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La prospettiva di genere nello studio delle migrazion

Nel documento Introduzione (pagine 77-80)

“Voglio volare con le mie ali” Le donne immigrate nel distretto

3.1. La prospettiva di genere nello studio delle migrazion

Secondo l’ultimo rapporto del Fondo delle Nazioni Unite per la popo- lazione (Unfpa-Aidos 2006), oggi le donne rappresentano circa la metà dei migranti a livello internazionale (95 milioni, pari al 49,6%) e in alcuni paesi tale quota supera di gran lunga quella maschile. In Italia, in base ai dati del- l’ultima rilevazione censuaria, le donne prevalgono, seppur di misura, sugli uomini (50,5% contro 49,5%), ribaltando la situazione di predominanza maschile riscontrata, invece, al censimento del 1991 (130 uomini ogni 100 donne) (Caritas 2004).

Alcuni studiosi evidenziano come il processo di femminilizzazione in atto rappresenti il tratto saliente delle migrazioni contemporanee (Kofman 1999): non solo cresce il numero di donne in migrazione, ma si registra anche un incremento di quante partono di propria iniziativa e si presentano nei paesi di arrivo come forza lavoro attiva.

In realtà, le migrazioni femminili non sono un fenomeno del tutto nuovo: la ricerca storica ha ampiamente documentato la mobilità di donne che in epo- che passate emigravano, anche da sole, per svolgere occupazioni nelle famiglie – come quella di balia o cameriera – oppure come operaie in alcuni settori ma- nifatturieri. Nonostante l’evidenza empirica, tuttavia per lungo tempo la lette- ratura sulle migrazioni internazionali è stata gender-blind, trascurando le spe- cificità femminili e attribuendo ai protagonisti delle migrazioni il solo genere maschile. Questo approccio teorico, nel quale le donne non compaiono come agenti sociali autonomi, bensì come figure marginali e passive, ha contribuito a riprodurne immagini stereotipate. Nel famoso schema di Bohning (1984) sull’evoluzione dei processi migratori, le donne arrivano solo ad uno stadio maturo e sempre al seguito dei maschi di famiglia (marito, padre o fratello).

L’avvento di politiche restrittive per le migrazioni da lavoro, attivate nel corso anni Settanta da parte dei principali paesi europei, ha determinato la crescita dei flussi a carattere familiare, in cui la componente maggioritaria è quella femmini- le. Ed è proprio a partire da questo periodo che la prospettiva di genere compare negli studi sulle migrazioni. Inizialmente il genere viene trattato come una sem- plice variabile quantitativa, da aggiungere alle altre nell’analisi dei flussi migratori e delle presenze straniere. Solo negli anni più recenti le indagini hanno prestato maggiore attenzione alla qualità della composizione dei flussi, introducendo una nuova prospettiva interpretativa relativa alla condizione delle donne immigrate, che, dando spazio alle forme e ai contenuti dell’identità migratoria al femminile, contribuisce al superamento dello stereotipo della donna al semplice seguito, con modesta autonomia e scarsa influenza sulle decisioni familiari. Accanto a quelle che si muovono per ricongiungersi al marito e/o alla famiglia, ve ne sono molte altre che migrano da sole, assumendo la responsabilità di breadwinner, che dan- no vita a catene migratorie al femminile, come pure a ricongiungimenti familiari rovesciati, per cui sono i mariti e i parenti maschi a raggiungerle dall’estero. Dalla ricerca empirica comincia ad emergere un’immagine più complessa dell’universo femminile in migrazione, caratterizzata da un’ampia articolazione di progetti e di percorsi1, dove le donne non compaiono come figure passive rispetto a cam-

biamenti a loro estranei, bensì come protagoniste della costruzione della propria esperienza migratoria e dei significati ad essa attribuiti.

Più recentemente la prospettiva su cui si è basata la maggior parte degli studi è quella dell’analisi dei processi discriminatori, di cui le donne migranti sono vittime. In quasi tutti i paesi di vecchia immigrazione, ad esempio, le donne stra- niere sono più esposte al rischio di disoccupazione, quale esito della cumulazione di una serie di svantaggi, che vanno dalla debolezza del loro capitale sociale, alle discriminazioni subite, alla consueta difficoltà di conciliazione del lavoro per il mercato con le responsabilità familiari (OECD 2004). Anche quando riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro, le disparità risultano particolarmente eviden- ti: ad esempio, in Lombardia l’Osservatorio regionale per l’integrazione e la mul-

tietnicità registra a carico delle donne straniere un gap retributivo sia rispetto

agli standard della regione, sia rispetto ai livelli raggiunti dagli stessi immigrati maschi. Anche considerando i mestieri tipicamente femminili (assistenti domi- ciliari, domestici, addetti alle pulizie ecc.), i pochi uomini che vi sono impiegati guadagnano mediamente più delle donne (Zanfrini 2005).

 Si rimanda a Lodigiani (1994) e a De Filippo (2000) per una rassegna delle diverse tipo-

Le donne immigrate nel distretto 73

In generale, la condizione delle donne straniere è caratterizzata da una tri- plice forma di discriminazione, dovuta al genere, all’etnia e alla classe sociale (Ambrosini 2005). L’incrocio tra genere e condizione di straniera delinea un primo livello di discriminazione all’interno del mercato del lavoro. In Italia, come negli altri paesi dell’Europa meridionale, le opportunità occupazionali per le lavoratrici immigrate sono limitate all’ambito del lavoro domestico e assistenziale, con qualche estensione al basso terziario (pulizie, settore alber- ghiero e della ristorazione): nelle società riceventi la domanda di lavoro per le donne immigrate è limitata a quelle prestazioni che derivano semplicemente dall’essere donna, da cui discenderebbe naturalmente la capacità di prendersi cura della casa e delle persone. Lo stereotipo etnico, inoltre, produce una sorta di gerarchizzazione delle donne immigrate, per cui sulla base della loro specifi- ca provenienza si attribuiscono particolari caratteristiche, che le rendono più o meno adatte a svolgere certe attività, comunque limitate all’ambito domestico- assistenziale, e quindi più o meno ricercate da parte delle famiglie autoctone.

Infine, l’appartenenza di classe delle donne straniere è spesso una conse- guenza delle prime due caratteristiche (genere ed etnia): indipendentemente dai livelli di istruzione, dalle esperienze professionali pregresse, dalle capacità, abilità e aspirazioni, le società riceventi offrono loro soltanto occupazioni, co- me quella della domestica, o dell’assistente domiciliare che comportano una marcata subalternità sociale, oltre a limitarne sensibilmente le chances di mo- bilità: infatti, l’azione di questi meccanismi sociali finisce per precludere alle donne qualsiasi libertà di ricerca (e di scelta) di occupazioni più qualificate, anche nel caso di persone più istruite e più motivate.

Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, cominciano ad emergere alcuni segnali che rendono conto di una trasformazione interessante anche nelle modalità di inserimento delle donne nel mercato del lavoro: lo sviluppo di iniziative autonome e microimprenditoriali da parte degli immigrati, seppure in misura ancora contenuta, coinvolge anche le donne straniere. Tale tendenza conferma, dunque, la necessità di adottare una prospettiva interpretativa più complessa, secondo la quale le donne immigrate non rappresentano l’anello debole della catena migratoria, ma ricoprono un ruolo attivo in una pluralità di ambiti, tra i quali anche il lavoro. Lo stesso profilo dell’imprenditrice presuppone di per sé un posizione attiva rispetto alla propria esperienza di vita, implicando un’as- sunzione dinamica e personale dei rischi e delle opportunità.

Alla luce di tale quadro, ci proponiamo di compiere un’analisi in chiave di genere dei processi migratori nel distretto industriale di Prato, per cogliere quanto la società locale replichi modelli consolidati o, invece, se ne discosti. Prato, con la sua formula distrettuale, caratterizzata da maggiori capacità

di produrre posti di lavoro, ha sempre garantito elevate quote di occupa- zione femminile, comunque superiori alla media regionale, e minori rischi di disoccupazione per la popolazione residente complessiva, e per le donne in particolare. È un’affermazione che può dirsi valida anche per le donne immigrate? Inoltre, in un quadro di alta partecipazione femminile al lavoro le opportunità di impiego sono state numerose per le donne pratesi, sia in qualità di lavoratrici dipendenti che in ruoli di tipo autonomo o impren- ditoriale. Se storicamente la famiglia artigiana ha mantenuto il carattere di unità produttiva, all’interno della quale le donne partecipavano all’attività tessile non in maniera autonoma e individuale, ma in quanto membri della famiglia, contribuendo alla composizione del reddito familiare, più recente- mente emergono elementi di discontinuità rispetto al modello tradizionale della coadiuvante familiare: nel quadro complessivo di nuovi atteggiamenti e comportamenti femminili rispetto al mondo del lavoro, sostenuti da un intenso processo di innalzamento dei livelli di istruzione, l’attività autonoma delle donne pratesi risulta attualmente più complessa e meno identificabile con la figura della coadiuvante familiare dei decenni scorsi. L’imprendito- rialità diffusa al femminile – a partire dal modello tipico della coadiuvante familiare per arrivare ad una presenza femminile affrancata dal rapporto di subordinazione rispetto all’attività familiare e più orientata verso settori di- versi dall’industria tessile – contamina, e in quale misura, anche le donne immigrate?

L’analisi, dunque, propone una prospettiva che renda visibile l’immagine delle donne in migrazione, superando la visione stereotipata che la condannava ad un ruolo completamente subalterno, sia nei progetti migratori – anche in quelli a carattere familiare – sia nel mercato del lavoro, prestando attenzione alle tendenze innovative, come quelle del lavoro autonomo, che, seppure an- cora minoritarie, possono rappresentare, soprattutto per le donne straniere, percorsi alternativi di inserimento nel mercato del lavoro.

3.2. La femminilizzazione dei flussi migratori nel distretto

Nel documento Introduzione (pagine 77-80)