretto con Chirografo di Sua Santità Pio XII il 27 giugno 1942. Le sue origini risalgono alla “Commissione ad pias causas” istituita dal Sommo Pontefice Leone XIII nel 1887. La missione dell’Istituto […] consiste nel

“provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati all’Istituto medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e di carità. L’Istituto può accettare depositi di beni da parte di enti e persone della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”». L’arcivescovo statunitense Paul Casimir Marcinkus (1922-2006), presidente dello Ior negli anni presi in considerazione da questo libro, ha avuto intensi rapporti con Gelli, Ortolani, Sindona e Calvi.

4* La Conferenza di Yalta fu un vertice tenutosi dal 4 all’11 febbraio 1945 nel quale i capi politici dei tre principali paesi Alleati (Roosevelt per gli Stati

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comunista del mondo occidentale. Anche questa è stata una peculiarità carica di conseguenze. Dopo Yalta – e quindi dopo la caduta del fascismo – la presenza in Italia di un Partito comunista così forte (e che nei primi lustri guardava in effetti con simpatia al blocco sovietico) ha suscitato gravissime preoccupazioni negli ambienti della Nato.5* In quel contesto, paradossalmente, le mafie storiche e altri fenomeni di antistato, nemici della nuova Costituzione, si son visti attribuire – e si sono attribuiti – un ruolo di prezioso baluardo anticomunista.

Hanno cominciato gli americani, benemeriti per averci aiutato a liberarci dalla dittatura, che però, dopo lo sbarco in Sicilia, hanno contribuito a consegnare vari comuni siciliani e calabresi nelle mani di sindaci che erano i boss mafiosi locali, per evitare il più possibile il rischio di aprire la strada a sindaci comunisti.6 È stato un fatto che ha conferito alle mafie storiche una tremenda forza di inserimento nei gangli del nuovo Stato, che già nasceva

Uniti, Churchill per il Regno Unito e Stalin per l’Unione Sovietica) presero alcune decisioni importanti sul proseguimento della Seconda guerra mon-diale, sull’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sull’as-setto postbellico dell’Europa dopo la sconfitta della Germania nazista.

5* La Nato (North Atlantic Treaty Organization, ovvero Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, in sigla Otan) è un’organizzazione in-ternazionale per la collaborazione nel settore della difesa, istituita con il Patto Atlantico firmato da Stati Uniti, Canada e vari paesi dell’Europa occidentale nel 1949. La Nato ha rappresentato, nel corso della Guerra fredda, il cosiddetto blocco occidentale contrapposto al blocco sovietico.

6 «Gli alleati, gli americani, soprattutto, sono stati determinanti nella ri-composizione della mafia, l’hanno politicamente avallata, se ne sono ser-viti con cinismo. Ma mancano certi riscontri, difettano, non per caso, fonti e particolari» (Corrado Stajano, Patrie smarrite. Racconto di un ita-liano, Il Saggiatore, Milano 2018, p. 82). Lo storico siciliano Rosario Mangiameli ha invece ridimensionato la responsabilità americana nelle nomine di sindaci mafiosi in Sicilia, sostenendo che queste «non erano avvenute per volontà dei comandi americani […], ma erano state ispirate da interlocutori locali» (Rosario Mangiameli, In guerra con la storia. La mafia al cinema e altri racconti, «Meridiana», 87, 2016, pp. 231-243).

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in un paese messo a dura prova dal ventennio fascista e dalle pesanti conseguenze belliche.

Successivamente, come si vedrà, sono nati altri meccanismi destinati a prolungare il più possibile l’isolamento e la lontananza dal potere del temuto Partito comunista italiano (Pci). Meccanismi che hanno variamente continuato a esistere e operare, per mante-nere in vita il cosiddetto fattore K (dal russo Kommunizm),7 anche quando ormai, a partire dai tempi della Primavera di Praga,8* il

7 L’espressione «fattore K» venne utilizzata per la prima volta dal giornalista Alberto Ronchey (1926-2010) in un editoriale del «Corriere della Sera»

del 30 marzo 1979, per spiegare il mancato ricambio delle forze politiche governative nei primi cinquant’anni dell’Italia repubblicana. In primo luo-go, al Partito comunista era interdetta la partecipazione al governo a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica. In secondo luogo, in Italia il Pci era la seconda forza politica in parlamento: ciò impediva ai socialisti o ai socialdemocratici di raggiungere un numero di consensi sufficiente per rappresentare l’alternativa. Anche un autorevolissimo osservatore come Norberto Bobbio ha ritenuto che «la persistenza della strategia sovversiva, e l’accanimento che non ha conosciuto tregua con cui è stata perseguita, di-pendano dal fatto che l’Italia è il paese d’Occidente in cui esiste il più forte Partito comunista, l’unico Partito comunista in grado se non di conquista-re il poteconquista-re, di condizionarlo, e di diventaconquista-re partito di governo». (Norberto Bobbio, Prefazione, in Giuseppe De Lutiis (a cura di), La strage. L’atto d’ac-cusa dei giudici di Bologna, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. XVII-XVIII).

8* La Primavera di Praga fu un periodo di liberalizzazione politica avvenuto in Cecoslovacchia durante la dominazione sovietica e iniziato il 5 gennaio 1968, quando salì al potere il riformista Alexander Dubček, a seguito della sua elezione a segretario generale del locale Partito comunista. L’esperi-mento durò poco più di sette mesi e cessò traumaticamente il 20 agosto, quando un corpo di spedizione dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati del Patto di Varsavia invase il paese. L’occupazione durò a lungo, Dubček fu costretto a dimettersi e il suo successore, imposto dall’Unione Sovietica, ne annullò quasi tutte le riforme. Seguirono grandi proteste, tra cui le proteste-suicidio dello studente Jan Palach (16 gennaio 1969) e di altre persone che lo emularono. Le manifestazioni di solidarietà verso la Ceco-slovacchia occupata furono numerose in tutta l’Europa occidentale.

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Pci aveva preso le distanze dal blocco sovietico.9 Inoltre si sono prodotte spinte che, a prescindere dal pericolo sovietico, prove-nivano da ambienti interessati a mantenere invariati gli equilibri politici e a non perdere i vantaggi che traevano dal permanere di una strategia della tensione: mafie storiche, ambienti vari di malaffare e di eversione che non disdegnavano mezzi estremi come lo stragismo, ma anche ambienti politici che, per mantenersi al potere, erano interessati a continuare a sventolare la bandiera del pericolo comunista.

9 Particolarmente significative, in ordine a questa presa di distanze, sono le affermazioni fatte dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer, nel 1976, in una celebre intervista rilasciata al giornalista Giampaolo Pansa (Berlin-guer conta «anche» sulla Nato per mantenere l’autonomia da Mosca, «Cor-riere della Sera», 15 giugno 1976, p. 2):

«Non teme che Mosca faccia fare a Berlinguer e al suo eurocomunismo la stessa fine di Dubček e del suo “socialismo dal volto umano”?

«No. Noi siamo in un’altra area del mondo. E, ammesso che ce ne sia la voglia, non esiste la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss. Si può discutere se c’è volontà di egemonia da parte dell’Urss sui paesi che le sono alleati. Ma non esiste un solo atto che riveli l’intenzione dell’Urss di andare al di là delle frontiere fissate da Yalta.

«Lei, dunque, si sente più tranquillo proprio perché sta nell’area occidentale.

«Io sento che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, pat-to che pure non mettiamo in discussione, il diritpat-to dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino.

«Insomma, il Patto Atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà…

«Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico “anche” per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internaziona-le. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia».

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Ecco allora Gladio, la Rosa dei venti, l’Anello, la P2. E poi il golpismo, la strage di piazza Fontana, la strage di Brescia e ancora la P2 con il famigerato «Piano di rinascita democratica»

di cui si dirà tra breve (e siamo a metà degli anni Settanta). Poi il trauma del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, altre stragi – la stazione di Bologna – e i depistaggi organizzati da Gelli e Pazienza, il faccendiere per antonomasia, e dai servizi segreti piduisti. Di tutto ciò questo libro si occuperà.

Come si vede, questo excursus ci porta di nuovo al tema della loggia segreta P2, che raggiunge il massimo del suo potere proprio nel triennio maledetto 1978-1980, periodo che abbiamo definito dell’«Italia occulta». La centralità, o comunque il manifestarsi del fenomeno P2 in tutte le vicende che ci apprestiamo a raccontare fa sì che questa esposizione debba prendere le mosse proprio da tale argomento.

2. Il percorso verso la scoperta della loggia P2

Il sistema di potere occulto della loggia P2 è stato scoperto attraverso la perquisizione del 17 marzo 1981, eseguita contemporaneamente in tutti i recapiti conosciuti di Licio Gelli e disposta nell’ambito del procedimento penale milanese contro il bancarottiere Michele Sindona, relativo all’omicidio di Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979). I due giudici istruttori titolari di questo procedimento penale erano l’autore di questo libro e il suo collega Gherardo Colombo.

Il decreto di perquisizione è stato emesso il 12 marzo, con delega alla guardia di finanza di Milano per l’esecuzione. Esso si era reso necessario in quanto erano emersi rapporti rilevanti tra Sindona e Gelli nel periodo che Sindona aveva trascorso clandestinamente a Palermo (agosto-ottobre 1979), fingendo di essere stato rapito da un preteso e improbabile Comitato proletario di eversione per una giustizia migliore.

Inoltre Gelli era uno dei personaggi che si erano maggior-mente spesi a favore dei «piani di salvataggio» truffaldini che, se

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accolti, avrebbero ripianato la voragine finanziaria della banca di Sindona, accollandone il peso alla collettività. Egli era anche uno dei firmatari degli affidavit (dichiarazioni giurate) trasmessi all’autorità giudiziaria degli Stati Uniti a fine 1976 per cercare di evitare a Sindona l’estradizione verso l’Italia. Nel suo affidavit, Gelli aveva dichiarato, fra l’altro, che Sindona era un perseguitato politico anticomunista e che un suo rientro in Italia avrebbe avuto come conseguenza un processo non imparziale contro di lui e un grave pericolo per la sua stessa vita.

Infine, dopo che l’avventura del finto rapimento era fallita e aveva portato al definitivo arresto di Sindona a New York, le autorità americane avevano trasmesso a quelle italiane, nel novembre del 1979, un’agendina sequestrata a Sindona poco tempo prima, dove il finanziere aveva annotato tutti i recapiti di Licio Gelli.

Nel momento in cui è stata presa la decisione di aprire un’inda-gine giudiziaria sul personaggio di Licio Gelli – decisione maturata non a caso nel Palazzo di giustizia di Milano, dove le vicende sindoniane ne fornivano lo spunto – si era già percepito abbon-dantemente che questi doveva essere il gestore superprotetto di un centro occulto di potere, mascherato all’interno della misteriosa loggia massonica. Quella impressione si era fatta particolarmente netta quando sul «Corriere della Sera» era comparsa, il 5 ottobre del 1980, un’inquietante e lunga intervista rilasciata da Licio Gelli al giornalista Maurizio Costanzo (al momento non lo si sapeva, ma Maurizio Costanzo sarebbe poi risultato iscritto alla loggia P2, così come Franco Di Bella, direttore del quotidiano). Già il titolo dell’intervista era estremamente significativo: Il fascino discreto del potere nascosto – Parla, per la prima volta, il «signor P2»;

per non parlare poi del lungo occhiello, di cui riportiamo solo le prime righe: «Licio Gelli, capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un’intervista esponendo anche il suo punto di vista – L’organizzazione: “un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, cultura, saggezza e generosità per rendere migliore l’umanità”».

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Pertanto, poiché correva voce che il «maestro venerabile»

Licio Gelli avesse un gran numero di fratelli di loggia fidatis-simi, dislocati un po’ dappertutto nelle pubbliche istituzioni, gli uomini della guardia di finanza di Milano incaricati delle perquisizioni del 17 marzo (tutte da compiersi fuori dal loro ter-ritorio) sono stati formalmente vincolati dai magistrati inquirenti a una particolarissima misura di cautela: astenersi dal seguire la prassi consueta che, per ragioni di cortesia istituzionale, avrebbe richiesto di preavvertire i comandi locali delle operazioni che si andavano a eseguire.

Tra gli indirizzi di Licio Gelli contenuti nell’agendina di Sindona trasmessa dalle autorità americane ce n’era uno che – almeno per gli inquirenti milanesi – era del tutto nuovo e inaspettato:

quello di una ditta di abbigliamento maschile, la ditta Giole, del gruppo Lebole, di Castiglion Fibocchi, provincia di Arezzo.10 Aveva tutta l’aria di essere un recapito particolarmente «coperto»

e particolarmente interessante. Infatti sarebbe stato proprio a questo indirizzo, un ufficio riservatissimo del «venerabile», che la perquisizione del 17 marzo 1981 avrebbe avuto effetti deci-samente dirompenti. Tutte le altre perquisizioni – quella a Villa Wanda, abitazione aretina di Gelli, e quelle da eseguire a due indirizzi rispettivamente di Roma e di Frosinone – avrebbero avuto invece esito negativo.

Come capo della pattuglia destinata a perquisire l’ufficio di Castiglion Fibocchi venne designato Francesco Carluccio, un energico quarantatreenne salentino, tra gli investigatori più abili della guardia di finanza di Milano. Non era un ufficiale, bensì un maresciallo maggiore, ma per la sua grande abilità professionale e la sua assoluta affidabilità godeva della piena

10 Sui rapporti di Gelli con il gruppo Lebole, cfr. Mario Guarino, Fedora Raugei, Licio Gelli. Vita, misteri, scandali del capo della Loggia P2, Edizio-ni Dedalo, Bari 2006, pp. 50-54. Mario Lebole, il capitano d’industria del gruppo, risulterà essere iscritto alla P2.

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fiducia dei due ufficiali superiori che coordinavano le operazioni di quel giorno: il colonnello Vincenzo Bianchi e il maggiore Vincenzo Lombardo.

Francesco Carluccio ha redatto una sorta di memoriale sul-la perquisizione – effettivamente memorabile – di Castiglion Fibocchi.11

3. Il memoriale del maresciallo Francesco Carluccio sulla perquisizione dell’ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi

«L’operazione di polizia giudiziaria doveva essere eseguita presso varie sedi da pattuglie al comando di un ufficiale e coordinate dal comandante del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano, colonnello Vincenzo Bianchi, coadiuvato dal maggiore Vincenzo Lombardo, comandante della Prima sezione speciale di cui io facevo parte.

«I due ufficiali si sarebbero trasferiti presso il Gruppo della guardia di finanza di Arezzo e a loro le pattuglie si sarebbero dovute rivolgere per qualsiasi esigenza nel corso del servizio.

«Sembra che non vi fossero ufficiali a sufficienza, per cui il maggiore Lombardo propose il mio nome garantendo la mia provata competenza per i passati impieghi in analoghe operazioni.

«Il 14 marzo del 1981 (sabato) fui convocato nell’ufficio del

«Il 14 marzo del 1981 (sabato) fui convocato nell’ufficio del

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