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principio attivo Inchieste e reportage

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Academic year: 2022

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principio attivo Inchieste e reportage

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© Chiarelettere editore srl

Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A.

Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo

Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: corso Sempione, 2 - Milano

isbn 978-88-3296-176-8 Copertina

Art director: Giacomo Callo Graphic designer: Marina Pezzotta Foto: © stockeurope / Alamy Stock Photo Prima edizione digitale: gennaio 2019

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Giuliano Turone

Italia occulta

Prefazione di Corrado Stajano

In Appendice testi di Antonella Beccaria, Stefania Limiti, Sergio Materia, Beniamino A. Piccone

chiare

lettere

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Sommario

italia occulta

Prefazione VII

Premessa 5 I. Il triennio 1978-1980. La presenza incombente

della loggia massonica P2 9

II. Il caso Moro: lo scontro fra carabinieri fedeli

alla Repubblica e carabinieri fedeli alla loggia P2 49

III. Altri aspetti del caso Moro 75

IV. Pecorelli. Il giornalista che «disturbava politicamente» 101 V. Giulio An dreot ti riconosciuto penalmente responsabile, ancorché prescritto, di complicità con Cosa Nostra 134 VI. Il rapporto triangolare fra An dreot ti, Cosa Nostra

e Sindona 144

VII. Il dissesto della banca di Sindona e l’assassinio

di Ambrosoli su mandato di Sindona 156

VIII. L’attacco giudiziario alla Banca d’Italia

e il ruolo di Giulio An dreot ti 166

IX. Dalla seconda guerra di mafia alle stragi di Capaci

e di via D’Amelio 180

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X. L’omicidio del capitano dei carabinieri

Emanuele Basile e i dodici anni della tormentata

vicenda giudiziaria 189

XI. Dall’istruttoria del maxiprocesso a Cosa Nostra

all’istruttoria sugli omicidi politico-mafiosi di Palermo 212 XII. L’omicidio di Piersanti Mattarella 227 XIII. Il senso della strategia della tensione

e il suo evolversi sino all’alba del triennio 1978-1980 255 XIV. I prodromi della strage maggiore e l’assassinio

del giudice Mario Amato 275

XV. 2 agosto 1980: l’eccidio della stazione

di Bologna 280

XVI. I depistaggi sulla strage di Bologna.

Il ruolo della loggia P2 e dei servizi segreti 297 XVII. Il Sistema P2 dopo la strage di Bologna 322 Appendice 361 Dimenticati dallo Stato di Antonella Beccaria 363 Le interferenze occulte nel caso Moro di Stefania Limiti 376 La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta di Sergio Materia 390 Il caso Italcasse di Beniamino A. Piccone 416

Bibliografia 435

Ringraziamenti 442

Indice dei nomi 443

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Prefazione

di Corrado Stajano

Una storia nera. Una storia purtroppo vera questa di Giuliano Turone, Italia occulta, dove tutto è minuziosamente documentato da atti di giustizia, sentenze, ordinanze, confessioni, interrogatori, testimonianze, perizie balistiche, verbali magari a suo tempo sottovalutati o non compresi, qui invece analizzati con la furia certosina dello scrittore che spesso, come magistrato, è stato al centro di quel che racconta. Non è un’autobiografia. Se non si conoscono i fatti ci si può render conto della presenza e della funzione dell’autore solo da una minuscola nota a piè di pagina, l’opposto dell’esibizione.

Protagonista delle vicende narrate è un paese malato, spesso moribondo, una palude non prosciugata dove negli anni Settanta- Ottanta del Novecento, dall’indomani di piazza Fontana all’ucci- sione di Moro al massacro della stazione di Bologna, è accaduta l’iradiddio, stragi, assassinii, complotti, tentati colpi di Stato. In un connubio, esso sì romanzesco, tra politica e criminalità spuntano da queste pagine i personaggi più diversi, ministri, banditi, frati, presidenti del Consiglio, presidenti della Repubblica, avventurieri, terroristi, provocatori, capimafia, giudici corrotti, agenti segreti, doppiogiochisti, killer, generali infedeli che non hanno certo reso onore alla loro uniforme. Un Trionfo della morte da far invidia a Pieter Bruegel il Vecchio. Poi c’è l’altra Italia che ha retto, anche se con fatica, alla quale il libro è dedicato, rappresentata qui da Tina Anselmi, la presidente della Commissione d’inchiesta sulla Loggia P2, dal colonnello della guardia di finanza Vincenzo Bian-

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VIII Italia occulta

chi, dal commissario di polizia Pasquale Juliano, dal generale dei carabinieri Giorgio Manes, dal giudice Giancarlo Stiz, «Servitori della Repubblica», semplicemente.

I fatti, nel libro di Turone, non posseggono un’apparente continuità temporale. Italia occulta è costruita a frammenti: la Loggia P2; Michele Sindona, il bancarottiere assassino, già definito da Giulio Andreotti «il salvatore della lira»; Giorgio Ambrosoli, l’avvocato ucciso per la sua onestà; Piersanti Mattarella e il suo omicidio a Palermo; le stragi dei treni; il processo Pecorelli.

Questi frammenti e tanti altri si ricompongono naturalmente in un disegno complessivo sulla strategia pensata e messa in atto dai nemici della Repubblica: cancellare la Costituzione, distruggere la democrazia costata tanto sangue e tanto dolore.

«Quante storie. La P2 non fu nient’altro che un club di gen- tiluomini» disse più volte l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (tessera 1816 della Loggia). E Gelli, anni dopo, nel 2008, ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, ricambiò il favore e rivendicò con orgoglio alla Loggia P2 la paternità del Piano di rinascita democratica con queste parole: «Peccato non averlo depositato alla Siae per i diritti, tutti ne hanno preso spunto:

l’unico che può portarlo avanti è l’attuale presidente del Consi- glio, Silvio Berlusconi».

Gli allora giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colom- bo, responsabili dell’inchiesta sulla P2, erano arrivati a Gelli dopo l’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso dalla mafia vicino alla chiesa di San Vittore, nel centro di Milano. Su un’agendina sequestrata nel 1979 a Sindona, negli Stati Uniti, trasmessa poi in Italia, erano annotati tutti gli indirizzi di Licio Gelli, uomo d’affari di Arezzo non ignoto alla polizia. Fra gli altri il recapito sconosciuto di una ditta di abbigliamento maschile, la Giole, del gruppo Lebole, di Castiglion Fibocchi, nell’areti- no, dove il 17 marzo 1981 avvenne la famosa perquisizione del Nucleo regionale di polizia tributaria della guardia di finanza. A insospettire, mesi prima, era stata anche la clamorosa intervista di Maurizio Costanzo (tessera 1819 della Loggia) pubblicata

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IX Prefazione

dal «Corriere della Sera» il 5 ottobre 1980. Titolo: Parla, per la prima volta, il «Signor P2».

Un manifesto pubblicitario. Una presa di possesso zeppa di messaggi in codice. Un avvertimento minaccioso.

Nel suo libro Turone è attento anche ai particolari più minuti, utili per far capire il clima del tempo. Come il verbale della per- quisizione alla Giole scritto dal maresciallo Francesco Carluccio: la segretaria di Gelli, la signora Carla Venturi, che cercò di far sparire la chiave della cassaforte, lo stupore del sottufficiale quando l’aprì e trovò registri, documenti, carte e, in una valigia, le cartellette con nomi inimmaginabili, ministri, generali e ammiragli, capi dei Servizi segreti, prefetti, parlamentari, editori, direttori di grandi giornali e di telegiornali affiliati alla Loggia segreta con un giuramento. Che avevano già fatto, in molti, ma alla Repubblica.

Tra loro anche il comandante della guardia di finanza Orazio Giannini e il capo di stato maggiore Donato Lo Prete.

La colonna di auto che riporta a Milano i materiali seque- strati, con le liste dei 963 nomi di uomini di cui molti ai vertici della Repubblica, sembra un’azione di guerra. La Fiat Ritmo, con i documenti, marcia in mezzo a due Alfetta fatte venire dal comando: a bordo di ciascuna, quattro soldati armati di mitra.

Non molti sanno, anche se la notizia comincia a trapelare. Gelli, il gran custode – Turone, che ama Dante, scrive che potrebbe essere Cerbero, il mostro a tre teste, Gerione, la fiera con la coda aguzza, Pluto con la sua voce chioccia – preoccupato, passa subito al contrattacco e fa ritrovare, poco dopo, malamente occultato nel fondo di una valigia della figlia, all’aeroporto di Fiumicino, il Piano di rinascita democratica. Un piano eversivo. Minaccia e monito. Golpismo strisciante.

Perché tanto spazio alla Loggia P2 nella prefazione a questo libro di Turone, ricco di fatti e di personaggi? Perché la P2 è «la metastasi delle istituzioni», il cuore, la matrigna maligna, portatrice di quasi tutte le nequizie di quegli anni. Salta fuori di continuo come un misirizzi coi suoi nomi di potenti e di subalterni ubbidienti a ordini

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X Italia occulta

anche criminali. La caduta della dignità e del rispetto civile sono la norma. Colpiscono certi fatti che possono sembrare minori. Gelli che convoca nella sua Villa Wanda un alto magistrato, Carmelo Spagnuolo, procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma, il generale Giovanbattista Palumbo, comandante della divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il generale Franco Picchiotti, comandante della divisione carabinieri di Roma, il generale Luigi Bittoni comandante della brigata carabinieri di Firenze, due colon- nelli. Il venerabile ha fretta e gli uomini della Repubblica accorrono proni ad ascoltare l’oracolo. Siamo nel 1973 – scrive la Relazione Anselmi – il pericolo è l’avanzata del Pci dopo le elezioni del 1976, i referendum, il divorzio, l’aborto. Si ventila allora l’ipotesi di un governo presieduto da Carmelo Spagnuolo. Gelli sembra un capo di stato maggior generale che dà gli ordini ai sottoposti pregandoli di trasmetterli a loro volta ai minori di grado.

I loro nomi sono tutti nelle liste della P2 e tornano in molte occasioni. Quello del generale Giovanbattista Palumbo fa usare a Giuliano Turone, sempre misurato, attento ai significati del lin- guaggio, gli aggettivi «temibile e francamente malvagio». (Partì dalla

«Pastrengo», nel 1973, «l’ignobile crimine dello stupro dell’attrice Franca Rame, ideato e commissionato dalla mente perversa del generale Palumbo».)

La sua biografia è un sordido archetipo italico. Fascista convinto, ammiratore del nazismo, cavaliere dell’Ordine dell’Aquila tedesca senza spade, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 aderisce alla Repubblica di Salò e raccomanda ai suoi uomini di fare altret- tanto. Poi, quando il vento cambia, si costruisce un inesistente passato partigiano, diventa persino Governatore militare alleato della provincia di Cremona. Il suo nome, nei quadri di avanza- mento, galoppa. Nel 1964, per non smentire troppo il suo vero passato, è al fianco del generale De Lorenzo nell’organizzazione del piano Solo.

Il comando della divisione Pastrengo, in via Marcora, a Milano, nei dintorni di piazza della Repubblica, è in quegli anni un luogo sinistro. Tutti gli uomini dello stato maggiore del generale sono

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XI Prefazione

iscritti alla P2. Un vero e proprio gruppo di un potere malsano, riferisce il colonnello Nicolò Bozzo, una persona retta, fedele alla Repubblica.

Il generale Palumbo è un appassionato cacciatore di adesioni alla Loggia, gli piace assistere alle iniziazioni dei nuovi fratelli all’Hotel Excelsior, a Roma. È in stretto contatto, scrive la Rela- zione Anselmi, con il generale Musumeci, segretario generale del Sismi, il servizio segreto militare. È anche un acerrimo nemico del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Probabilmente geloso, lo teme e lo danneggia come può.

Dalla Chiesa è un ufficiale assai abile, ha partecipato alla Resi- stenza, poi, nel 1948, capitano in Sicilia, ha arrestato gli assassini di Placido Rizzotto, il segretario della Camera del lavoro di Cor- leone, che hanno agito su ordine di Luciano Liggio. Di nuovo in Sicilia negli anni Settanta, al comando della legione di Palermo, fa arrestare e inviare al soggiorno obbligato mafiosi del rango di Frank Coppola e Gerlando Alberti. Torna al Nord, generale, al comando della brigata di Torino. Sono gli anni del terrorismo, Dalla Chiesa è designato dal ministro Taviani a costituire uno speciale reparto di polizia giudiziaria antiterrorismo. Nel 1974, un gran colpo: arresta Renato Curcio e Alberto Franceschini, capi storici delle Brigate rosse.

Nonostante i successi ottenuti, forse per questi, viene messo in disparte. Palumbo è diventato vicecomandante dell’Arma dei carabinieri e – il legame è evidente – il reparto antiterrorismo di Dalla Chiesa viene sciolto. I piduisti della divisione Pastrengo hanno vinto la partita. Povera Italia. Dalla Chiesa viene messo «a disposizione», a far nulla. Mentre il sangue del terrorismo scorre nelle strade, viene impiegato come responsabile del coordinamen- to dei servizi di vigilanza per gli istituti di prevenzione e pena di massima sicurezza.

Italia occulta racconta con minuzia la vicenda del tentativo fatto allora dai capi della P2 di affiliare alla Loggia Carlo Alberto dalla Chiesa, uomo in crisi. È una trappola per rendere ricattabile il generale che dà fastidio ai piduisti. Il piano fallisce.

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XII Italia occulta

Il libro di Turone, che talvolta nella sua ricerca torna a essere il giudice istruttore del passato, è ricco di notizie, di osservazioni, di giudizi su quegli anni di conflitti scientificamente verificati. Non offre rivelazioni, la novità è nell’analisi complessiva e comparata di un cumulo di fatti atroci, maturati in un mondo occulto e rimasti il più delle volte privi di giustizia; occulti, appunto.

È interessante analizzare quel che allora accadde con l’occhio del presente, in una società come la nostra, distratta, passiva. Gli esempi di allora non mancano. La Sezione speciale anticrimine della divisione Pastrengo è pilotata dagli uomini della P2. Poi, nel 1978, per merito del ministro Virginio Rognoni che crea un nucleo speciale antiterrorismo, ricompare il generale dalla Chie- sa. L’Italia pulita, quella volta, vince sull’Italia fedele al «fascino discreto del potere nascosto».

Il primo ottobre di quell’anno, l’anno di Moro, il generale irrompe nel covo brigatista milanese di via Monte Nevoso dov’è custodito l’archivio delle Br. In una cartellina azzurra vengono trovati 49 fogli dattiloscritti del Memoriale Moro. (Nel 1990, da un nascondiglio sotto una finestra di quella casa spuntano – fotocopie – 245 fogli del Memoriale Moro).

Un gran garbuglio. Turone fa da guida.

Di continuo ci s’imbatte nella P2. Tutti o quasi i consiglieri del ministro Cossiga, ai tempi del sequestro Moro, sono iscritti alla Loggia. E poi, i misteri anche piccoli si accumulano. Come mai una stampatrice del Sismi viene usata da Mario Moretti, l’ambiguo capo delle Br, in una tipografia romana per stampare i volantini dell’organizzazione? Come mai un arsenale di armi della banda della Magliana usate per uccidere viene custodito in uno scantinato del ministero della Sanità? Soltanto per la responsabilità di impiegati corrotti?

Ma ci sono casi ben più gravi ricordati nel libro. Andreotti e la mafia. È un luogo comune secondo il quale il sette volte presidente del Consiglio sia stato assolto nel processo di Palermo del 1995.

Accusato di associazione mafiosa, è stato invece assolto per i fatti successivi al 1980 e fino allora prescritto, che non significa certo

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XIII Prefazione

assoluzione, ma il contrario – condanna –, responsabile il passare del tempo. Perché durò così a lungo la sua connivenza con la mafia, pronubi Lima, il luogotenente, e i cugini Salvo, e perché la conni- venza finì? Perché probabilmente Andreotti era legato alla famiglia di mafia Bontate-Inzerillo che negli anni Ottanta perdono potere e vengono assassinati dai corleonesi di Liggio, i vincenti delle guerre di mafia. E Andreotti è legato invece ai perdenti. Cose di Cosa nostra.

Sono infiniti i casi loschi raccontati dal libro di Turone. L’o- micidio di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia che stava cercando di pulire le lordure dell’isola e fu ucciso il 6 gennaio 1980 dalla mafia che per il delitto usò giovani della destra eversiva; l’annullamento della sentenza, in Cassazione, dei tre sicari del capitano Emanuele Basile per vizio di forma: «L’annullamento consiste nel fatto che ai difensori dei tre imputati non è stato spedito, a suo tempo, l’avviso della data dell’udienza pubblica destinata all’estrazione a sorte dei giudici popolari». Ahi, serva Italia, patria del diritto.

Italia occulta è un libro importante. Documenta con nettezza un passato torbido ancora non del tutto conosciuto. È arricchito, tra l’altro, in appendice, da quattro saggi che approfondiscono i sordidi eventi di quegli anni: Antonella Beccaria, Dimenticati dallo Stato; Stefania Limiti, Le interferenze occulte nel caso Moro; Sergio Materia, La giustizia a Perugia. Gli anni Ottanta; Beniamino A.

Piccone, Il caso Italcasse.

La P2 sembra ed è un’ossessione. Spunta e rispunta. Un fantasma travestito da diavolo, burattinaio di fatti che sembrano tra loro lontani e invece nascono dalla stessa radice, contigui.

Chi sono veramente stati i capi della P2? Chi ha manovrato la giostra? Andreotti e Cossiga, si è detto, i più sospettati, i più coinvolti, vicini e amici di quei traditori della Repubblica. Si pensava che alla loro morte si sarebbero rotti i muri del silenzio.

Non è accaduto. Mancano le prove, non bastano gli indizi politici.

I famosi scheletri sono rimasti negli armadi con i loro segreti, le piaghe non si sono sanate.

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XIV Italia occulta

Al Senato, durante la XII legislatura, quasi un quarto di secolo fa, Andreotti sedeva al suo posto, sempre lo stesso, vicino al cor- ridoietto, sulla sinistra entrando nell’aula. Cossiga si spostava di qua e di là secondo i suoi umori balzani. Una volta prese posto in un seggio della Sinistra e con solennità chiese di parlare. Rivol- gendosi chiaramente ad Andreotti, sull’altro lato dell’aula, non togliendogli mai gli occhi di dosso, indicandolo con il gesticolio delle mani: fu un discorso ben strano, sanscrito politico che sol- tanto i due potevano capire. Si poteva intuire soltanto che Cossiga stava rinfacciando ad Andreotti cose fatte, gravi, dal tono della voce e dai moti del volto. Lo insultava, compostamente irato, come un buon democristiano. Un capitolo teatrale – perché in quell’aula? – di una resa di conti.

Andreotti, immobile, sembrava una maschera di piombo fuso.

Per tentare di avere qualche conferma sugli uomini al vertice della Loggia resta soltanto la relazione finale della Commissione inqui- rente sulla P2 presieduta da Tina Anselmi, donna di grande corag- gio e forza morale che ha subito minacce, intimidazioni, insulti di ogni genere, vilipesa, emarginata anche dal suo partito, la Dc.

La relazione ricorre a una metafora celebre, quella della «doppia piramide», l’una sull’altra, così da prendere, nell’insieme, la forma di una clessidra. Il venerabile Gelli, il notaio, l’amministratore, il praticone, a capo del quartier generale della Loggia viene col- locato in cima alla piramide inferiore, «punto di collegamento tra le forze e i gruppi che nella piramide superiore identificano le finalità ultime». Ma chi troneggia nella piramide superiore?

La relazione si arrende e conclude amaramente: «Quali forze si agitino nella struttura a noi ignota non è dato conoscere […]

al di là dell’identificazione del rapporto che lega Licio Gelli ai servizi segreti».

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A Tina Anselmi, Vincenzo Bianchi,

Pasquale Juliano, Giorgio Manes, Giancarlo Stiz, Servitori della Repubblica

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italia occulta

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Partiti politici, stampa e sindacati costituiscono oggetto di sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico finanziario. La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere a uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo.

«Piano di rinascita democratica della loggia P2», 1976

Tornando poi a Lei, on. An dreot ti, per nostra disgrazia e per disgrazia del paese a capo del governo, non è mia intenzione rievocare la sua grigia carriera.

Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni;

grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, on. An dreot ti, è questo che a Lei manca.

Aldo Moro a Giulio An dreot ti, dal «Memoriale Moro», maggio 1978

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Nota dell’autore

I fatti ricostruiti in questo libro sono descritti negli atti giudiziari e nelle fonti d’archivio richiamati nel testo. Alcuni di essi potrebbero non essere stati definitivamente accertati in sentenze passate in giudi- cato, sicché con riferimento ai protagonisti, in linea generale, prevale la presunzione di non colpevolezza e, ove neppure ripresi in provve- dimenti definitivi, di totale estraneità. Ciò non toglie che, essendo quei fatti riconducibili alle fonti citate, è legittima la facoltà di citarli, quanto meno sul piano della ricostruzione storica, il cui accertamento è sempre soggetto a progressivi e spesso imprevedibili aggiustamenti e revisioni. Allo stesso modo, le valutazioni, argomentate e basate su circostanze ritenute accertate o logicamente verosimili, rimangono valide anch’esse sul piano storico e soggette, a loro volta, a revisione, al mutare dei fatti di riferimento.

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Premessa

Questo è un libro di storia contemporanea basato in netta pre- valenza su fonti giudiziarie. Riguarda un periodo piuttosto breve della storia del nostro paese, a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento, ma si tratta di un periodo terri- bile, ricco di misteri e di delitti efferati. Un tratto di storia così profondamente legato a fenomeni criminali e anti-istituzionali di devastante pericolosità, da mettere a rischio lo stesso equili- brio costituzionale del Paese. È stato osservato, non a torto, che l’Italia è la nazione in cui l’intreccio fra politica e criminalità, fra istituzioni e illegalità, fra potere ufficiale e potere occulto è stato talmente stretto «che probabilmente non esiste in Europa e nel cosiddetto “primo mondo” un altro paese in cui questo intreccio sia stato altrettanto costante e radicato».1

Questo pezzo di storia, inoltre, è stato volutamente reso il più possibile oscuro, sibillino, indecifrabile ai cittadini «norma- li»; costellato da una quantità esorbitante di segreti e di vere e proprie bugie, per opera di ambienti e personaggi che, in modo interessato e cinico, hanno perpetrato quel mastodontico furto di consapevolezza ai danni della popolazione. Questo libro si rivolge a chiunque si senta parte lesa di quel furto.

1 Giovanni Tamburino, Ricerca storica e fonti giudiziarie, in Cinzia Ven- turoli (a cura di), Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, Marsilio, Venezia 2002, p. 75.

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6 Italia occulta

Particolarmente danneggiate da quella sottrazione di coscienza storica sono le nuove generazioni. Chi frequenta i ventenni di oggi sa bene quanto essi siano disorientati di fronte ai misteri della storia recente del loro paese e quanto siano desiderosi di conoscere e di capire il senso di certi eventi sconvolgenti accaduti vent’an- ni prima che loro nascessero. Questo libro è dedicato in modo particolare a loro ed è stato scritto, quindi, con un particolare sforzo di chiarezza espositiva, senza mai dare per note circostanze che i ventenni di oggi è invece ben possibile che non conoscano.

Del resto, solo se le nuove generazioni avranno preso cono- scenza di quegli eventi nefasti – e ne avranno colto il significato storico – potranno a loro volta trasmetterne la conoscenza e la comprensione alle generazioni future. Il che è importante, perché

«la Memoria, custodita e tramandata, è un antidoto indispensabile contro i fantasmi del passato».2

Proprio per venire incontro ai lettori più giovani e meno

«attrezzati», senza nulla togliere, però, alla completezza della trattazione, sì è ritenuto di collocare nelle note talune parti che, se collocate nel testo, lo avrebbero appesantito eccessivamente.

Inoltre, sempre per lo stesso motivo, sono state introdotte brevi note esplicative immediatamente riconoscibili come pensate proprio per i lettori più giovani e contrassegnate dal simbolo asterisco (*), riguardanti certe nozioni che essi potrebbero non avere ancora acquisito.

L’utilizzo delle fonti giudiziarie è molto importante per la rico- struzione del passato di un paese, ma lo è in modo particolare, come si è visto, per l’Italia. Sono fonti preziosissime anzitutto le sentenze, cioè gli atti conclusivi dei processi, ma sono molto

2 Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo Interven- to alla celebrazione del «Giorno della Memoria», Roma, Palazzo del Quirinale, 25 gennaio 2018 (www.quirinale.it/elementi/Continua.

aspx?tipo=Discorso&key=781).

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7 Premessa

utili anche gli atti giudiziari contenenti il materiale probatorio, per esempio l’interrogatorio di un imputato, la dichiarazione di un testimone, oppure una perizia balistica.

Le sentenze sono fonti privilegiate perché offrono una sintesi meditata del materiale probatorio e perché rappresentano la verità ufficiale su determinate vicende. Ma se noi ci limitassimo a con- siderare le sentenze saremmo costretti a fermarci alle conclusioni che si sono imposte in sede giudiziaria e questo mortificherebbe la ricerca critica dello storico.

Il punto è che lo scopo della decisione giudiziaria è diverso da quello dello storico. La decisione del giudice ha la finalità di verificare se una certa accusa diretta a un imputato è fondata al di là di ogni ragionevole dubbio oppure è infondata; di verificare quindi se un certo imputato deve essere dichiarato responsabile del reato o assolto. Inoltre, in ambito giudiziario vi sono delle regole rigorose sull’ammissibilità dei mezzi di prova, sull’utilizza- bilità della prova, sulla valutazione delle prove, sulla nullità degli atti, sui limiti delle impugnazioni, e così via, proprio perché, per poter applicare una pena all’imputato, l’accusa deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio e nel rispetto di tutte le garanzie previste dalla legge.

Viceversa, lo storico, ripercorrendo una vicenda processuale che presenta un interesse storico, non deve applicare sanzioni, non deve stabilire se la decisione del giudice sulla posizione di questo o quell’imputato sia condivisibile o no, tanto meno deve dare giudizi di colpevolezza o non colpevolezza su determinate persone. Lo storico può e deve solamente ricostruire circostanze di fatto, che non siano state sufficientemente chiarite in un determinato processo, ma che possano essere chiarite in base ad altri elementi di fatto disponibili, o in quello stesso processo, o in un altro processo ricollegabile al primo.

Situazioni di questo tipo si presenteranno più volte nelle pagine seguenti. Per esempio, relativamente al grave attacco giudiziario

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8 Italia occulta

subito dalla Banca d’Italia nel marzo 1979, chi legge troverà un’inedita ricostruzione storica ottenuta collegando tra loro alcuni dati contenuti nelle agende di Giulio Andreotti, acquisite al processo di Perugia per l’omicidio Pecorelli, e talune risultanze del processo Sindona.3

3 Infra, cap. VIII, § 3. Per approfondire il tema delle differenze tra prova storica e prova giudiziaria, si veda G. Tamburino, Ricerca storica e fonti giudiziarie, cit., pp. 75-81; nonché Angelo d’Orsi, Piccolo manuale di storiografia, Bruno Mondadori, Milano 2002, pp. 49-53.

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Il triennio 1978-1980. I

La presenza incombente della loggia massonica P2

1. I tre fattori storici peculiari alla base dell’Italia occulta

Alcuni fattori storici piuttosto singolari hanno reso questo nostro paese sensibilmente diverso da tutte le altre democrazie dell’Eu- ropa occidentale.

Anzitutto le mafie storiche. Secondo alcuni studiosi, tra cui Nicola Tranfaglia, esse hanno una matrice comune che si è sviluppata lentamente a partire da diversi secoli fa, quando il Mezzogiorno era formalmente dominato da potenze straniere le cui capitali erano molto distanti e i cui domini territoriali erano molto estesi: i bizantini, gli arabi, gli spagnoli. Anche questi Stati assoluti del passato avevano una loro legalità ed erano più o meno in grado di far rispettare le leggi. Però con notevoli eccezioni:

avendo domini così estesi, riuscivano a esercitare l’autorità e a far rispettare le leggi solo nei territori più facilmente raggiungibili, e non nelle aree geografiche lontane dalla Capitale.1

La Sicilia e la Calabria, in particolare, si sono trovate per lunghi periodi di tempo in questo tipo di situazione. Con la

1 Nicola Tranfaglia, La mafia come metodo nell’Italia contemporanea, La- terza, Roma-Bari 1991, pp. 11 segg. e 23, ripubblicato da Mondadori, Milano 2012. Sull’origine comune delle mafie storiche concorda anche Isaia Sales, Storia dell’Italia mafiosa. Perché le mafie hanno avuto successo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 64-71, il quale ritiene però che l’origine comune non risalga a epoca così remota.

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10 Italia occulta

conseguenza che, per molti secoli, non c’è stata nelle due regioni nessuna autorità statale che fosse capace di tenere sotto controllo il territorio.2 In questo lunghissimo vuoto di potere legale, sono nati gruppi spontanei dotati di un potere di fatto, che hanno preso il posto dell’autorità statale assente, imponendo la propria legge personale basata su intimidazione, violenza e sopraffazione.

Da questo seme è germogliato e si è sviluppato gradualmente il potere illegale delle mafie storiche.

La situazione è stata poi ereditata dai Borboni del Regno delle Due Sicilie, che non hanno saputo farvi fronte e che anzi hanno aggravato la situazione, tra l’altro delegando funzioni di ordine pubblico alla camorra, che in origine era semplicemente un fenomeno di delinquenza urbana dei bassifondi di Napoli. In questo modo la camorra si è consolidata e sviluppata, ottenendo a poco a poco la promozione a terza mafia del nostro paese.

Il radicamento di mafie storiche dure a morire e la commistione di fatto, durata troppo a lungo, tra potere formale e potere cri- minale hanno avuto per il nostro paese conseguenze devastanti, senza pari in nessun altro luogo dell’Europa occidentale. Questa è la prima differenza sostanziale tra l’Italia e gli altri paesi europei.

La seconda grande peculiarità del nostro paese è il fatto di avere avuto mille anni di papa re. Lo Stato della Chiesa ha avuto certamente il pregio di contribuire a far sì che Roma diventasse una delle più belle città del mondo, se non la più bella, ma ha contribuito anche a ritardare di molto il momento in cui i sudditi acquisiscono la consapevolezza che consente loro di diventare cittadini, attenti agli interessi della collettività e dotati di un proprio senso delle istituzioni. È forse una conseguenza di questa peculiarità storica il fatto che in Italia l’educazione civica nelle scuole sia sempre stata una Cenerentola.

2 In altre aree geografiche, come la Lombardia sotto la dominazione spa- gnola e l’Andalusia sotto la dominazione araba, la situazione di sostanzia- le assenza dell’autorità statale fu di più breve durata, il che può spiegare come mai non sia nata una mafia locale in quelle due regioni.

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11 Il triennio 1978-1980. La presenza incombente della loggia massonica P2

Inoltre – va detto con franchezza – il millennio pontificio ha prodotto altri lasciti ingombranti che hanno influito in modo determinante, attraverso la presenza dello Stato-Città del Vati- cano nel cuore di Roma, sul percorso storico-politico del nostro paese dal 1870 sino a oggi. Gli esempi che si potrebbero fare sono molti, ma basterà qui menzionare il ruolo deleterio (su cui questo libro avrà modo di soffermarsi) che ha assunto nella storia italiana del secondo Novecento lo Ior (Istituto per le opere di religione), la banca vaticana di cui l’arcivescovo Paul Marcinkus è stato presidente dal 1971 al 1989.3* È stato accertato infatti che lo Ior ha intrattenuto rapporti intensi con il sistema di potere occulto della loggia massonica Propaganda 2 (P2) di Licio Gelli e del suo cervello finanziario Umberto Ortolani; con la finanza d’avventura di Michele Sindona e Roberto Calvi, affiliati alla loggia P2; nonché – attraverso i massicci riciclaggi di denaro mafioso gestiti da questi ultimi – con la Cosa Nostra siciliana e siculo-americana. Anche su tutto ciò questo libro avrà modo di soffermarsi.

Terza importante peculiarità italiana è quella di avere avuto, proprio sul confine determinato a Yalta,4* il più grande Partito

3* L’Istituto per le opere di religione è un istituto pontificio di diritto privato che ha sede nella Città del Vaticano. La definizione che dà di sé e dei suoi scopi nel sito ufficiale (www.ior.va) è questa: «Un ente della Santa Sede, eretto con Chirografo di Sua Santità Pio XII il 27 giugno 1942. Le sue origini risalgono alla “Commissione ad pias causas” istituita dal Sommo Pontefice Leone XIII nel 1887. La missione dell’Istituto […] consiste nel

“provvedere alla custodia e all’amministrazione dei beni mobili e immobili trasferiti o affidati all’Istituto medesimo da persone fisiche o giuridiche e destinati a opere di religione e di carità. L’Istituto può accettare depositi di beni da parte di enti e persone della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano”». L’arcivescovo statunitense Paul Casimir Marcinkus (1922- 2006), presidente dello Ior negli anni presi in considerazione da questo libro, ha avuto intensi rapporti con Gelli, Ortolani, Sindona e Calvi.

4* La Conferenza di Yalta fu un vertice tenutosi dal 4 all’11 febbraio 1945 nel quale i capi politici dei tre principali paesi Alleati (Roosevelt per gli Stati

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12 Italia occulta

comunista del mondo occidentale. Anche questa è stata una peculiarità carica di conseguenze. Dopo Yalta – e quindi dopo la caduta del fascismo – la presenza in Italia di un Partito comunista così forte (e che nei primi lustri guardava in effetti con simpatia al blocco sovietico) ha suscitato gravissime preoccupazioni negli ambienti della Nato.5* In quel contesto, paradossalmente, le mafie storiche e altri fenomeni di antistato, nemici della nuova Costituzione, si son visti attribuire – e si sono attribuiti – un ruolo di prezioso baluardo anticomunista.

Hanno cominciato gli americani, benemeriti per averci aiutato a liberarci dalla dittatura, che però, dopo lo sbarco in Sicilia, hanno contribuito a consegnare vari comuni siciliani e calabresi nelle mani di sindaci che erano i boss mafiosi locali, per evitare il più possibile il rischio di aprire la strada a sindaci comunisti.6 È stato un fatto che ha conferito alle mafie storiche una tremenda forza di inserimento nei gangli del nuovo Stato, che già nasceva

Uniti, Churchill per il Regno Unito e Stalin per l’Unione Sovietica) presero alcune decisioni importanti sul proseguimento della Seconda guerra mon- diale, sull’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sull’as- setto postbellico dell’Europa dopo la sconfitta della Germania nazista.

5* La Nato (North Atlantic Treaty Organization, ovvero Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, in sigla Otan) è un’organizzazione in- ternazionale per la collaborazione nel settore della difesa, istituita con il Patto Atlantico firmato da Stati Uniti, Canada e vari paesi dell’Europa occidentale nel 1949. La Nato ha rappresentato, nel corso della Guerra fredda, il cosiddetto blocco occidentale contrapposto al blocco sovietico.

6 «Gli alleati, gli americani, soprattutto, sono stati determinanti nella ri- composizione della mafia, l’hanno politicamente avallata, se ne sono ser- viti con cinismo. Ma mancano certi riscontri, difettano, non per caso, fonti e particolari» (Corrado Stajano, Patrie smarrite. Racconto di un ita- liano, Il Saggiatore, Milano 2018, p. 82). Lo storico siciliano Rosario Mangiameli ha invece ridimensionato la responsabilità americana nelle nomine di sindaci mafiosi in Sicilia, sostenendo che queste «non erano avvenute per volontà dei comandi americani […], ma erano state ispirate da interlocutori locali» (Rosario Mangiameli, In guerra con la storia. La mafia al cinema e altri racconti, «Meridiana», 87, 2016, pp. 231-243).

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13 Il triennio 1978-1980. La presenza incombente della loggia massonica P2

in un paese messo a dura prova dal ventennio fascista e dalle pesanti conseguenze belliche.

Successivamente, come si vedrà, sono nati altri meccanismi destinati a prolungare il più possibile l’isolamento e la lontananza dal potere del temuto Partito comunista italiano (Pci). Meccanismi che hanno variamente continuato a esistere e operare, per mante- nere in vita il cosiddetto fattore K (dal russo Kommunizm),7 anche quando ormai, a partire dai tempi della Primavera di Praga,8* il

7 L’espressione «fattore K» venne utilizzata per la prima volta dal giornalista Alberto Ronchey (1926-2010) in un editoriale del «Corriere della Sera»

del 30 marzo 1979, per spiegare il mancato ricambio delle forze politiche governative nei primi cinquant’anni dell’Italia repubblicana. In primo luo- go, al Partito comunista era interdetta la partecipazione al governo a causa dello stretto legame con l’Unione Sovietica. In secondo luogo, in Italia il Pci era la seconda forza politica in parlamento: ciò impediva ai socialisti o ai socialdemocratici di raggiungere un numero di consensi sufficiente per rappresentare l’alternativa. Anche un autorevolissimo osservatore come Norberto Bobbio ha ritenuto che «la persistenza della strategia sovversiva, e l’accanimento che non ha conosciuto tregua con cui è stata perseguita, di- pendano dal fatto che l’Italia è il paese d’Occidente in cui esiste il più forte Partito comunista, l’unico Partito comunista in grado se non di conquista- re il potere, di condizionarlo, e di diventare partito di governo». (Norberto Bobbio, Prefazione, in Giuseppe De Lutiis (a cura di), La strage. L’atto d’ac- cusa dei giudici di Bologna, Editori Riuniti, Roma 1986, pp. XVII-XVIII).

8* La Primavera di Praga fu un periodo di liberalizzazione politica avvenuto in Cecoslovacchia durante la dominazione sovietica e iniziato il 5 gennaio 1968, quando salì al potere il riformista Alexander Dubček, a seguito della sua elezione a segretario generale del locale Partito comunista. L’esperi- mento durò poco più di sette mesi e cessò traumaticamente il 20 agosto, quando un corpo di spedizione dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati del Patto di Varsavia invase il paese. L’occupazione durò a lungo, Dubček fu costretto a dimettersi e il suo successore, imposto dall’Unione Sovietica, ne annullò quasi tutte le riforme. Seguirono grandi proteste, tra cui le proteste-suicidio dello studente Jan Palach (16 gennaio 1969) e di altre persone che lo emularono. Le manifestazioni di solidarietà verso la Ceco- slovacchia occupata furono numerose in tutta l’Europa occidentale.

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14 Italia occulta

Pci aveva preso le distanze dal blocco sovietico.9 Inoltre si sono prodotte spinte che, a prescindere dal pericolo sovietico, prove- nivano da ambienti interessati a mantenere invariati gli equilibri politici e a non perdere i vantaggi che traevano dal permanere di una strategia della tensione: mafie storiche, ambienti vari di malaffare e di eversione che non disdegnavano mezzi estremi come lo stragismo, ma anche ambienti politici che, per mantenersi al potere, erano interessati a continuare a sventolare la bandiera del pericolo comunista.

9 Particolarmente significative, in ordine a questa presa di distanze, sono le affermazioni fatte dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer, nel 1976, in una celebre intervista rilasciata al giornalista Giampaolo Pansa (Berlin- guer conta «anche» sulla Nato per mantenere l’autonomia da Mosca, «Cor- riere della Sera», 15 giugno 1976, p. 2):

«Non teme che Mosca faccia fare a Berlinguer e al suo eurocomunismo la stessa fine di Dubček e del suo “socialismo dal volto umano”?

«No. Noi siamo in un’altra area del mondo. E, ammesso che ce ne sia la voglia, non esiste la minima possibilità che la nostra via al socialismo possa essere ostacolata o condizionata dall’Urss. Si può discutere se c’è volontà di egemonia da parte dell’Urss sui paesi che le sono alleati. Ma non esiste un solo atto che riveli l’intenzione dell’Urss di andare al di là delle frontiere fissate da Yalta.

«Lei, dunque, si sente più tranquillo proprio perché sta nell’area occidentale.

«Io sento che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, pat- to che pure non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo del proprio destino.

«Insomma, il Patto Atlantico può essere anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà…

«Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico “anche” per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internaziona- le. Mi sento più sicuro stando di qua, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia».

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Ecco allora Gladio, la Rosa dei venti, l’Anello, la P2. E poi il golpismo, la strage di piazza Fontana, la strage di Brescia e ancora la P2 con il famigerato «Piano di rinascita democratica»

di cui si dirà tra breve (e siamo a metà degli anni Settanta). Poi il trauma del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, altre stragi – la stazione di Bologna – e i depistaggi organizzati da Gelli e Pazienza, il faccendiere per antonomasia, e dai servizi segreti piduisti. Di tutto ciò questo libro si occuperà.

Come si vede, questo excursus ci porta di nuovo al tema della loggia segreta P2, che raggiunge il massimo del suo potere proprio nel triennio maledetto 1978-1980, periodo che abbiamo definito dell’«Italia occulta». La centralità, o comunque il manifestarsi del fenomeno P2 in tutte le vicende che ci apprestiamo a raccontare fa sì che questa esposizione debba prendere le mosse proprio da tale argomento.

2. Il percorso verso la scoperta della loggia P2

Il sistema di potere occulto della loggia P2 è stato scoperto attraverso la perquisizione del 17 marzo 1981, eseguita contemporaneamente in tutti i recapiti conosciuti di Licio Gelli e disposta nell’ambito del procedimento penale milanese contro il bancarottiere Michele Sindona, relativo all’omicidio di Giorgio Ambrosoli (11 luglio 1979). I due giudici istruttori titolari di questo procedimento penale erano l’autore di questo libro e il suo collega Gherardo Colombo.

Il decreto di perquisizione è stato emesso il 12 marzo, con delega alla guardia di finanza di Milano per l’esecuzione. Esso si era reso necessario in quanto erano emersi rapporti rilevanti tra Sindona e Gelli nel periodo che Sindona aveva trascorso clandestinamente a Palermo (agosto-ottobre 1979), fingendo di essere stato rapito da un preteso e improbabile Comitato proletario di eversione per una giustizia migliore.

Inoltre Gelli era uno dei personaggi che si erano maggior- mente spesi a favore dei «piani di salvataggio» truffaldini che, se

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accolti, avrebbero ripianato la voragine finanziaria della banca di Sindona, accollandone il peso alla collettività. Egli era anche uno dei firmatari degli affidavit (dichiarazioni giurate) trasmessi all’autorità giudiziaria degli Stati Uniti a fine 1976 per cercare di evitare a Sindona l’estradizione verso l’Italia. Nel suo affidavit, Gelli aveva dichiarato, fra l’altro, che Sindona era un perseguitato politico anticomunista e che un suo rientro in Italia avrebbe avuto come conseguenza un processo non imparziale contro di lui e un grave pericolo per la sua stessa vita.

Infine, dopo che l’avventura del finto rapimento era fallita e aveva portato al definitivo arresto di Sindona a New York, le autorità americane avevano trasmesso a quelle italiane, nel novembre del 1979, un’agendina sequestrata a Sindona poco tempo prima, dove il finanziere aveva annotato tutti i recapiti di Licio Gelli.

Nel momento in cui è stata presa la decisione di aprire un’inda- gine giudiziaria sul personaggio di Licio Gelli – decisione maturata non a caso nel Palazzo di giustizia di Milano, dove le vicende sindoniane ne fornivano lo spunto – si era già percepito abbon- dantemente che questi doveva essere il gestore superprotetto di un centro occulto di potere, mascherato all’interno della misteriosa loggia massonica. Quella impressione si era fatta particolarmente netta quando sul «Corriere della Sera» era comparsa, il 5 ottobre del 1980, un’inquietante e lunga intervista rilasciata da Licio Gelli al giornalista Maurizio Costanzo (al momento non lo si sapeva, ma Maurizio Costanzo sarebbe poi risultato iscritto alla loggia P2, così come Franco Di Bella, direttore del quotidiano). Già il titolo dell’intervista era estremamente significativo: Il fascino discreto del potere nascosto – Parla, per la prima volta, il «signor P2»;

per non parlare poi del lungo occhiello, di cui riportiamo solo le prime righe: «Licio Gelli, capo indiscusso della più segreta e potente loggia massonica, ha accettato di sottoporsi a un’intervista esponendo anche il suo punto di vista – L’organizzazione: “un Centro che accoglie e riunisce solo elementi dotati di intelligenza, cultura, saggezza e generosità per rendere migliore l’umanità”».

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Pertanto, poiché correva voce che il «maestro venerabile»

Licio Gelli avesse un gran numero di fratelli di loggia fidatis- simi, dislocati un po’ dappertutto nelle pubbliche istituzioni, gli uomini della guardia di finanza di Milano incaricati delle perquisizioni del 17 marzo (tutte da compiersi fuori dal loro ter- ritorio) sono stati formalmente vincolati dai magistrati inquirenti a una particolarissima misura di cautela: astenersi dal seguire la prassi consueta che, per ragioni di cortesia istituzionale, avrebbe richiesto di preavvertire i comandi locali delle operazioni che si andavano a eseguire.

Tra gli indirizzi di Licio Gelli contenuti nell’agendina di Sindona trasmessa dalle autorità americane ce n’era uno che – almeno per gli inquirenti milanesi – era del tutto nuovo e inaspettato:

quello di una ditta di abbigliamento maschile, la ditta Giole, del gruppo Lebole, di Castiglion Fibocchi, provincia di Arezzo.10 Aveva tutta l’aria di essere un recapito particolarmente «coperto»

e particolarmente interessante. Infatti sarebbe stato proprio a questo indirizzo, un ufficio riservatissimo del «venerabile», che la perquisizione del 17 marzo 1981 avrebbe avuto effetti deci- samente dirompenti. Tutte le altre perquisizioni – quella a Villa Wanda, abitazione aretina di Gelli, e quelle da eseguire a due indirizzi rispettivamente di Roma e di Frosinone – avrebbero avuto invece esito negativo.

Come capo della pattuglia destinata a perquisire l’ufficio di Castiglion Fibocchi venne designato Francesco Carluccio, un energico quarantatreenne salentino, tra gli investigatori più abili della guardia di finanza di Milano. Non era un ufficiale, bensì un maresciallo maggiore, ma per la sua grande abilità professionale e la sua assoluta affidabilità godeva della piena

10 Sui rapporti di Gelli con il gruppo Lebole, cfr. Mario Guarino, Fedora Raugei, Licio Gelli. Vita, misteri, scandali del capo della Loggia P2, Edizio- ni Dedalo, Bari 2006, pp. 50-54. Mario Lebole, il capitano d’industria del gruppo, risulterà essere iscritto alla P2.

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fiducia dei due ufficiali superiori che coordinavano le operazioni di quel giorno: il colonnello Vincenzo Bianchi e il maggiore Vincenzo Lombardo.

Francesco Carluccio ha redatto una sorta di memoriale sul- la perquisizione – effettivamente memorabile – di Castiglion Fibocchi.11

3. Il memoriale del maresciallo Francesco Carluccio sulla perquisizione dell’ufficio di Gelli a Castiglion Fibocchi

«L’operazione di polizia giudiziaria doveva essere eseguita presso varie sedi da pattuglie al comando di un ufficiale e coordinate dal comandante del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano, colonnello Vincenzo Bianchi, coadiuvato dal maggiore Vincenzo Lombardo, comandante della Prima sezione speciale di cui io facevo parte.

«I due ufficiali si sarebbero trasferiti presso il Gruppo della guardia di finanza di Arezzo e a loro le pattuglie si sarebbero dovute rivolgere per qualsiasi esigenza nel corso del servizio.

«Sembra che non vi fossero ufficiali a sufficienza, per cui il maggiore Lombardo propose il mio nome garantendo la mia provata competenza per i passati impieghi in analoghe operazioni.

«Il 14 marzo del 1981 (sabato) fui convocato nell’ufficio del comandante del nucleo, presente anche il maggiore Lombardo.

Nell’atrio vi erano alcuni ufficiali. Fummo ricevuti uno alla volta.

Il colonnello Bianchi mi informò che il lunedì successivo mi sarei

11 Francesco Carluccio ha redatto il memoriale su richiesta dell’autore di questo libro, il 4 ottobre 2017. Per avere notizie su Vincenzo Bianchi (1928-2010) si veda il sito www.gdf.gov.it/chi-siamo/storia-del-corpo.

Per notizie su Vincenzo Lombardo (1932-2007) si veda Antonella Bec- caria, Giuliano Turone, Il boss. Luciano Liggio: da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 74-83 e passim.

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dovuto recare ad Arezzo per eseguire un’operazione di polizia giudiziaria, senza specificare né il luogo né i soggetti nei confronti dei quali si dovesse agire: le disposizioni erano contenute in una busta chiusa che mi fu consegnata (non ricordo bene se in quella circostanza o il lunedì mattina prima di partire per Arezzo) con l’ordine di aprirla nella prima mattinata del 17 marzo.

«“Non fate telefonate, salvo che per stretti motivi di servizio”

mi fu raccomandato.

«Da un elenco esibitomi dal maggiore Lombardo scelsi i due sottufficiali collaboratori, nelle persone del maresciallo ordinario Concezio De Santis e del brigadiere Salvatore Polo, con i quali avevo già lavorato e di cui mi fidavo ciecamente. Mi misero a disposizione una Fiat Ritmo guidata dal finanziere Luigi Voto.

«Io avevo il grado di maresciallo maggiore.

«Partimmo per Arezzo nel primo pomeriggio del 16 marzo e alloggiammo all’hotel Intercontinental.

«Ritornando alle cautele di riservatezza con cui i miei superiori istruivano i capipattuglia, appena mi dissero che sarei dovuto andare ad Arezzo capii che l’operazione era da farsi nei confronti di Licio Gelli, questo perché io ero impiegato, fin dal 1974, nelle indagini per l’insolvenza della Banca privata italiana da cui erano scaturite tutte le vicende giudiziarie che riguardavano Michele Sindona. È chiaro che nel corso delle indagini sulla banca, nei contatti tenuti dai componenti della pattuglia con i magistrati – sia i titolari dell’inchiesta sull’insolvenza che i titolari del procedimento sul delitto Ambrosoli – si accennava più volte a Licio Gelli e ad altri soggetti probabili amici di Sindona, anche per allertare i militari operanti nell’esame della documentazione bancaria.

«Nessun altro dei colleghi aveva cognizione del perché andas- simo ad Arezzo e, soprattutto, di chi fosse Licio Gelli.

«Mi preoccupai di informarli in tarda serata in albergo (pro- babilmente l’indomani non avrei avuto tempo per istruirli a dovere), precisando loro di fare molta attenzione – perché Licio Gelli, gran maestro della massoneria, era un uomo potente – e di

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essere scrupolosissimi, sia che l’operazione di polizia giudiziaria fosse stata negativa o positiva. L’obiettivo sarebbe stato quello di trovare prove di contatti tra Sindona e Gelli, specie per il periodo 1978-1980, quando Sindona risultava essere “sparito”.

«La sera del 17 marzo 1981, nella mia agenda appuntavo:

«Non ho dormito molto bene. Alle 6.30 mi sono svegliato. Siamo arrivati a Castiglion Fibocchi alle ore 8.30 circa, abbiamo indivi- duato anche la sede della Socam [altra ditta da perquisire all’in- terno dello stesso stabilimento]. Alle 9.00 io e De Santis ci siamo presentati alla Giole, Polo e Voto alla Socam. Gelli non c’era. La perquisizione l’abbiamo fatta alla presenza della segretaria, Carla Venturi. Ho avuto subito la sensazione che la documentazione fos- se importante, specialmente quella chiusa in buste sigillate.

«Questo proprio perché quest’ultima documentazione sembrava cosi accuratamente tutelata. Ovviamente le buste non furono aperte ma le annotazioni sulle stesse erano per me di assoluto interesse.

«Il servizio si sviluppò nel seguente modo.

«Ero convinto che Licio Gelli fosse l’amministratore unico della Giole per cui, una volta entrati nell’androne dello stabilimento relativo agli uffici, chiesi subito al portiere di accompagnarmi nell’ufficio dell’amministratore, Licio Gelli. Egli mi rispose che il soggetto non rivestiva nessuna carica nella società, non aggiungendo altro.

«Ci fu un attimo di smarrimento (eppure se il decreto indicava i locali della Giole doveva essere implicito che Gelli dovesse avere almeno un recapito). Chiesi lo stesso di essere accompagnato nell’ufficio di Gelli. Il portiere mi indicò una donna che scendeva dalla scalinata del piano superiore dicendomi che era la segretaria del commendatore. La chiamò per presentarcela.

«La signora disse di chiamarsi Carla Venturi, che era la segre- taria di Licio Gelli e precisò che l’amministratore delegato della

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Giole era il signor Attilio Lebole.12 Lei era, comunque, a libro paga della società.

«Riservatamente le feci presente che avevo un mandato di perquisizione nei confronti di Licio Gelli e la invitai ad accom- pagnarmi nell’ufficio da lui occupato e nel suo e di indicarmi l’esistenza di altri eventuali locali o recapiti a loro disposizione presso lo stabilimento o in altri luoghi.

«Salimmo la scalinata e la Venturi ci introdusse in un locale di normale ampiezza dicendo che era l’unico a uso di Gelli, non ve ne erano altri né presso la Giole né altrove da lei conosciuti.

Specificava che la sua attività di collaboratrice veniva esercitata in detto ufficio.

«Appena iniziata la perquisizione, dopo la notifica del relativo decreto alla Venturi, giungeva nel locale l’amministratore della Giole, signor Lebole Attilio. La signora si consultava con il mede- simo sull’opportunità di farsi assistere da un legale o persona di fiducia. Decisero di non fare intervenire nessuno.

«A questo punto, la signora Venturi con una certa autorità invitava il signor Lebole ad allontanarsi perché la perquisizione in quell’ufficio non riguardava la Giole ma Gelli. Egli, con un certo imbarazzo, lasciava il locale. Rimasi perplesso. “Che strano”

pensai, “non vuole il difensore di fiducia e rifiuta anche di essere assistita dal suo amministratore, che allontana con un tono tale da non ammettere repliche… ci sarà un perché…”

«Preliminarmente la Venturi era stata invitata a indicare se il locale fosse munito di cassaforte. Rispondendo positivamente e indicandola precisava di non essere in possesso della chiave.

«Premetto che al momento in cui eravamo entrati nell’ufficio, la Venturi aveva appoggiato la sua borsa su una sedia. Mi riservavo di perquisirla durante l’operazione di polizia giudiziaria. Dissi, però, al maresciallo De Santis di tenerla d’occhio e se la signora

12 Figlio di Gianni Lebole, cofondatore dell’azienda insieme con suo fratel- lo Mario. Quest’ultimo, suicidatosi nel 1983, era l’unico della famiglia iscritto alla P2.

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si fosse allontanata prendendo la borsa stessa, di seguirla e, nel caso si fosse recata in posti dove non potesse essere sorvegliata (esempio alla toilette), di bloccarla immediatamente e verificare il contenuto della borsa.

«Nel corso del servizio era stata aperta una grossa valigia posta vicino alla scrivania di Gelli.

«Conteneva varia documentazione e varie buste sigillate con scotch e firmate agli estremi della chiusura. Erano intestate in relazione al loro contenuto (per esempio: “Patto tra … e …”,

“Accordo …”, “Gruppo …”).

«Una vampata di emozione mi assalì quando su alcune buste lessi riferimenti al Gruppo Rizzoli, a Tassan Din (direttore della Rizzoli), a Rizzoli/Calvi, a Rizzoli/Caracciolo/Scalfari, insomma il gotha dell’informazione in Italia.

«Mi sorpresi a sussurrare fra me e me: “Ah!… Cantore…

Cantore… aveva ragione…”.

«Perché Cantore? E chi era?

«Romano Cantore era un notissimo giornalista, fra l’altro fre- quentava il tribunale ed era molto attivo nelle informazioni su scandali finanziari, per cui era ben aggiornato sul caso Sindona.

In questo contesto aveva conosciuto tutti i militari della guardia di finanza addetti alle indagini sull’insolvenza della Banca privata italiana, me compreso.13

«Di tanto in tanto egli passava dalla banca (non sovente) dove noi avevamo gli uffici per salutarci, per cercare di scambiare opinioni e notizie oppure per prendere un semplice caffè.

13 Romano Cantore (1931-2015) è stato, in particolare negli anni Ottanta, un giornalista di rilievo del settimanale «Panorama», che ha seguito con grande attenzione le principali vicende giudiziarie di quel periodo. La sua audizione davanti alla Commissione parlamentare sulla Loggia P2 (vedi nota seguente), avvenuta il 9 giugno 1982, si trova nel volume 009 degli atti di quella Commissione, alle pp. 105-124.

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«Qualche tempo prima della perquisizione a Gelli, era appunto venuto in banca. Sembrava agitatissimo e, per quanto mi ricordi, subito esordiva più o meno così: “Tassan Din… la massone- ria… Gelli… Calvi… la Centrale… Stanno dando l’assalto al

‘Corriere’… C’è in atto una manovra per concentrare tutta la stampa e l’informazione in un unico soggetto… è gravissimo che nessuno possa fare niente! È passato di mano già ‘Il Piccolo’ di Trieste… (fece il nome di altre testate che non ricordo) e stanno arrivando anche capitali stranieri…” e via così, su questo tono e su questo argomento.

«Più parlava e più si infervorava. A me quelle notizie non dicevano assolutamente nulla, anzi mi sembrava normale che si facessero delle transazioni commerciali anche in quel settore.

Timidamente lo dissi a Cantore e lui, lapidario, mi rispose con rabbia: “Non capisci niente… non arrivi a pensare che chi con- trolla i giornali e l’informazione è in grado di controllare il paese e di farne quello che vuole?”.

«Immediatamente recepii il messaggio e rimasi piuttosto scosso.

Nel tempo le parole di Cantore mi sono rimaste in testa… una specie di assillo.

«Presi all’istante la decisione di sequestrare tutto. Solo i successivi sviluppi del servizio mi avrebbero liberato da una responsabilità così pesante.

«Istruii il maresciallo De Santis sull’impostazione del verbale e gli dissi di iniziare a elencare la documentazione sino ad allora rinvenuta nella valigia e nella scrivania di Gelli, ritenuta interes- sante ancorché – in apparenza – non proprio attinente al decreto.

«Intanto i due militari che si erano recati presso la Socam erano rientrati.

«A questo punto, la signora Venturi chiedeva di potersi recare nell’atrio per incontrare una persona per motivi di lavoro. Prese la borsa e uscì. Opportunamente sospendemmo la perquisizione e uscimmo dall’ufficio insieme a lei per poi continuare al suo ritorno.

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«La segretaria aveva già chiesto prima una o due volte di uscire per telefonare o andare in bagno senza prendere la borsa.

Invitata da me a usare il telefono dell’ufficio rispondeva che era quello del commendatore, doveva essere tenuto sempre libero e preferiva non usarlo.

«Sta di fatto che questa volta la borsa era in suo possesso e De Santis si attivò. La seguì nell’atrio dove la vide parlare con un signore al quale cercò di passar qualcosa preso dalla borsa. Il maresciallo, della cui presenza lei non si era accorta, la bloccò subito e l’oggetto che stava consegnando passò direttamente nelle sue mani. Erano le chiavi della cassaforte. Eccitato, il militare invitò i due nell’ufficio di Gelli, che riaprimmo appena arrivarono.

«Il signore fu identificato (risultò essere il direttore di una vicina banca), fu da me redarguito e lasciato andare in quanto si era giustificato dicendo di non essere a conoscenza del perché la signora Venturi avesse voluto incontrarlo e di non sapere che cosa gli volesse consegnare.

«Telefonai al maggiore Lombardo per aggiornarlo sul ritrovamen- to della chiave della cassaforte accennandogli che probabilmente c’era da sequestrare della documentazione. Mi rassicurò dicendomi più o meno: “Vedi tu, sai quello che devi fare e stai tranquillo”.

«Aprimmo la cassaforte.

«Altre buste sigillate, alcune ancora con riferimenti al Gruppo Rizzoli.

«Conteneva, fra l’altro, una specie di registro su cui erano anno- tati i nominativi degli iscritti alla loggia P2 e un certo numero di cartelle settoriali intestate (finanza, carabinieri, polizia, banchieri eccetera) con i relativi nomi e cognomi.

«È chiaro che la mia attenzione fu subito rivolta alla cartella

“Finanza” che conteneva molti nominativi di alti ufficiali. Con- statai con sollievo che né il colonnello Bianchi né il maggiore Lombardo ne facevano parte. C’erano invece, tra gli altri, i nomi del comandante generale della guardia di finanza, generale di corpo d’armata Orazio Giannini, e quello del capo di stato maggiore, che mi sembra fosse il generale Donato Lo Prete.

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25 Il triennio 1978-1980. La presenza incombente della loggia massonica P2

«Rimasi impressionato. Anche nelle altre cartelle erano evi- denziati i vertici delle rispettive amministrazioni o settori di appartenenza e incominciai a preoccuparmi. Non avevo mai immaginato un tale concentramento di poteri. Comunque dissi al maresciallo De Santis di continuare l’elencazione della documentazione compresa quella della cassaforte.

«Successe un fatto strano. Avevo detto al finanziere Voto di aiutare i colleghi nell’ordinare la documentazione in questione:

la signora Venturi si oppose energicamente dicendo che lui era solo un finanziere e non poteva accedere alle notizie contenute nelle carte perché non qualificato.

«Rimasi meravigliato, mi chiesi che cosa mai avevamo nelle mani, non ero in condizioni, per formazione professionale e cul- turale, di valutare il tutto. Certo, immaginavo che la massoneria fosse potente, leggendo i nominativi non c’era certo da stare allegri e noi militari operanti eravamo solo dei semplici sottufficiali.

«Incominciai a preoccuparmi seriamente, ma sempre deter- minato a sequestrare tutto.

«Ribadii alla signora Venturi che il finanziere poteva benis- simo attivarsi perché agiva sotto la mia responsabilità, e io ero un ufficiale di polizia giudiziaria nonché il responsabile della conduzione della perquisizione.

«Le dissi anche che la documentazione sarebbe stata sequestrata e che, quindi, la protesta era del tutto inutile.

«Rimase scossa e replicò più o meno così: “Non potete portare fuori da qui questa documentazione, sono preoccupata per come il commendatore la prenderà. Le dico che è un uomo potente, stia attento a quello che fa”. Erano parole senza astio, più di consiglio che di avvertimento o di minaccia.

«Le risposi semplicemente che io ero ben tutelato per la fiducia che avevo nei miei superiori diretti e, soprattutto, nei magistrati titolari del procedimento, “altrimenti, Dio ci aiuti”.

«Visto che la signora era piuttosto smarrita, le consigliai di alleggerire la sua responsabilità facendo intervenire un legale, certamente più qualificato a interloquire nel servizio in corso.

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26 Italia occulta

«Lei accettò il suggerimento e telefonò dal locale stesso. L’av- vocato intervenne circa due ore dopo.

«Anch’io sentii il bisogno di alleggerire la mia responsabilità e telefonai al comando. Mi rispose ancora il maggiore Lombardo, al quale dissi di aver aperto la cassaforte e che ritenevo opportuno che egli stesso o il colonnello venissero sul luogo. Mi ribadì che erano molto occupati, di stare tranquillo e di procedere secondo le mie valutazioni. Chiesi allora di passarmi il colonnello Bian- chi, al quale dissi semplicemente: “Non posso dirle di più…

per favore… deve venire lei stesso”. Nessuna esitazione: “Agisci secondo coscienza, fra dieci minuti arrivo” rispose.

«Potevano essere le ore quattordici e mi sentii veramente sollevato.

«Il comandante arrivò poco dopo, accompagnato dal mag- giore. Gli andai incontro e gli dissi che tra la documentazione emergevano nomi di personaggi importanti tra cui anche quello del nostro comandante generale.

«Entrati nell’ufficio gli sottoposi il registro con i vari iscritti alla loggia e, ovviamente, le cartelle settoriali e tutta l’altra docu- mentazione.

«Stavamo in piedi, il registro aperto sulla scrivania. Il colonnello scorreva i nomi e a un certo punto cominciò a dire: “Carluccio…

tutti ci sono… tutti ci sono… tutti ci sono…”. Non capivo e gli chiesi se fosse cosa importante. “Importantissima” rispose.

Insistei: “Ma chi sono questi tutti?”. “I servizi segreti” replicò.

«In quel momento venne il suo autista per avvisarlo che lo cercavano al telefono (la sua auto ne era munita). Si assentò per pochi minuti. Seppi in seguito che a chiamarlo era stato il comandante generale della guardia di finanza.

«Il colonnello Bianchi, che aveva assunto la direzione del servi- zio, prese contatti con i magistrati i quali disposero di sequestrare la documentazione senza procedere ad alcun esame di merito.

«Mentre noi sottufficiali procedevamo al completamento della compilazione degli atti e a repertare la documentazione, il colonnello, sempre nello stesso locale, discuteva con l’intervenuto

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