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L’approccio antropologico al parto e alla nascita: quale visione? L’approccio antropologico che caratterizza questo lavoro consen-te di guardare alle politiche e alle pratiche del parto e della nasci-ta con uno sguardo più ampio rispetto alla prospettiva biomedi-ca. La gravidanza, il parto e la nascita sono infatti, per loro natu-ra, dei processi complessi: Brigitte Jordan, antropologa statuniten-se pioniera degli studi sulla nascita, li definisce al contempo bio-psico-culturali e sociali (Jordan, 1993). Si tratta di momenti che com-prendono la totalità esistenziale della persona e della sua rete so-ciale e la cui multidimensionalità difficilmente può essere interpre-tata in chiave esclusivamente biomedica: come se il parto e la na-scita fossero, cioè, esclusivamente “fatti medici”.

La visione collettiva di questi processi è però nella nostra socie-tà ben poco antropologica: in tutta Europa, in generale, si assiste ad una medicalizzazione crescente del percorso nascita: gravidanza, par-to e puerperio sono considerati momenti sempre più “a rischio”, per cui il controllo o l’intervento medico costante risultano essere fon-te di sicurezza, sia per le donne sia per i professionisti.

“Medicalizzare” significa, infatti, ricondurre eventi o processi della vita quotidiana alle categorie interpretative della biomedici-na. Ciò avviene a tutti i livelli, sia specialistico che di senso comu-ne. Ovviamente, più il sapere è egemonico (e la biomedicina in-dubbiamente lo è) più le altre possibilità interpretative vengono de-legittimate o ignorate; in altre parole, il modello di riferimento di-venta univoco e unidirezionale. Nel nostro caso, come vedremo, ciò è evidenziato dal fatto che per la maggioranza delle donne

ita-liane quando si è incinte è normale rivolgersi a un ginecologo (un medico) e partorire in ospedale (un luogo adibito alla cura degli ammalati). I processi del parto e della nascita vengono inseriti na-turalmente – in quanto questo è il paradigma dominante nella no-stra cultura – in una cornice di senso che rimanda alla visione bio-medica, senza neppure prendere in considerazione altre opzioni. Cosa significa esattamente tale visione che noi incorporiamo e adot-tiamo automaticamente e acriticamente? Tra le innumerevoli ca-ratteristiche e la comprovata non omogeneità1, l’approccio biome-dico si distingue per essere fortemente organicista, riduzionista, po-sitivista ed empirista (Lock, Gordon, 1988; Kleinman, Lock, 1997; Gaines, Davis-Floyd, 2003; Baer, Singer, Susser, 2003; Hahn, In-horn, 2009; Lock, Nguyen, 2010, Cozzi, 2012).

In merito alla gravidanza, al parto e alla nascita medicalizzare significa ricondurre tali eventi alla dimensione patologica, ossia con-siderarli e trattarli come se fossero delle malattie. La riduzione di un processo complesso a un’unica dimensione (quella medica) lo spoglia di molte delle sue componenti, rendendolo meno signifi-cativo sul piano culturale e sociale ed enfatizzando, al contrario, la componente organica. Per utilizzare delle categorie care alla ri-flessione antropologica sulla salute e la malattia, se il parto e la na-scita vengono interpretati e analizzati esclusivamente attraverso la categoria disease (patologia) e le dimensioni illness (individuale) e sick-ness (collettiva), cioè rispettivamente l’esperienza della donna e del-la sua rete sociale e l’interpretazione deldel-la nascita quale processo fortemente connotato in tutte le società, vengono quanto meno offuscate, se non del tutto eluse (Young, 1981; Good, 1999; Klein-man, 1995).

Nell’ottica biomedica, le donne incinte divengono dunque tut-te potut-tenzialmentut-te a “rischio” di complicanze, a prescindere dal loro reale stato di salute e di quello del loro bambino. In altre parole, la gravidanza diventa un momento liminale in cui si è “naturalmen-te” esposte al rischio, e in cui ci si deve sottoporre a continui con-trolli diagnostici per scongiurare qualsiasi esito negativo. Il parto stesso, in questa prospettiva, è concepito come un “evento

nor-male” solo a posteriori: quando cioè, una volta nato il bambino, non si è verificata alcuna complicanza (Pescecco, De Cecco, Pe-corari et al., 2015).

Questo approccio eccessivamente centrato sul “rischio” non cor-risponde alle evidenze scientifiche, che dimostrano come le gra-vidanze a rischio o patologiche costituiscano meno del 20% di tut-te le gravidanze (WHO, 1996). L’80% di questut-te sono, invece, del tutto fisiologiche. Il concetto di rischio applicato dalla biomedici-na ai processi gravidanza-parto-biomedici-nascita risulta essere dunque esa-geratamente impiegato, quando non abusato. Ciò è stato rilevato più volte dall’OMS, che già nel 1996 ha sollecitato una rivisitazio-ne di tale prospettiva (WHO, 1996).

Medicalizzazione non significa solamente proiettare uno sguar-do patologico su processi di natura fisiologica (con ciò che que-sto comporta nella pratica clinica, come vedremo). Significa anche aderire ad una visione settoriale dell’intero processo, il quale per-de, in questo modo, la sua dimensione continuativa, per diventa-re una somma di eventi separabili l’uno dall’altro. Basti pensadiventa-re a quanti specialisti prendono in carico la madre e il bambino nelle prime ore successive alla nascita (ostetrica, ginecologo, neonato-logo, infermiere pediatrico, pediatra, ecc.). La continuità del pro-cesso di cura e assistenza è interrotta da diversi elementi, a volte coesistenti. Innanzitutto dalla fisicità dei luoghi (sono ancora trop-pi gli ospedali italiani che non prevedono il rooming-in, cioè il po-ter tenere il bambino con sé nella propria stanza dopo il parto), o dalle convinzioni dei singoli professionisti (sono, per esempio, trop-pi i pediatri o le infermiere pediatriche che suggeriscono l’allatta-mento al seno a orari fissi o che propongono d’ufficio l’integra-zione del latte materno con il latte in polvere), infine, da una con-cezione d’insieme – paradigmatica direi – che nella sua struttura più profonda interpreta e costruisce tali processi secondo una vi-sione iperspecializzata, incapace di gestire il processo nella sua con-tinuità fisiologica. Ancora una volta si tratta di una visione profon-damente riduzionista e organicista. La costruzione del corpo come macchina e come oggetto medico, così come l’attenzione a una

sin-gola parte del corpo, piuttosto che alla persona nella sua totalità, sono del resto argomenti ben indagati nella riflessione antropolo-gica (Good, 1999) e assolutamente pertinenti alle tematiche ripro-duttive (Martin, 1987; Duden, 1994-2006; Lock, Kaufert, 1998; Fau-sto-Sterling, 2000; Lock, Farquahar, 2007).

Dentro questo quadro interpretativo trovano legittimazione non solo pratiche a volte non necessarie dal punto di vista clinico, ma anche poteri e autorevolezze insite nel discorso biomedico che – nel caso del parto – indirizzano la donna incinta verso percorsi af-fini a quelli previsti per la patologia anche nel caso di una gravidan-za del tutto fisiologica. Non si tratta ovviamente di “cattivi propo-siti”, da parte della classe medica o del singolo professionista; sia-mo di fronte, al contrario, a complessi meccanismi sociali di legit-timazione e di autolegitlegit-timazione della propria pratica e del proprio sapere, che diventano dispositivi egemoni autosufficienti nella loro perpetuazione; e in cui i discorsi “altri” trovano poco spazio di af-fermazione (Gaines, Davis-Floyd, 2003; Illich, 2005; Fassin, 1996; Seppilli 1996; Jordan, 1997; Freidson, 2000; Menéndez, 2003).

Il parto e la nascita costituiscono sicuramente casi emblemati-ci in questo senso e la letteratura sulla loro trasformazione da fat-ti sociali e quofat-tidiani a evenfat-ti medico-patologici è ormai consisten-te (Kitzinger, 1978; Pizzini, 1981; Artschwager, 1982; Oakley, 1984; Oakley, 1985; Colombo, Pizzini, Regalia, 1987; Rothman, Katz, 1989; Davis-Floyd, 1992; Rich, 1995; Davis-Floyd, Sargent, 1997; Piz-zini, 1990; Ranisio, 2000; Davis-Floyd, Franklin, Lock, 2003; Be-stetti, Colombo, Regalia, 2005; Davis-Floyd, Barclay, Daviss et al., 2010; Maffi, 2010; Ranisio, 2012).

Si tratta di riflessioni che entrano nel dibattito antropologico già negli anni Settanta, quando con l’interesse crescente per gli stu-di stu-di genere si delinea un nuovo campo stu-di ricerca, definito negli Stati Uniti Anthropology of Birth (Mac Cormack, 1982; Davis-Floyd, Sargent, 1997). Protagoniste di quegli anni sono diverse antropo-loghe che spesso condividono una matrice femminista e che evi-denziano come il parto e la nascita siano processi indagati quasi sempre in modo marginale nelle etnografie classiche e in modo

fun-zionale all’analisi di altri aspetti del vivere sociale, considerati più significativi. Lo sguardo quasi esclusivamente maschile che con-nota tali studi diventa un elemento di analisi nella ridefinizione di categorie, concetti, ruoli e statuti promossi dall’antropologia del-la nascita e, in generale, dai cosiddetti gender studies (Mac Cormack, Strathern, 1980).

Il rinnovato interesse per le tematiche legate alla riproduzio-ne, che nella nuova prospettiva divengono centrali, conduce alla produzione di una vasta letteratura. In un primo momento, ne-gli anni Ottanta, si tratta di studi volti soprattutto al confronto tra culture diverse (cross-cultural studies). Si evidenzia come partorire e nascere – processi fisiologici e dunque universali – assumano con-notazioni particolari nelle diverse società (Lozoff, Jordan, Malo-ne, 1988; Kitzinger, 2000). Il come si partorisce (in merito alle pra-tiche, alle figure, ai ruoli e ai valori che ruotano attorno alla na-scita) sembra essere infatti per niente uguale nelle diverse cultu-re. Al contrario, nel confronto comparativo emergono profonde differenze. Lo studio ormai classico di Brigitte Jordan sul parto e la nascita in quattro culture (statunitense, maya, svedese e nor-vegese) rientra in questo filone di ricerca. Il concetto di sistema di nascita, definito da Jordan come «l’insieme di pratiche e di con-vinzioni internamente coerenti e reciprocamente dipendenti parte di un sistema ideologico più ampio» (Jordan, 1993: 7) si af-ferma quale categoria di analisi feconda per comprendere come la nascita sia organizzata socialmente e interpretata culturalmen-te nei differenti conculturalmen-testi e come inculturalmen-terrogarsi su di essa possa far luce su processi sociali più ampi, quali le relazioni tra uomini e don-ne, le dinamiche di potere o i rapporti tra saperi egemoni e sape-ri cosiddetti tradizionali.

Sono proprio le dinamiche di potere, e in particolare quelle che investono le relazioni tra sapere scientifico globale e saperi locali, a destare un interesse crescente da parte degli studiosi negli ultimi decenni. La biomedicina è ormai da tempo analizzata come un si-stema culturale e sociale al pari delle medicine altre (Kleinman, 1978-1980; Young, 1982; Good, 1999). In questa prospettiva i

disposi-tivi che contribuiscono alla costruzione del discorso biomedico ven-gono criticamente analizzati e in molti casi demistificati da antro-pologi e scienziati sociali dando vita a un fervido dibattito tra teo-rici maggiormente affini a posizioni ermeneutico-interpretative e prospettive più radicali, che rimandano, per esempio, alla teoria cri-tica (Foucault, 1969-1976; Kleinman, Das, Lock, 1997; Good, 1999; Baer, Singer, Susser, 2003; Mattingly, Garro, 2000; Illich, 2005; Taus-sing, 2006; Hahn, Inhorn, 2009). L’antropologia medica si pone in questi anni come partner dialogico della biomedicina, con l’inten-to di contribuire alla discussione critica sui limiti del biologismo e del riduzionismo e ricordando la natura sempre sociale (mai “na-turale”) dei processi salute-malattia-assistenza. La biopolitica – os-sia la gestione politica del corpo umano – diventa una chiave inter-pretativa sempre più interessante per comprendere i processi di me-dicalizzazione crescente della nostra vita (Foucault, 1969-1976; Ni-chter, 2008) e terreno di confronto per una nuova generazione di antropologi medici. A partire dagli anni Novanta, l’approccio cri-tico che caratterizza la riflessione teorica più attenta alla dimensio-ne socio-politica dimensio-nella produziodimensio-ne della salute e della malattia per-mette di evidenziare al meglio i rapporti di forza che contribuisco-no all’elaborazione, perpetuazione e a volte imposizione di un di-scorso e di una pratica, piuttosto che di altre; in particolare, por-tando alla luce quei meccanismi di potere legati alla biomedicina, che producono un sapere così autorevole in tema di salute e di ma-lattia da rendere non immaginabili percorsi alternativi (Good, By-ron, Fischer, Willen, Del Vecchio, Good, 2010).

Tali argomenti risultano particolarmente fecondi all’avanzare degli studi sul parto e sulla nascita. La medicalizzazione del par-to nelle società postmoderne e la pretesa esportabilità di tale ap-proccio anche in contesti molto diversi, diventano temi prepon-deranti su cui interrogarsi. Ancora una volta, si sottolinea l’impor-tanza della dimensione sociale e culturale di tali processi e i peri-coli di un riduzionismo medico, troppo volto all’organicismo e al-l’interventismo, e poco attento alle esigenze e alle aspettative del-le donne e dei loro bambini neldel-le loro rispettive culture (Sheper

Hughes, Lock, 1987; Lock, Gordon, 1988; Johnson, Sargent, 1990; Menéndez, 1990; Lindebaum, Lock, 1993; Kleinman, 1995; Fas-sin, 1996; Kleinman, Das, Lock, 1997; Good, 1999; Nichter, Lock, 2002; Farmer, 2003; Good, Fischer, Willen et al., 2010; Browner, Sargent, 2011).

Emergono da questi studi almeno quattro considerazioni, che rappresentano il quadro tematico dentro cui si sviluppa il mio la-voro e che saranno riprese e approfondite nel corso dello studio. La prima, cui ho già accennato, rimanda a un interventismo me-dico esageratamente praticato e a volte non giustificato dal pun-to di vista clinico, sia durante la gravidanza che durante il parpun-to. La seconda riguarda le donne incinte, che si ritrovano spesso espro-priate di un ruolo attivo nella gestione del proprio corpo e della propria salute e – dentro meccanismi complessi di legittimazione sociale della prassi biomedica – delegano acriticamente e incon-sapevolmente alle istituzioni sanitarie aspetti che non necessaria-mente rimandano alla patologia, né necessitano di uno sguardo cli-nico. La terza considerazione riguarda i professionisti della salu-te, in primis le ostetriche ospedaliere. Queste si formano e opera-no all’interopera-no di una cornice medicalizzata che impedisce loro di cogliere e accogliere gli aspetti sociali, culturali, esistenziali dell’espe-rienza del parto e della nascita, come prevede la loro professione (sanitaria, ma non medica); e tendono a declinare, a volte loro mal-grado, la propria funzione al tecnicismo, alla depersonalizzazione e alla burocratizzazione insite nella struttura ospedaliera. Rigidi pro-tocolli che non lasciano margine alle esigenze del singolo e unico caso, controllo e supervisione medica anche quando non neces-sari, scarsa tutela giuridico-assicurativa in caso di risoluzione di con-flitti, ma anche una formazione volta in modo eccessivo agli aspet-ti patologici del processo riprodutaspet-tivo rappresentano solo alcuni degli elementi che minano alla base l’autonomia della professio-ne e che emergono in maniera consistente anche professio-nella mia ricer-ca. Si tratta di tematiche non certo nuove, né in Italia né altrove, che rappresentano gli aspetti più problematici e ancora non risol-ti dell’assistenza ostetrica isrisol-tituzionale (Guana, Lucchini, 1996;

Da-vis-Floyd, Jenkins, 2005; DaDa-vis-Floyd, Johnson, 2006; Spina, 2009; Cheney, 2010; Davis-Floyd, Barclay, Daviss et al., 2010). La quarta considerazione riguarda la società in generale, e la visione sempre più condivisa del parto e della nascita come eventi stan-dardizzati che richiedono a priori interventi e controlli esterni per potersi svolgere al meglio. Uno sguardo che abbraccia diverse di-mensioni, da quella ambientale (l’ospedale come unico luogo le-gittimo in cui partorire), a quella professionale (il medico-gineco-logo come unico punto di riferimento anche in caso di gravidan-ze non patologiche), a quella corporea (l’epidurale, come panacea per liberarsi da ogni dolore); fino all’idea che persino i tempi e i bisogni del nascituro possano essere in qualche modo controlla-ti e standardizzacontrolla-ti (il neonato che dorme tutta la notte e mangia a orari predefiniti). Si tratta di elementi diversi, che rimandano però tutti alla matrice comune che caratterizza il nostro tempo: le don-ne hanno perso la gestiodon-ne del processo riproduttivo che per se-coli le ha viste protagoniste attive del parto e della nascita. Le co-noscenze e i saperi femminili che permettevano tale gestione non costituiscono più un corpus a cui attingere e a cui integrare i sa-peri scientifici. Ciò conduce, come vedremo, a una perdita di fi-ducia nelle proprie capacità di dare la vita e di seguirla nel suo svi-luppo naturale. Diventa indispensabile l’aiuto esterno, la necessi-tà di rivolgersi ad altri (al professionista) o ad altro (la tecnologia, il ciuccio, il latte artificiale) per ogni minima insicurezza. Come avre-mo avre-modo di approfondire, lo sguardo antropologico non può non cogliere profonde relazioni e perversi intrecci tra questi modi di divenire donna e madre oggi e gli eccessi della medicalizzazione del parto e della nascita a cui siamo giunti.

In questo senso, le esperienze delle donne che scelgono un par-to non medicalizzapar-to dentro un contespar-to di medicalizzazione im-perante rappresentano interessanti esperienze di resistenza, e in que-sta prospettiva saranno indagate in di questo lavoro. Le stesse pro-fessioniste che operano, per certi aspetti, al di fuori della visione medica istituzionale – come le ostetriche che assistono parti a do-micilio in libera professione – mostreranno la loro straordinaria

re-silienza. È una chiave di lettura che trovo estremamente efficace per analizzare i rapporti tra i diversi saperi e le diverse pratiche sul parto e la nascita, e per dar voce alle differenti prospettive, anche quelle apparentemente più marginali.

Il metodo di lavoro

La ricerca sul campo e il campo di ricerca

Una ricerca antropologica è, per definizione, una ricerca qualitati-va, interessata alla profondità del dato che, in linea con le riflessio-ni teoriche contemporanee, più che raccolto è prodotto e costrui-to sul campo (Fabietti, 1999; Pavanello, 2010; Pannacini, 2012). Il fine di un approccio di questo tipo non è quello della semplice de-scrizione del fenomeno osservato o della sua quantificazione, ma la comprensione – il più possibile emica – dell’esperienza e della prospettiva degli attori sociali coinvolti. Ciò significa lo sforzo di cogliere e comprendere le loro categorie concettuali, le loro inter-pretazioni della realtà e le motivazioni dei loro comportamenti: in altre parole, i significati espliciti e impliciti delle azioni umane. In questo processo, il ricercatore si situa con la sua soggettività come un attore tra gli altri e come gli altri costruisce, negozia e rielabo-ra identità e strielabo-rategie operielabo-rative e comunicative, secondo il conte-sto e le necessità (Fardon, 1990). Il riconoscimento del ruolo non neutrale di chi conduce la ricerca è un elemento chiave dell’approc-cio antropologico contemporaneo al lavoro sul campo, che richie-de al ricercatore sia di riflettere costantemente sulle implicazioni teo-riche, metodologiche e pratiche della sua presenza che di rendere espliciti il proprio posizionamento di interlocutore-attore e i risvol-ti erisvol-tici, polirisvol-tici e relazionali del suo ruolo (Scheper-Hughes, 1995; Silverman, 1997; Atkinson, Coffey, Delamont et al., 2003; Hernán-dez-Sampieri, Fernández-Collado, Baptista, 2006).

Nella raccolta/produzione dei dati ho utilizzato tecniche e stru-menti propri della ricerca sociale qualitativa in generale (come il

questionario, l’intervista semi-strutturata, il focus group e l’osserva-zione); e tecniche e strumenti propri delle discipline demo-etno-antropologiche – in particolare del metodo etnografico – quali l’in-tervista etnografica aperta (IEA) e in profondità (IEP), il diario di campo e l’osservazione partecipante. Ai dati raccolti di prima mano, si aggiunga il lavoro di revisione della letteratura nazionale e in-ternazionale sui temi del parto e della nascita, sia di natura antro-pologica che medico-ostetrica, la raccolta di dati statistici (in par-ticolare sociodemografici e assistenziali) e la revisione delle fonti legislative e delle direttive europee, nazionali e regionali.

Come prevedono la metodologia qualitativa e il metodo etno-grafico, durante il lavoro sul campo, il dialogo tra riflessione teo-rica e dati raccolti non si è mai interrotto; anzi, le informazioni di volta in volta prodotte sono risultate utili per delineare meglio al-cune ipotesi iniziali, per affinare il campione dei possibili interlo-cutori da intervistare e per tracciare inediti percorsi interpretativi non prevedibili in fase di progettazione.

Il lavoro che mi accingo a presentare è frutto, dunque, di un lungo e continuo processo di riflessione, rielaborazione e inter-pretazione dei contenuti emersi durante il lavoro sul terreno. Se – come io credo – una ricerca etnografica è di per sé un “cam-po aperto”, in cui “cam-possiamo individuare dei punti fermi, ma dif-ficilmente possiamo delineare dei risultati definitivi, è vero an-che an-che l’esperienza del ricercatore (la sua corporeità come elemen-to significativo dell’essere sul campo) è fonte primaria di talune di queste continue aperture possibili. Per esempio, la nascita dei miei due bambini durante i cinque anni in cui si è svolto lo stu-dio (il primo nel 2011, in ospedale; il secondo nel 2015 in casa), è stata un’esperienza esistenziale che mi ha permesso di vivere il campo di ricerca assumendo nuove prospettive (di sicuro è sta-ta un’osservazione partecipante), che a loro volsta-ta hanno contri-buito a “produrre” e connotare il mio divenire donna incinta, par-toriente, madre e ricercatrice.

La ricerca è iniziata nell’agosto del 2010 e si è conclusa nel mese di settembre 2015. Nei primi mesi di lavoro mi sono occupata di

reperire e visionare la documentazione bibliografica sul parto e la

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