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LA QUALITÀ DEL PRODOTTO. LA COMMERCIALIZZAZIONE

Il discorso sul livello qualitativo delle uve o del vino ottenuto assu-me un valore importantissimo nell'area in esaassu-me, per vari ordini di motivi.

Innanzi tutto va premesso che una buona porzione dei terreni vitati è suscettibile di fornire un prodotto di pregio e altresì (cosa che non sempre avveniva qualche anno addietro) ricercato. Tale suscettività va pertanto coltivata se non, in qualche caso, anche esaltata sull'esempio di quanto avviene in altre regioni e in altri Paesi.

Ma la valorizzazione della qualità è ormai una necessità vitale in un ambiente viticolo come quello astigiano, dove le produzioni unitarie non sono elevate e dove la morfologia dei terreni non è certamente fa-vorevole a un grado di meccanizzazione delle lavorazioni molto spinto. In prospettiva a lungo termine, quando cioè saranno usciti dall'agri-coltura gli attuali anziani viticoltori, che notoriamente conseguono, e accettano per forza di cose, redditi non molto elevati e conseguiti im-piegando notevoli e onerose quantità di lavoro, si dovranno proporre (e già si devono offrire oggi alle leve più giovani) adeguati livelli di red-dito. Se però presentano limiti non molto estensibili sia le produzioni unitarie e sia la meccanizzabilità delle lavorazioni, non si può sostenere la concorrenza di altre regioni nel produrre vini correnti, bensì bisogna puntare decisamente sulla qualità; fortunatamente tale suscettività è in moltissime plaghe ad un livello molto buono. Altro motivo che impone tale scelta è anche quello delle dimensioni non solo delle aziende ma anche degli impianti delle cantine sociali, dimensioni che, come si è detto, in moltissimi casi non sono certo le più adatte per produrre grandi quantitativi di vino cosiddetto di massa.

5.1.7 vini prodotti

I vini che tengono banco nell'area in esame sono il barbera e poi il moscato.

Sono interessate al barbera tutte le cantine: per il 90-100% della produzione totale una dozzina di esse, e per il 60-80% altre 15. Scarsa-mente produttrici sono soltanto le cantine di Cossano Belbo e poi di S. Stefano Belbo e Canelli. Il barbera prodotto è in buona parte a

denominazione d'origine controllata: Barbera d'Asti, Barbera del Monferrato, Barbera d'Alba (quest'ultimo prodotto dalla cantina di Govone). Va notato a questo punto come si debba addirittura lamenta-re una mancata valorizzazione del prodotto DOC, per incuria dei pro-duttori; si possono citare come esempio i casi macroscopici di Momba-ruzzo (dove viene denunciata come Barbera d'Asti metà della superfi-cie reale), di Vigliano d'Asti, di Cortiglione, di Montaldo Scarampi ed altri ancora. Nell'ambito dello stesso Barbera d'Asti si potrebbero poi distinguere gamme ben differenziate di qualità: così ad esempio il pro-dotto della Val Tiglione è dotato di buon corpo e si distingue pertanto da quello di Castagnole Lanze, caratterizzato da maggior finezza, o da quello del Nicese od ancora da quello delle cantine dell'Alessandrino.

Il moscato (DOC: Moscato naturale d'Asti, Moscato d'Asti spu-mante o Moscato d'Asti, Asti Spuspu-mante o Asti) interessa ben 18 canti-ne sociali, e cioè tutte ad esclusiocanti-ne di quelle della Val Tigliocanti-ne, nonché di quelle comprese nella zona tra il Tiglione e il Tanaro e di quelle oltre il Tanaro. Esso prevale in percentuale nelle cantine di Canelli, S. Stefa-no Belbo, Calosso e CossaStefa-no Belbo; raggiunge percentuali dal 20 al 40% altresì in quelle di Castagnole Lanze, Ricaldone, Castel Boglione, Alice - Sessame, Maranzana, Castelrocchero, Calamandrana. La pre-senza del moscato è molto salutare per le cantine, sia a motivo di una favorevole situazione di mercato che sembrava radicata, sia perché i conferimenti di tali uve sono pressoché totali (i soci non dispongono in genere delle attrezzature necessarie per ben vinificare queste uve e per conservare il vino prodotto, né hanno convenienza a cedere parte del-l'uva ai commercianti, per i motivi che diremo), sia perché il vino pro-dotto viene subito richiesto dagli industriali del settore: si ottengono pronti ricavi quanto mai preziosi. In tali condizioni si possono liquida-re ai soci pliquida-rezzi molto soddisfacenti, e anche molto superiori alle quo-tazioni di mercato, specie quando si è in grado di imbottigliare il pro-dotto e di smerciarlo in proprio. Se si pensa alla situazione di qualche anno addietro, in cui era grave la soggezione dei produttori nei con-fronti degli industriali del -moscato, si deve convenire che la funzione esercitata dalle cantine a questo riguardo è stata veramente notevole (1).

Le cantine alessandrine e quelle limitrofe dell'Acquese sono inte-ressate al Dolcetto d'Acqui. Le due cantine di Castelrocchero ne pro-ducono per il 25-30% della loro produzione vinicola complessiva, per il 15-20% Ricaldone e Alice Nuova, per l'8-9% Cassine e Alice - Sessa-me, per quote minori Fontanile, Mombaruzzo, Maranzana e altre 4 cantine. Producono invece Dolcetto d'Alba la cantina di Cossano

Bel-ìi) Le industrie del moscato, con alla testa tre di fama mondiale, imponevano i prezzi e agiva-no oltretutto in condizione di oligopolio.

bo (un terzo della sua produzione globale, fondata sul moscato) e quel-la di S. Stefano Belbo'.

In sensibile ripresa è l'interesse per il Grignolino, che ritroviamo tra le produzioni di Rocchetta Tanaro, S. Marzanotto, Montaldo Sca-rampi, e più marginalmente in 4-5 altre.

Il Brachetto d'Acqui è tenuto in buon conto dalle cantine di Maran-zana e Castelnuovo Belbo, maggiori interessate, ed è vinificato in altre 12 cantine. Va rilevata la presenza di un particolare tipo di brachetto a Sessame, caratterizzato da un profumo particolare e intenso: la sua mancata valorizzazione ne fa diminuire però continuamente la superfi-cie, poiché non si ottengono produzioni che di 60-65 quintali di vino ad ettaro.

Tra gli altri vini prodotti nell'area vi sono il Freisa (più che altro a Castelnuovo Belbo e Mombercelli) e il Cortese (maggiormente a Inci-sa, Mombaruzzo, Rocchetta Tanaro).

Va rilevata la difficoltà, ovvia, di vinificare piccoli quantitativi di uve d'una data qualità. Perciò è inevitabile che, quando pure il produt-tore non abbia già lui stesso mescolato alle uve barbera le piccole quan-tità di altre uve prodotte, la cantina proceda il più delle volte a una vi-nificazione di tali uve insieme alle uve barbera. Tale è il destino, oltre alle uve sin qui menzionate, anche di altre, nere e bianche (queste ulti-me possono essere anche vinificate con il moscato o il cortese); tra esse si possono citare bonarda, malvasia, lambrusca, riesling, alicante, bor-gogna, merlot, moscato nero, uvalini, mila, fogarina, formentino, tin-toria, Clinton. Quest'ultima, detta anche uva ibrida, è particolarmente diffusa a Rocchetta Tanaro, peraltro in via di sostituzione con barbe-ra.

Come si è detto, qualche cantina, con l'intento di aumentare lo scarso livello dei conferimenti, si approvvigiona di mosti di cantine so-ciali venete o di uve torchiate sia rosse che bianche di cantine romagno-le, uve che vengono ripassate sulle vinacce di barbera. La fermentazio-ne del prodotto, rafforzato anche col mosto meridionale (o tagliato più tardi con vino pugliese, Tossissimo emiliano, ecc.) e mescolato alle uve barbera e nere locali, dà un vino che ha caratteristiche di barbera, e che pur senza avere pretese di pregio è egualmente un buon vino corrente. 5.2 .La correzione della produzione

Il discorso sulla qualità del vino richiama quello sulle pratiche enologiche volte a migliorarla, e tira in ballo di conseguenza la cattiva nomea che le cantine sociali hanno acquistato al riguardo, dovuta al-l'eccessiva disinvoltura con cui qualcuna di esse (e la stessa consocia-zione Asti - Nord) ha operato in passato.

intan-to premesso che si tratta di artifici volti per lo più a produrre vini cor-renti, che altrimenti in determinate cattive annate potrebbero incontra-re difficoltà di smercio se non addirittura di conservazione. Nel caso però di qualche cantina che non gode dell'incondizionata fiducia dei soci, e che pertanto (in violazione delle norme che prevedono confementi totali) si vede conferire le uve più scadenti, è conseguente il ri-corso anche in annate normali a pratiche enologiche atte a rendere ta-lune partite accettabili dal consumatore. Ovviamente, è escluso da tali pratiche lo zuccheraggio (salvo per lo spumante), e in ciò la cantina è svantaggiata rispetto al vinificatore non associato, non potendo essa assolutamente correre l'alea di un controllo (più probabile da verificar-si) che possa poi rivelarsi positivo.

Per valutare la portata del fenomeno vanno esaminate le voci di bi-lancio relative agli acquisti di mosti e vini da taglio, nonché quelle che riguardano gli «ingredienti enologici» (nei quali sono sovente compresi anche mosti e vini). Per massimizzare l'entità del fatto, assumiamo i dati relativi al 1972-'73; com'è noto, la vendemmia 1972 è stata al-quanto insoddisfacente per qualità e quantità. Ebbene, in tale anno l'universo delle cantine aveva sostenuto una spesa per vini, correttivi e ingredienti enologici pari a 590,5 milioni di lire, contro un importo di 5.414 milioni pagati per le uve conferite (10,9%).

La cifra, considerate le caratteristiche dell'annata, non è di per sé molto rilevante. Va inoltre notato come sia forte innanzi tutto il peso esercitato dagli acquisti di una sola cantina (oltre 222 milioni), dotata di una rete di smercio molto estesa e tale da richiedere una vasta gam-ma di vini, che essa non produce e che si procura presso altri detentori. Poi è doveroso precisare che il grosso dell'importo complessivo è in de-finitiva da attribuire a poche cantine: 7 di esse totalizzano infatti ben l'86% del complesso (una sola, delle 6, versa in situazione veramente critica). Una ottava cantina denuncia, in tale anno, una percentuale del 26% di acquisti di correttivi rispetto all'importo delle uve conferite, e, altre due rispettivamente dell'8,5% e del 13% (queste 3 cantine non fi-gurano tra le migliori). Per le altre 23 cantine, e cioè per una netta maggioranza di esse, la situazione si presentava in questi termini: 13 cantine hanno speso in correttivi meno dell'1% dell'importo di liqui-dazione delle uve, 3 dall'I al 2%, altre 3 dal 2 al 3% e 3 ancora dal 3 al 4%.

Se esaminiamo invece i dati relativi all'annata 1973-1974, caratte-rizzata da un buon livello qualitativo delle uve, è agevole constatare come l'incidenza sia bensi minore (722,8 milioni spesi per «correttivi» e «ingredienti enologici», contro 8.912,8 pagati per le uve conferite, pari all'8,1%), ma ugualmente su livelli di rilevante portata. Si ripete tuttavia l'incidenza forte degli acquisti della solita cantina (oltre 241 milioni) nonché di altre 9 per importi di un certo peso: queste 9 cantine si attribuiscono l'86,6% del totale. In definitiva, 12 cantine hanno

spe-so meno dell'1% delPimporto delle uve, altre 4 1'1-2%, 2 il 2-3%, altre 3 sino al 5%; in un gruppetto di 6 cantine tale percentuale sale al 13-16%. Infine nelle 5 rimanenti cantine si sale rispettivamente a quote del 21, 27, 44, 57 e 70%: in una il ricorso a prodotto esterno rientra nella normalità, a motivo delle lavorazioni praticate e della gamma di vini richiesta nell'area commerciale della cantina (è la cantina che

re-gistra il 44%), mentre negli altri casi si tratta di cantine con scarsi livel-li di conferimenti da parte dei soci.

Per riassumere, la maggioranza delle cantine fa ricorso marginal-mente ai cosiddetti «correttivi e ingredienti enologici», e un numero ri-dotto di esse ne necessita per far fronte ad esigenze di lavorazione (le cantine del moscato, cioè); rimane una minoranza di cantine che versa-no in situazione critica, e che per ovviare a conferimenti scarsi per quantità e scadenti per qualità devono approvvigionarsi di vino da ta-glio od anche di uve torchiate, prodotti che vengono compresi nella vo-ce di bilancio di cui sopra.

Il discorso sui correttivi richiama quello sulla presenza di enologi capaci ed esperti. Purtroppo, in generale, non si può sostenere che dap-pertutto operino enologi d'alto livello; da un lato infatti molte cantine non hanno ampiezza sufficiente per giustificare il mantenimento di un enologo fisso (è frequente tuttavia il rapporto di consulenza, oppure l'assunzione in società con altre cantine), e dall'altro le disponibilità di bilancio in genere non sono tali da permettere adeguate remunerazioni per gli enologi migliori, che trovano quindi maggior convenienza ad impiegarsi presso le grandi industrie enologiche, presenti in buon nu-mero nella zona. Sovente l'enologo deve adattarsi a particolari situa-zioni, divenendo nello stesso tempo anche direttore della cantina o quanto meno delle vendite, o persino segretario e contabile. Alcune cantine dispongono tuttavia di enologi fissi delegati per questo specifi-co specifi-compito, e specifi-con qualità professionali molto spiccate. Indubbiamen-te, e specie se verrà sviluppato il ricorso all'invecchiamento dei vini, la presenza di enologi capaci è fondamentale, e da molte parti si invoca l'intervento della Regione o di altri enti pubblici per consentire anche alle piccole cantine (sia pure consorziate per questo servizio) di soste-nere le spese relative.

5.3 .La valorizzazione attuale della produzione

Oltre al miglioramento della qualità in annate poco favorevoli o nei casi in cui vengono conferite uve scadenti, miglioramento che si effet-tua come detto poc'anzi con l'uso di correttivi, vi sono poi altre azioni volte a valorizzare tutta o una parte della produzione. Così la cernita delle uve, l'invecchiamento del vino, l'imbottigliamento, la spuman-tizzazione del moscato.

Il luogo comune secondo cui le cantine sociali uniformano la quali-tà del vino, vinificando tutta assieme la produzione dei soci, ha fonda-menti molto labili, almeno nella zona in esame. V'è infatti la propen-sione a differenziare la vinificazione per partite, non certamente singo-le e piccosingo-le ma tuttavia omogenee (1). È bensì vero che la piccola parti-ta di pregio d'un determinato cru può essere adeguaparti-tamente valorizza-ta solo dal paziente e appassionato vignaiolo, ma è altretvalorizza-tanto certo che anche nelle cantine sociali, e specie in quelle di non grandi dimen-sioni, è possibile trovare vino proveniente da vigneti privilegiati per qualità (e tale possibilità sarebbe ancor maggiore se i conferimenti fos-sero effettivamente totali).

Non solo si tiene conto delle partite pregiate, che vengono vinifica-te a sé (del resto le cantine dell'area dispongono ciascuna di molvinifica-te va-sche, talvolta anche piccole), ma si praticano anche cernite delle uve (a Calamandrana ad esempio si effettuano tre cernite per partita). E non sono poche le cantine che, nella liquidazione delle uve in base alla gra-dazione, premiano con un sovrappiù le gradazioni migliori, anche per invogliare a conferire le buone partite.

L'invecchiamento purtroppo è praticato in una misura molto ridot-ta rispetto alle possibilità insite nell'elevato pregio di una buona parte della produzione. Il motivo principale è costituito sia dal costo delle attrezzature (quasi tutte le cantine devono ancora pagare una parte dei costi stessi d'impianto), ma soprattutto dal problema delle anticipazio-ni ai soci, i quali non possono certo attendere la liquidazione delle uve per parecchi anni. Le cantine che maggiormente invecchiano il vino so-no quelle di Castel Boglione, S. Stefaso-no Belbo e Calamandrana, men-tre molte almen-tre ve ne sono che invecchiano soltanto partite ridotte, del-l'ordine massimo di 1.000-1.500 ettolitri. Per contro, vi sono cantine interessate a pregevoli produzioni, che non procedono affatto ad in-vecchiare neppure una parte minima del prodotto (Agliano Salere, Castelnuovo Belbo, Mombaruzzo, Cassine, Ricaldone, La Castelroc-chese, Nizza, Calosso, Cossano Belbo ed altre).

Recentemente qualche cantina ha proceduto a realizzare impianti di invecchiamento, o a progettarli in attesa di adeguato finanziamento. Così le cantine di Castel Boglione (impianto parzialmente realizzato, capienza 3.500 hi con obiettivo di 15.000 nel prossimo futuro), di Alice Nuova (progetto per 6-7.000 hi, finanziabile per un terzo con disponi-bilità proprie), di Castelrocchero (1.400 hi, già realizzato), di Nizza (pratica a buon fine), di Ricaldone (il progetto è costoso rispetto alle possibilità di autofinanziamento e pertanto viene tenuto da parte in

at-(1) Persino cantine che producono essenzialmente vini di massa, come ad esempio quella di Rocca d'Arazzo, dispongono di due pigiatrici, una per le uve migliori c l'altra per quelle meno buone.

tesa di momento migliore), di Cassine, Maranzana, Cossano Belbo, La Castelrocchese. In relazione a quanto detto a proposito della necessità di puntare al massimo sulla qualità, l'invecchiamento è una compo-nente talmente fondamentale da meritare un serio esame, in relazione sia alle spese di installazione degli impianti e sia soprattutto, ripetiamo ancora, alle anticipazioni ai soci. Attualmente, le attrezzature di in-vecchiamento esistenti sono dimensionate nel complesso su circa

17.500 hi.

L'imbottigliamento sarebbe un modo appropriato per valorizzare la produzione, ma il problema non è semplice come appare a prima vi-sta. Un impianto razionale richiede infatti, a parte una sicura e funzio-nale rete di smercio, un investimento che va adeguatamente ammortiz-zato; errori perniciosi sono stati compiuti al riguardo in parecchie can-tine astigiane. Nell'area in esame, a parte i casi negativi di Castagnole Lanze e di Montegrosso, le cantine hanno invece continuato a far ri-corso a sistemi di imbottigliamento artigianali o tutt'al più semiauto-matici, salvo nel caso di preciso orientamento verso il prodotto imbot-tigliato (S. Stefano Belbo, Canelli, Calamandrana). Tali sistemi, oltre che ad essere poco costosi all'impianto, permettono di imbottigliare nei periodi di stasi dei lavori di cantina quei quantitativi che il mercato richiede senza che siano necessarie azioni promozionali per il colloca-mento. In conclusione, su 32 cantine, 26 dispongono di impianti di ti-po familiare o semiautomatici, 4 non sono affatto dedite all'imbotti-gliamento, nonostante il pregio delle loro produzioni (sono infatti le cantine di Mombaruzzo, Fontanile, Castelrocchero e Castagnole Lan-ze: quest'ultima, come si è detto, aveva installato un impianto costoso che però non ha mai potuto funzionare) ed infine 2 dispongono di pianto automatico: S. Stefano Belbo (quasi tutta la produzione è im-bottigliata e smerciata in proprio), Canelli (oltre un milione di bottiglie all'anno prodotte). Calamandrana (imbottigliato sino al 40-45% della produzione), S. Marzanotto, Castel Boglione e Montegrosso (inattivo) hanno impianti semiautomatici. Vi sono casi in cui, oltre all'imbotti-gliamento con sistemi artigianali, si ricorre anche ad altre cantine che dispongono di grossi impianti: così ad esempio la cantina Alice Nuova provvede in proprio ad imbottigliare i vini rossi e si rivolge invece alla cantina di S. Stefano Belbo per imbottigliare i vini bianchi. Le cantine di S. Stefano, Canelli e Calamandrana praticano anche la spumantiz-zazione del moscato.

L'imbottigliamento comunque, considerando la parte di produzio-ne veramente meritevole di bottiglia, potrebbe essere fortemente svi-luppato rispetto ai livelli attuali; esso può essere realizzato, in termini economici convenienti, soltanto con sistemi familiari ma ovviamente di limitata portata, oppure con impianti razionali che presuppongono la lavorazione annua di parecchie centinaia di migliaia di pezzi. Doven-do considerare solo impianti razionali, e cioè di adeguata ampiezza ed

economici, è evidente come essi siano nettamente al di fuori delle pos-sibilità della maggior parte delle cantine. Emerge a questo punto il di-scorso su un organismo di secondo grado che provveda, tra le altre in-combenze, anche a imbottigliare il vino delle cantine consociate; di es-so si dirà in apposito capitolo.

Nell'organismo di secondo grado sono altresì riposte molte speran-ze per una più vantaggiosa commercializzazione del prodotto. Uno degli scopi che le cantine si propongono, e cioè quello di valorizzare la produzione cedendola direttamente al consumo (sia pure tramite i det-taglianti, gli esercizi pubblici ecc.), è vanificato dal fatto che una gran parte del vino prodotto viene ceduta a commercianti cui va per intero tra l'altro il beneficio della valorizzazione della qualità. È opportuno all'uopo esaminare gli aspetti salienti della commercializzazione, per evidenziare tale mancata valorizzazione.

5.4. La commercializzazione del vino delle cantine sociali

Il vino delle cantine sociali è ceduto in gran parte ai commercianti: questo è il punto che riassume il fallimento di uno degli scopi principali della cooperazione, fallimento tanto più bruciante in quanto sovente è in ballo un prodotto di qualità.

La presenza delle cantine si traduce addirittura in vantaggi che ven-gono creati per i commercianti. Questi infatti, anziché dover raccoglie-re piccole partite dai singoli produttori, e sovente dover corraccoglie-reggerne qualcuna, fruiscono della disponibilità di quantitativi relativamente abbondanti, sufficientemente omogenei, già pronti per il consumo, ed