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La scuola come laboratorio di pratiche intercultural

6.A. La mescolanza da noi

a.1 Il sincretismo in Europa

Il meticciato si mette di fronte alla polarità omogeneo/eterogeneo creando una mescolanza tra la fusione totalizzante dell’omogeneo e la frammentazione diversificante dell’eterogeneo. Il sincretismo stesso, quando procede all’abolizione delle differenze attraverso addizioni, opera la stessa violenza che riduce all’unità: il molteplice si trova vinto in quanto oramai assorbito nell’uno (Laplantine, 1997).

Dunque il sincretismo ha degli aspetti contrari e Mae Stella de Oxossi se n’è resa perfettamente conto scrivendo che “qualcosa viene persa in esso”. Nel caso del sincretismo religioso brasiliano ciò che si “perde” è la purezza dei culti originari africani, da qui la volontà di de-sincretizzare le pratiche di culto da parte di molte Case di Candomblè bahiano.

Laplantine illustra poi come nella parola francese mètissage sia contenuta la parola tissage, la tessitura, il lavoro del tempo e del molteplice.

Un lavoro certosino di tessitura che possiamo facilmente ritrovare nella nostra cultura d’origine.

Il Mediterraneo infatti è stato per secoli un officina di “scambi” mercantili, militari e religiosi, scientifici ed artistici.

Basti pensare al Rinascimento o al Barocco per fare un esempio, ma ancora più indietro ritroviamo la concezione della polis che nel pensiero degli stoici sarebbe dovuta diventare una cosmopolis, una società in cui il concetto di straniero diventava superfluo.

Non era raro vedere i popoli conquistatori diventare eredi dei popoli conquistati.

In ogni caso è sempre presente la nozione della mobilità, del viaggio, il cui emblema è Ulisse.

“Il meticciato è dunque un’invenzione nata dal viaggio e dall’incontro. Ma non è sufficiente che le culture si spostino, si incontrino o anche solo si frequentino perché questa trasformazione abbia luogo.

Spesso la mobilità delle popolazioni riunite in una stessa città non crea nulla di simile. Il processo del meticciato comincia nel momento in cui la nazionalità non è più sufficiente per definire l’identità, mentre l’appartenenza stessa a queste città-mondo (cosmopolis) è molto più utile” (Laplantine, Nouss, 1997).

Recuperare questa apertura mentale è difficile ma non impossibile e la scuola, intesa come laboratorio di apprendimento e sperimentazione per le nuove generazione, può fungere da trampolino di lancio. Con quali strumenti può avvenire questa trasformazione?

a.2 Esercitarsi alla mediazione culturale

E’ possibile trovare una soluzione al precedente quesito in un parola che più e più volte ho utilizzato all’interno di questo elaborato, ovvero mediazione.

Avere a disposizione un mediatore linguistico - culturale può aprire le porte della relazione con l’altro, evitare i conflitti e permettere l’accesso in mondi che l’operatore italiano non potrebbe nemmeno immaginare, e questo perché semplicemente li ignora.

Il discorso può sembrare ripetitivo e banale ma invece non lo è poichè la sola presenza del mediatore tra due persone non implica che stia avvenendo una mediazione, bisogna invece “attivare una strategia di pensieri e di pratiche che ci aiuti ad incontrare la diversità” (R. Cima, 2005).

Dunque bisognerebbe innanzitutto formare i mediatori, e secondariamente gli operatori che con questi lavorano.

Tale è la premessa e al contempo la soluzione a tutti i discorsi sui migranti, senza tale incipit l’utilizzo della mediazione linguistico - culturale risulta a mio parere riduttiva se non controproducente in alcuni casi.

Ad esempio quando il mediatore funziona da semplice interprete o addirittura da traduttore la mediazione non sta avvenendo, e d’altronde tradurre alla lettera (come spesso viene chiesto di fare ad un mediatore) può essere fonte di non pochi malintesi culturali per cui ritorna l’accoppiamento delle parole traduttore traditore42.

La traduzione letterale di un testo, ci spiega Laplantine, si basa su tre principi: il senso sarebbe isolabile dalla forma; il testo è riducibile ad un nocciolo semantico fisso che il traduttore deve riconoscere; la relazione fra i due enunciati è asimmetrica, dal momento che l’importante è far passare il messaggio nel testo di arrivo.

Una simile teoria, continua, è tanto ideologica quanto illogica dal momento che “si tratta di accogliere lo straniero levandogli tutti i segni dell’estraneità, di accettare l’altro solo nel momento in cui perde ogni senso di alterità”(…) “se è vero che né pain né bread contengono l’essenza del pane, sappiamo d’altra parte che ciò che troviamo su una tavola francese o una tavola britannica non ha lo stesso gusto e nemmeno la stessa funzione” (Laplantine, 1997).

Il senso cambia poi in base al contesto, il pane utilizzato non in un contesto pragmatico ma religioso ad esempio, non ha più valore per le sue qualità nutritive ma simboliche! Ciò dimostra che “non esiste un regno platonico nel quale il senso sarebbe univoco e che risulta impossibile cancellare il contesto, il quadro culturale e la rete di connotazioni dal testo originale”(…) “cancellare la distanza fra le lingue in nome di un principio di comunicazione e di comprensione universale si rivela incontestabilmente fragile. La traduzione potrebbe e dovrebbe al contrario segnare la distanza fra le lingue, mostrare che esistono lingue differenti” (…) “La traduzione è dialogo fra le lingue. Il dialogo si valuta come l’incontro e il viaggio: il suo valore dipende dalla distanza percorsa” (ibid).

Ricapitolando costituisce un errore confondere il mediatore col semplice ‘traduttore’. Tradurre deriva dal latino trans-ducere ovvero “far passare da un luogo ad un altro”, trasformare i termini da una lingua ad un’altra, ma questa azione molto spesso non basta per dar luogo ad una reale comprensione delle cose, ci troviamo ancora ad un livello superficiale. Solo addentrandoci in quel complesso circolo ermeneutico qual è la comunicazione, coglieremo l’importanza del termine ‘interpretare’, dove l’interpres nel mondo latino era per l’appunto il mediatore.

L’abilità del mediatore consiste nello svelare tutti o gran parte degli “impliciti”, ovvero dei significati scontati per il gruppo a cui si appartiene, che il testo racchiude dentro sé (Sala, 2004).

Per cui, mentre le traduzioni e le spiegazioni restano aderenti al testo dato, le interpretazioni aggiungono a questo un senso che esso non contiene esplicitamente, ma che viene, appunto, prestato dall’interprete (Coppo, 2003).

Sybille de Pury descrive la traduzione come il “regno del malinteso”: pronunciamo delle parole e ci sembra di capirci, ma non sempre è così, infatti, quello che intendiamo per ‘linguaggio generico’ è, in realtà, un linguaggio carico di impliciti.

Ad esempio, se una madre di origine congolese, rivolgendosi a un servizio psichiatrico, dovesse esprimersi in questi termini: “mia figlia ha qualcosa nella testa” la frase, tradotta letteralmente, sarà interpretata dal terapeuta alla maniera della psichiatria occidentale (“E’ schizofrenica? Delira?”ecc.). Se invece, tra operatore e utente, farà da ponte un mediatore esperto, quest’ ultimo informerà il primo che, secondo la madre, la figlia sarebbe posseduta (Sala, 2001).

L’errore più frequente nei nostri Servizi o nelle nostre scuole, spiega Rosanna Cima nel corso di una lezione di Master in Mediazione Culturale tenuta nel Gennaio 2008 a Verona, è pensare che siamo tutti uguali, cercare le somiglianze mentre non vediamo le differenze. Per questo è importante, per un operatore che lavori con soggetti stranieri, capire come noi vediamo l’altro, con quali processi conoscitivi ci approcciamo a lui .

“Lavorare nella mediazione significa lavorare in uno spazio tra me e l’altro. Se questo spazio è talmente grande dobbiamo inventare una modalità di incontro in cui i conflitti e le differenze formino delle strutture su cui operare insieme (operatore - mediatore - utente).

Per cui aprire uno spazio di mediazione significa: strutturare una lingua ed un processo perché possa esistere, congiuntamente al nostro, il mondo dell’altro e da qui partire con una pratica educativa o di cura” (R. Cima, lezione Master Mediazione Culturale, Facoltà di Scienze dell’Educazione Verona 11-01-2008).

La frase fondamentale da pronunciare nel momento in cui ci sembra di comprendere è, secondo R. Cima, “non ho capito” poiché come scrive anche T. Nathan : “l’ostacolo maggiore alla comprensione è esattamente l’impressione che si stia comprendendo” (Nathan, 2001).

A volte si pensa di aver com-preso ed invece si è ben lontani dal significato reale che dietro le parole di una lingua straniera si cela.

Da qui il malinteso da qui l’incontro tra persone che provengono da realtà culturali diverse che a volte si trasforma nello scontro. L’ospitalità che si trasforma in ostilità.

Quando utente e operatore provengono dallo stesso luogo e condividono la stessa cultura la comunicazione sarà probabilmente meno “implicita”, ma nel caso in cui i due interlocutori appartengono a lingue e culture completamente diverse la presenza del mediatore risulta essenziale.

Questo è il caso che si riscontra più frequentemente nei contesti italiani, laddove un professionista (psicologo, psichiatra, medico, giudice, insegnante ecc.) cerca di comprendere e di farsi comprendere da un soggetto straniero e viceversa.

Capiamo bene che la relazione secolare che vuole l’operatore da una parte ed il soggetto dall’altra cambia, non è più un rapporto vìs a vìs ma un rapporto triangolare (vedi fig. n. 2).

Per quanto riguarda il lavoro psicoterapico nello specifico, secondo la visione di G.M. Sala, possiamo pensare al rapporto operatore - mediatore - utente come ad un triangolo i cui vertici mediatore-paziente e mediatore- terapeuta interagiscono in continuazione. Al contrario la freccia che va dal paziente al terapeuta e viceversa è sbarrata. Questo sta ad indicare l’enorme difficoltà della relazione paziente-terapeuta senza il costante supporto del mediatore.

Tutti e tre appartengono ad un proprio gruppo di origine; sta all’abilità del mediatore sottolineare la presenza delle varie differenze linguistiche e culturali, ma spetta all’operatore saperle cogliere e approfondire con una sapiente interrogazione sui modi di pensare e di dire presenti nei gruppi. Infatti, la domanda chiave della mediazione è : “come si dice questo da voi?” (Sala, 2001).

Il mediatore interpreterà le parole del paziente adoperando la terza persona, non dirà cioè “io dico” bensì “egli dice”.

Stando alle parole di S. de Pury, usando il discorso indiretto le parole divengono più “attive” della parola diretta.

Paradossalmente l’abbandono dell’ “io” e il suo mutamento in “egli dice” rende chi parla in prima persona maggiormente autore e soggetto del suo discorso (de Pury, 1998).

Fig. n. 2

Mediatore

Possiamo pensare al rapporto operatore -mediatore - utente come ad un triangolo i cui vertici mediatore-utente e mediatore-operatore interagiscono in continuazione. Al contrario, la freccia che va dall’utente all’operatore e viceversa è sbarrata, questo sta ad indicare la difficoltà della relazione tra i due senza il supporto del mediatore.

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Operatore Utente